Dove abiti tu?

Dimorare
Abbiamo tutti bisogno di trovare un luogo dove stare, in cui sentirci a casa.

Gli innamorati quando si innamorano, gli sposi quando edificano la loro casa, i ragazzi che cercano un gruppo di appartenenza, chi segue le mode, chi condivide o mette “mi piace” a una playlist su Spotify, chi si iscrive a un canale YouTube… tutti cercano un “posto” non solo fisico e non immateriale da cui attingere un tratto di vita.

È la ricerca di una dimensione “spirituale”, che faccia sintesi delle esperienze del corpo, dell’anima, dei sentimenti e delle emozioni, per farci trovare senso e bellezza nelle cose, e riconoscere che questa esistenza merita di essere vissuta.

«Dove abiti?» 
Chiunque cerca una guida, un mentore, un compagno di viaggio e una persona da amare, o anche semplicemente un gruppo di lavoro o una comunità dove stare, porta questa domanda nel cuore.

La domanda che i discepoli di Giovanni Battista rivolgono a Gesù, dunque, esprime almeno due sfumature:

1) Dove abiti perché ti possiamo seguire, perché possiamo abitare lì anche noi?! Sei affascinante per me? Sei in grado di farmi sentire vivo?
2) Dove abiti TU. Che cos’è che fa vivere te, Gesù? Cos’è decisivo per te, Maestro?

Entrambe le domande sono importanti, ma la prima è più inflazionata. Per me la seconda è molto più interessante: cos’è, Gesù, che ti ispira? Qual è il segreto tuo?

Colui che dirada le tenebre
Avete presente quando si incontra un “guru” in qualche ambito (uso la parola “guru” nel suo significato originale di “colui che dirada le tenebre”)? Ecco, quando si incontra uno che ti chiarifica o ti illumina a partire dalla sua chiarezza, ci si chiede sempre quali siano le sue sorgenti, chi siano stati i suoi maestri, come abbia percorso quel cammino che l’ha portato ad essere così.

Ecco, i discepoli di Giovanni Battista dovevano avere pensato questo del loro (primo) maestro. Giovanni era un uomo “pazzesco”, straordinario. Secondo le fonti ha lasciato il segno nella comunità di Gesù ancora per più di un secolo. Gesù stesso lo avrebbe definito «il più grande tra i nati di donna». Loro, i suoi seguaci più stretti, dovevano avere pensato che la loro ricerca più profonda era compiuta, come lo sportivo che fosse certo di avere trovato il miglior allenatore possibile.

Invece lui, il Battista, indica Gesù.

Da qui quella domanda lapidaria, piena di aspettative, di curiosità e di ricerca: «Maestro, dove dimori?».

Gesù
Quello che aveva da dire Gesù era sproporzionato per una sola risposta. A quel punto, egli non può che ribattere: “Venite e vedrete.” Ti introduco in qualcosa di talmente sorprendente, che non vorrai più rinunciarci.

I discepoli lo avrebbero capito ben presto… e anche noi lo capiamo nella nostra esperienza cristiana. Al seguito di Gesù siamo istruiti in uno stile e una vita delle relazioni, con gli uomini e con Dio, che non finiamo mai di imparare. La sua vicinanza, il suo affetto, la sua autenticità superano sempre quello che pensiamo di avere potuto ammirare. La sua onestà di fronte alla “serietà” e bellezza della vita, e allo stesso tempo la sua capacità di vivere cose vere e di farci capire come la vita andrebbe vissuta, non cessano di affascinarci e di attrarci.

Un giorno nuovo
Giovanni, l’evangelista, ricorderà quel giorno per tutta la vita. Quando scriverà il Vangelo, da uomo molto anziano lui, che era stato il discepolo più giovane, non mancherà di appuntare: «Erano circa le quattro del pomeriggio». La nota non è solo la testimonianza commovente della bellezza di quell’incontro, ma molto di più. Nel conteggio ebraico del tempo che conta i giorni non a partire dal mattino come noi, ma dal crepuscolo, quel ricordo indica l’inizio di un giorno nuovo.

Don Davide

tramonto




Una sapienza per la vita

La tradizione della Chiesa di fronte alla morte 

Nella cultura di oggi la morte è stata rimossa. Ci illudiamo di poterla quasi eludere, grazie alle conoscenze sul benessere psico-fisico, per l’incredibile sviluppo della medicina, con l’ausilio della tecnologia, ma quando poi siamo costretti a farci i conti siamo impacciati, la nominiamo con imbarazzo, cercando gli eufemismi. 

In realtà, non c’è nulla di male, in questo. 

Ma la fede in Gesù ci aiuta a confrontarci con la morte, senza sottovalutarla, ma anche senza averne così paura da doverla rimuovere. Anzi, ci permette di nominarla e di farla oggetto di meditazione per la nostra esistenza. 

