Un prato sbruciacchiato dal sole

A guardarlo dall’alto, sembrava un prato in mezzo alla terra color ocra dell’Africa. Su quel verde acido, sbruciacchiato dal sole, c’era una corona di fiori di calendula, di quell’arancione vivo che pareva persino innaturale.

La calendula, si sa, è una pianta che fa bene… a tante cose.

Lenisce, soprattutto, le bruciature, ma è ottima per qualunque esigenza di medicazione, quando si ha bisogno di sollievo.

In un tardo pomeriggio di fine giugno questi fiori di calendula, forse anche loro investiti dal vento che aveva accompagnato i naviganti tra mille avventure, si aprirono, mostrando al cielo le cose che di solito nascondono.

“Sono felice come un bambino che scarta i regali a Natale” disse la prima.

“Io sono felice come quando mangio una pizza” gli fece eco il secondo.

“Io invece sono tranquillo come dopo una verifica”

“E io nostalgica come quando finisce l’estate”

“Ah no – disse uno, più sportivo degli altri – io sono felice come un goal al 98’!”

“Io sono felice come quando non ho avuto il debito a scuola” gli fece eco una che quell’anno era stata un po’ meno diligente alla scuola dei fiori.

C’era, però anche chi era triste, non perché la vita di quei fiori fosse brutta o andata male, ma perché quella giornata di sole era finita.

E poi c’erano i fiori stanchi: tutto quell’aprirsi alla luce e chiudersi alla sera col buio, per tutti quei giorni, avevano intorpidito le giunture dei loro petali. Una di loro disse: “Sono stanca come se non dormissi da due settimane…” Ma un fiore, viene da chiedersi, non si riposa mai?!

In modo particolare c’era qualcuno che si lamentava di avere combattuto con un moscerino pestifero per tre settimane, e chi era stanco per tutti i giochi fatti con gli altri fiori.

Tra tutti, una disse semplicemente: “Io sono esausta” e si poggiò su una foglia per dormire.

Nonostante fosse l’inizio dell’estate, alcuni si sentivano ancora fra i banchi di scuola e forse erano troppo privi di energie o timidi per parlare a lungo, e riuscirono soltanto a dare dei voti: “Io sono felice 9”, “Io ho sonno 8”, “Io sono felice 9”.

“9 è troppo, io sono felice, ma 8”.

“Io sono soddisfatta 8” dissero in due all’unisono, facendosi un sorrisino per la complicità.

“Io son proprio serena… voto 9”.

“Eh, addirittura dissero gli altri!”.

“Io sono nostalgica…” disse una poggiandosi un petalo sulla guancia.

“Io sono stressato” replicò un altro.

“Io sono felice e triste al contempo”.

La nostalgica e lo stressato, felici e tristi al contempo.

Sembrava una buona sintesi della loro avventura, ma saltarono su altri a dire:

“I’m as happy as when I get a good grade in English!”. Si alzò un boato per lo slego in lingua che aveva fatto la loro compagna.

“Io sono felice come un gatto che mangia i cioccolatini” disse una, leccandosi una foglia.

Si arrivò, quindi, a raccontare della propria soddisfazione:

“Io sono soddisfatto come quando dico agli altri fiori petulanti di stare zitti, e loro finalmente lo tacciono!”.

“E io sono soddisfatta come dopo un lungo pellegrinaggio” disse una particolarmente spirituale. “Io come al termine di una gita” si attaccò subito un’altra, parlando della sua di soddisfazione.

“Io infatti sono felice di essere arrivata fin qui” le fece eco un’amica.

“Già, anch’io – disse l’ultimo rimasto – È come avere raggiunto un rifugio di montagna… e ora ci godiamo anche la discesa!”.

Beh, forse non era un prato in mezzo alla brulla terra africana, ma un vecchio cortile tra i tetti rossi di Bologna. Si crede che i fiori di calendula non crescano tra il cemento e le strade. Ma se guardi bene, con gli occhi non della fantasia o dell’immaginazione, ma con quelli della dedizione, allora li troverai.

Di solito non si mettono in mostra, non si fanno notare, non si aprono. Ma ci sono e nascondono segreti.

