Omelia Venerdì Santo
Nella prima scena di questo racconto, si fronteggiano Gesù e Giuda. Sono amici, anche se Giuda non è rimasto nel cenacolo fino ad ascoltare le parole di Gesù: “Non vi chiamo più servi, ma amici”. Gesù lo aveva voluto personalmente tra quegli amici che erano destinati per primi a conoscere l’amore di Dio per il mondo, gli aveva lavato i piedi e gli aveva offerto il suo affetto, perché si allontanasse dal suo proposito e si affidasse all’amore.
Ma, nel momento in cui aveva accolto quel boccone e aveva deciso di andarsene, Giuda era sprofondato nella notte, in balia di Satana.
Il loro incontro al Getsemani è impressionante. È un posto che Giuda conosce, perché era un luogo di preghiera condiviso. Com’è possibile che si sia tramutato in uno spazio di lacerazione così profonda?
Gesù è lì con i discepoli. Giuda arriva con il suo seguito. Non è un assalto, ma uno schieramento di due fronti opposti: Gesù davanti ai suoi, Giuda con i soldati e le guardie.
Dallo scambio che segue, pare che Giuda non riconosca Gesù: Gesù è lì davanti ai suoi occhi, con tutta la loro storia condivisa e chiede: “Chi cercate?” e Giuda parla di lui in terza persona: “Gesù il Nazareno”.
Come è stato lo scambio di sguardi tra Giuda e Gesù?
La passione degli uomini e delle donne inizia quando uno non riconosce più l’altro, con il quale ha condiviso una storia insieme e una speranza di bene per il futuro.
Le croci del mondo cominciano ad essere piantate quando in una coppia che ha deciso un progetto di vita insieme non ci si riconosce più, si diventa avversari e nemici; quando due popoli che parlano una lingua simile come i russi e gli ucraini, o che vivono da decenni nella stessa terra come gli ebrei e i palestinesi, cominciano vedere nell’altro nient’altro che un nemico; quando un essere umano non riconosce più un essere umano, con la stessa dignità e lo stesso bisogno di essere rispettato e amato; quando fra amici si litiga e non ci si riconcilia più, dimenticando tutto ciò che di bene c’è stato.
Si tratta di non riconoscere la verità sulla nostra vita, sugli incontri che abbiamo fatto e le relazioni che abbiamo costruito.
Che cos’è la verità? Chiede Pilato a Gesù, ma poi non si ferma ad ascoltare la risposta.
Che cos’è la verità? È una domanda che sta letteralmente al centro di questo racconto e avrebbe potuto segnare una svolta. Pilato sa che Gesù è senza colpa. Per tre volte lo dice di fronte agli accusatori e per altrettante volte cerca di liberare Gesù, ma alla fine volta lo sguardo dall’altra parte.
Questo accecamento di fronte alla verità delle cose stordisce tutti quelli che hanno a che fare con Gesù e non si lasciano illuminare dalla luce che potrebbe riportali a se stessi:
- Pietro, che nega platealmente di conoscerlo;
- i suoi accusatori, che possono voler uccidere ingiustamente un uomo con il consenso dell’Impero, ma non si vogliono contaminare calpestando il cortile del governatore;
- i capi dei sacerdoti – la classe dirigente, il governo del popolo – che proclamano di avere come unico re l’Imperatore di Roma. Questa affermazione è un tale infarto teologico, che tutte le Scritture di Israele potrebbero bruciare al sentirla.
Tutte le croci e la passione del mondo sono simboleggiate nella passione e croce di Gesù, proprio in questo stare di fronte alla realtà, riconoscere la verità… e fare finta di niente. È una obliterazione totale della coscienza e del senso della propria esistenza.
Di fronte a questo scenario Gesù svela a sua madre e al discepolo la verità della loro esistenza, così che lo stesso discepolo possa finalmente dare testimonianza della verità.
Qual è, dunque, la nostra verità? È generare ed essere generati. È essere madre e figli e riconoscere la Chiesa, madre e discepola, come lo spazio di comunione dove possiamo rispondere alla nostra vocazione.
Credo che sia importantissimo sentire questo dovere di generare, ma allo stesso tempo di lasciarsi generare; di proporre un esempio e di lasciarsi educare; di insegnare e di apprendere; di guidare e farsi condurre; di trasmettere vita e accettare che la vita si riceve sempre in dono dagli altri.
È così che ogni discepolo rende una testimonianza vera dell’amore di Gesù e della rivelazione di Dio. In tutta quella confusione e allontanamento dalla verità di se stessi, il cuore aperto del Crocifisso ci riporta alla possibilità di affermare che questa è la verità, non un’altra: l’amore incondizionato di Dio riversato senza misura su ogni uomo e su ogni donna.
Fra poco faremo il rito dell’adorazione e, per chi vuole, del bacio della croce. Al termine della processione e del canto vorrei poi lasciare uno momento di silenzio per stare davanti alla croce e chiedere al Signore di aiutarci a fare verità in stessi.
Che Gesù possa illuminare i nostri sentimenti, rischiarare i pensieri, aiutarci a riconoscere chi siamo, cosa abbiamo costruito, quali sono i nostri desideri profondi.
Che la sua croce ci aiuti a riconoscere le nostre paure e ad affrontarle, e ad apprezzare il senso della nostra vita e la nostra vocazione.
Non basteranno questi pochi minuti, ma potrebbero essere un inizio verso un contatto sempre più vero con noi stessi.
C’è un’ultima verità, da scoprire. Gesù viene deposto in un giardino, in una tomba in cui nessuno era stato ancora deposto. Una tomba nuova, che non aveva ancora conosciuto la morte.
Il giardino richiama il dono della Creazione. Gesù viene deposto in un giardino, in una tomba vergine che rispedirà la morte al mittente, perché sia chiaro a tutti che, in verità, non c’è proprio più posto per la morte in questo giardino.
Don Davide