In questi mesi della pandemia, in modo particolare, la morte è stata vicina. Inevitabilmente, qualcuno si sarà scontrato contro il pensiero che la Cattiva Signora avrebbe potuto raggiungerci, in modo subdolo e inaspettato. Affrontare il pensiero, senza battere in ritirata, ci aiuta a imparare la sapienza. 

Ho vissuto bene, fino ad ora? 

Gesù è risorto, e la grande tradizione ci insegna che nell’attraversamento del Luogo delle Ombre – lo Sheól, in ebraico – lui prende per mano tutti i “prigionieri” e li riporta nel Giardino della Vita. Questo potrebbe essere il secondo elemento per meditare: il ricordo di coloro che abbiamo amato, che ci hanno preceduto e ci aspettano. 

Siamo persuasi che ci rincontreremo? 

Fin dai tempi delle catacombe, l’esperienza della Chiesa insegna che nella messa offerta per la memoria dei defunti, noi meditiamo su queste due domande. Nella messa, infatti, mentre siamo coinvolti in questa mensa collocata tra la terra e il cielo, che ha come commensali i vivi e i defunti, da un lato ci interroghiamo sul senso della nostra esistenza, dall’altro guardiamo alla comunione dei santi, fiduciosi che loro ci accolgano e che di questa comunione possiamo davvero fare esperienza, anche se “da qui” è sempre molto difficile. 




La fede e la vita

Concludiamo, con questa domenica, l’itinerario pasquale prima delle due grandi feste che chiudono questo tempo di grazia: l’Ascensione (domenica 24 maggio) e Pentecoste (domenica 31 maggio).

I testi della liturgia si aprono con il diacono Filippo che predica la parola di Dio e le folle che ci vengono descritte come unanimi nell’ascolto, perché vedono i segni che accompagnano l’annuncio di Filippo.

Sostiamo su questi due particolari: la coerenza persuasiva di Filippo e le folle unanimi.

Filippo era un uomo noto e stimato, per questo era stato scelto come diacono per il servizio alle mense. Tuttavia, il racconto degli Atti ce lo mostra tutto dedito all’annuncio del vangelo. Proprio per la “coerenza” che lo caratterizza, non abbiamo alcun motivo per pensare che non si sia dedicato al servizio di carità. Anzi, dobbiamo credere che proprio quel servizio fa parte dei “segni” che tutti vedono e ammirano e da esso viene – quasi come forza intrinseca – la necessità di annunciare Gesù.

Questo discorso di Filippo, il suo stile, mette tutti d’accordo. È la migliore concretizzazione dell’invito nella seconda lettura ad essere pronti a rendere ragione della speranza cristiana, con uno stile inoppugnabile.

Domani riprenderanno le messe. Abbiamo vissuto tutta la Quaresima e quasi tutto il tempo di Pasqua senza la celebrazione dell’Eucaristia, ma non senza vivere e testimoniare la nostra fede in molti modi. Ritornare a messa domani (lunedì 18) non può certo essere un “riprendere da dove ci eravamo lasciati”, come se nulla fosse successo.

A me sembra che proprio questa lezione che impariamo dall’esempio di Filippo ci possa aiutare. Tornare a messa è la conseguenza delle nostre azioni, coerenti con la nostra fede. In questo tempo ci abbiamo messo tutta la carità possibile, non da soli e insieme a tanti altri fratelli e sorelle. Ma questo avere partecipato alla crisi del mondo ci fa sentire ancora più l’urgenza di ascoltare la Parola di Dio insieme, di esprimere il frutto della terra, della vite e del nostro lavoro, di annunciare la Pasqua del Signore finché egli venga. La fede che ha sempre i piedi ben piantati nella vita e la vita che sbocca spontaneamente nell’espressione della fede sono per noi due poli inscindibili. Fede e vita, vita e fede. Sempre insieme o accanto a tutti gli uomini e le donne che desiderano considerarsi fratelli e sorelle, o amici. Il collante di tutto è l’amore.

L’amore che per noi cristiani ha la forma concreta dei sentieri che Gesù ci indica. In essi noi riconosciamo di non essere orfani di indicazioni, al contrario, riscopriamo di avere un Padre amorevole e buono, un papà con cui abbiamo un ottimo rapporto, che ci indica le vie della vita.

Don Davide

fede e vita




Vedere la gloria di Dio

Ci sei o non ci sei? 

La grande domanda che guida il racconto della resurrezione di Lazzaro – il Vangelo di questa V Domenica di Quaresima – la domanda identica che esprimono sia Marta che Maria è legata all’assenza di Gesù, che ci fa sentire soli, o alla sua presenza, che ci custodisce: Se tu fossi stato qui mio fratello non sarebbe morto”. 

Ci sei, Gesù, nella mia vita di credente? 

Ci sei, quando mi sento solo e affaticato? 

Ci sei in mezzo a questa epidemia, per curare le persone che muoiono o non ci sei? 