E noi li ringraziamo, perché colorano di bello la nostra città.

Don Davide

 

Scarica le Preghiere degli Animatori di ER




Custodire e coltivare

C’è una vigna da custodire e da coltivare.

È da custodire, perché Dio ce l’ha affidata e non va rovinata.

È da coltivare perché va fatta crescere.

Abbiamo quindi due doveri nei confronti della comunità cristiana, da prendere tanto più sul serio in quanto siamo proprio all’inizio dell’anno pastorale. È un dovere nei confronti dei bimbi del catechismo, dei ragazzi, delle famiglie e delle persone che hanno più bisogno. È un dovere reciproco verso tutti coloro che sentono la nostra parrocchia come casa.

Il primo è di non sciupare il dono che ci è stato fatto.

Cioè non fare cose brutte, sciatte, noiose, che non rendono giustizia alla bellezza del vangelo. Spesso le persone si allontanano dalla fede perché noi le abbiamo “sprecate”.

Il secondo è di arricchire questa comunità di partecipazione, presenze, ma soprattutto di fede, di carità, di speranza e di affetto.

Sentiamo una particolare responsabilità verso i ragazzi delle medie, i gruppi ACR che iniziano un nuovo percorso, con l’incontro tra le educatrici di 1 media e i loro genitori; verso i bimbi del catechismo che incomincia la prossima settimana, perché possano fare un’esperienza viva di Gesù; e, ultimo ma non ultimo, per il numeroso gruppo giovani dell’AC e degli studenti fuori sede, che con tanto entusiasmo ha arricchito la nostra parrocchia e la diocesi con la sua presenza.

San Paolo ci dice però di vivere tutto questo senza angustie, con piena fiducia, affidati al bene, con quella lieta serenità di chi vive un’avventura comune e che sa che, come un manto sopra tutto il nostro impegno, vi è la grazia e la benedizione del Signore.

Don Davide




Riposo

“Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi…” (Mt 11,28) e farete vacanza!

Il vangelo non dice proprio così, ma per due volte Gesù afferma che troveremo ristoro.

Andare da Gesù come fare vacanza.

Oppure, fare vacanza e approfittare di un tempo disteso per stare un po’ con Gesù.

Facciamo sempre l’esperienza della fretta, di non avere tempo, di non poterci ritagliare un momento di pace. L’occasione delle ferie estive può riservare almeno una porzione del nostro tempo per questo. Non serve immaginare grandi cose o darsi dei nuovi impegni anche quando ci si dovrebbe riposare. Gesù dice: “Imparate da me che sono mite e umile di cuore” (Mt 11,29) e subito prima ha proclamato “beati i piccoli” (Mt 11,25).

Penso, allora a tre atteggiamenti per questo tempo.

Il primo: godere delle cose semplici, soprattutto degli affetti più vicini. Magari abbiamo in programma il viaggio della vita, l’avventura nelle isole esotiche, ma ciò che farà la differenza sarà sempre la compagnia affettuosa dei nostri compagni di viaggio e la capacità di apprezzare anche le cose più piccole. Oppure sedersi in un prato e gustare la magia di sapere che esistiamo e viviamo, all’ombra dell’amore di Dio.

Il secondo: consegnare i pesi a Gesù, che lui li sa portare e rendere leggeri. Entrare in una chiesina di montagna, fermarci davanti a un’edicola della Madonna, visitare un piccolo santuario sconosciuto, e lì sedersi un attimo e dire: “Gesù, Maria, vi affido questa mia preoccupazione, queste persone, questa fatica…”, magari accendere una candela, sentire il calore che si diffonde nell’anima e poi ripartire, rasserenati da questo aver sfiorato il lembo del mantello di Gesù.

Il terzo: ringraziare i giovani. Facilmente ci si lamenta di loro; spesso la loro esuberanza li porta alla ribalta nel bene e talvolta anche nel male. Qualche volta, mentre tu cerchi la quiete loro schiamazzano. E sia. Non mi stancavo di guardarli, all’Estate Ragazzi, scherzosi, gradassi, allegri, disponibili e tenerissimi con i bimbi. Un cocktail che fa esplodere in un grande ringraziamento anche Gesù: “Ti rendo lode Padre!” (Mt 11,25). L’evangelista non dice: “per i giovani”, non era neanche una categoria usata, a quel tempo, ma il vangelo va sempre attualizzato, e oggi ci sentiamo di tradurlo così: “Ti ringraziamo, Padre, per i ragazzi e i giovani. Siamo stati tutti giovani. Fa’ che si sentano stimati e accompagnati, non troppo custoditi, non troppo abbandonati, liberi di esprimersi e di portare nel mondo le forze buone che lo rinnovano”.