A differenza del famoso racconto di Gesù nella casa di Marta e Maria, qui scopriamo che è Marta ad avere una fede più grande, è radicata nel rapporto con Gesù, dialoga con lui e raggiunge una delle più grandi professioni di fede che si possano immaginare, forse la più grande di tutto il vangelo: “Io credo che tu sei il Messia, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo!”. Dire di più di così, non si può. 

Questa sua professione di fede, però, non chiude il discorso. Al contrario, coinvolge il cammino di tutti, il cammino dei singoli, il cammino dell’esperienza di un popolo, e il cammino di una comunità. 

Marta va a chiamare sua sorella, la interpella, le lascia spazio, accetta che anche lei compia un cammino e faccia i suoi passi, favorisce il suo incontro. 

“Il Maestro è qui, e ti chiama!” 

Il Maestro è qui, c’è eccome. Entra in tutte le situazioni, non fa venire meno la sua presenza. Sa che Lazzaro è morto. Si è accorto che c’è tanta sofferenza e difficoltà. E chiama te!  

Questo è il momento di incontrarlo. 

Questo è il momento di una vocazione. 

È stupendo che Gesù non consumi l’incontro come un fuoco con la stoppia. Lui aspetta la sua amica fuori dal villaggio. Le concede il tempo di un piccolo cammino, di uscire da se stessa, di pensare quello che lei vuole dirgli. 

Maria è più in difficoltà di Marta. Forse è arrabbiata con Gesù, si ferma all’obiezione, non ha altre parole. Dice solo: “Se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto.” Non aggiunge nessuna professione di fede, anche se già questo lamento agli occhi di Dio è una supplica piena di amore e di fiducia. 

E piange. 

Maria è in crisi, ha bisogno di attraversare  il dolore e la commozione insieme a Gesù. E Gesù piange con lei. E di fronte a questa scena di dolore così intensa, tutti piangono. Gli abitanti di Betania sono scettici: “Costui che ha ridato la vista al cieco, non poteva fare sì che il suo amico Lazzaro non morisse?”. 

Anche Marta, che pure aveva fatto quella professione di fede grandiosa, vacilla, ed è sopraffatta dal dolore. Pensa che in fondo, nemmeno Gesù lo possa affrontare davvero. “Signore è già tardi… in realtà le nostre speranze sono svanite. Rimane solo l’amicizia, l’affetto, il conforto umano.” 

Qui Gesù tiene il punto: “Non ti ho detto che se crederai, vedrai la gloria di Dio?” 

La gloria di Dio, per gli ebrei, non è qualcosa di spirituale, di astratto. Al contrario è un’esperienza molto concretauna presenza ingombrante. Il segno tipico della gloria di Dio era il fumo denso che riempiva la tenda del santuario di Dio, al punto che nessuno, quando la Gloria era sulla tenda, poteva entrare o uscire.   

Qual è dunque, quest’esperienza così concreta e decisiva? È la fede di un singolo e di una comunità che viene suscitata nei nostri giorni fragili, e il fatto di condividere la lotta contro la morte di un intero popolo. 

Attenzione perché qui si rischia il più grande fraintendimento alla storia di Lazzaro. Il messaggio non è la sua rivitalizzazione, perché di fronte a quella, noi pensiamo subito all’illusione di non morire mai, e diciamo: “Eh, ma i nostri morti non li fai rivivere!”. Il punto decisivo, per noi, è che possiamo credere in Gesù, come singoli e come popolo, e avere una nuova esperienza di vita solo affrontando e attraversando la questione della morte. 

Soltanto in questa luce trova senso la decisione apparentemente assurda e macabra di Gesù di tardare la visita a Betania, per poi andare dopo a resuscitare Lazzaro. Gesù vuole che non esorcizziamo la morte, ma che la consideriamo nella nostra vita, compiendo il cammino della fede e tenendo ferma la speranza.  

Ve lo immaginate Lazzaro, fuori dal sepolcro? Gesù gli dice, vieni fuori, ma doveva essere ben difficile camminare mummificato! 

Allo stesso modo, guidati dalla fede e chiamati dalla speranza, anche noi compiamo piccoli passi, legati, incerti, in equilibrio precario, e veniamo sciolti dalle bende della morte che ci avvolge e vorrebbe impedirci di andare. 

Ieri un amico mi ha scritto: “Io posso anche morire domani, se ho imparato ad amare.” 

Cos’è che rende piena improvvisamente la mia vita con un atto d’amore? 

Questo è il punto cruciale del racconto della resurrezione di Lazzaro: ed è bellissimo vedere come inizia da una professione di fede, incontra una fede in difficoltà, attraversa il dolore e la compassione, suscita la fede di una comunità intera. 

Forse, una testimonianza resa così, sarà la vera nuova evangelizzazione della Chiesa. 

Don Davide

Nebbia