Don Davide




Il Corpus Domini e l’Estate Ragazzi

Ho cominciato ad andare a messa molto presto nella mia vita, a 14/15 anni circa. Non parlo della messa festiva, ma di quella feriale. Andavo in parrocchia o, alcune volte, per alcuni incastri di orari, nella chiesa di S. Maria Goretti vicino al Fermi, prima di entrare a scuola.

Non ero un mistico, o un marziano e neppure “bravo”; furono una serie di fortunati eventi a farmi prendere questa buona abitudine, che mi ha completamente cambiato la vita. Non saprei dire perché, ma so precisamente che cosa ha mosso tale cambiamento.

È stato l’incontro con il Corpo e il Sangue del Signore Gesù.

Durante gli studi di teologia lessi una frase di Sant’Ignazio di Antiochia, uno dei primi padri della Chiesa: “Questo calice è la carità di Cristo”.

Questa affermazione mi svelò che cosa avevo nel cuore: il desiderio di volere bene – che ora riconosco come la scelta fondamentale nella vita – e la scoperta che potevo farlo imparando da Gesù.

Ero sicuro di potere prendere ispirazione da lui e allo stesso tempo che non avrebbe condizionato la mia libertà, anzi che mi avrebbe reso più me di me stesso.

Per domenica prossima 11 giugno abbiamo invitato alla messa delle 10 gli animatori dell’Estate Ragazzi.

Sono particolarmente contento che sia la domenica del “Corpus Domini” (anche se detta così ha reminiscenze da compito di Latino, che appena finita la scuola potrebbero essere un deterrente…) perché spero che anche per loro possa essere un nuovo incontro con Gesù e che possano essere aiutati a trovare il sé più vero di loro stessi.

In realtà, non ho proprio idea di quanti animatori e animatrici verranno, perché d’accordo con la coordinatrice e le responsabili di Estate Ragazzi abbiamo deciso di fare un invito veramente libero. Con chi ci sarà, fossero anche due o tre animatori/animatrici, faremo un rito di presentazione, accoglienza e mandato.

Di questa cosa – di chiedere cioè un impegno serio per l’Estate Ragazzi, e allo stesso tempo di fare loro una (piccola) proposta di fede, che sembra anacronistica ed estranea alle loro abitudini, ma che possono educarsi a scegliere liberamente – ne facciamo un punto di onore.

Non è sempre stato così. Se qualche animatore o animatrice ci sta leggendo (sarebbe un primo miracolo!) sappia che don Davide, nelle due parrocchie dove ha fatto il cappellano, chiamava solo gli animatori e le animatrici che venivano al gruppo regolarmente e a messa tutte le domeniche!

Ma la pastorale non è un dogma: è un’arte fatta di discernimento, di condivisione, di sensibilità e di rispetto per i cammini concreti che ci sono in atto.

Perciò questa è la scelta pastorale che abbiamo preso in questo tempo, nella nostra parrocchia, e la cosa che ci fa più contenti è la possibilità di condividere l’Estate Ragazzi con tanti animatori e animatrici e di fare un pezzo del cammino della loro giovinezza insieme.

L’importante è che trovino la loro via personale e speriamo che di questi giorni possano lasciare un ricordo così bello, da portarlo con gratitudine persino davanti a Gesù.

Don Davide




Come i sentieri di montagna

“Non è giusto che noi trascuriamo la parola di Dio per servire alle mense…” (At 6,2).

Non è che gli apostoli fossero restii al servizio, ovviamente, ma avevano riconosciuto con precisione la loro vocazione, soprattutto in un momento delicato e di possibile disorientamento della comunità. Quindi, decidono con coraggio e consapevolezza di custodire il dono che avevano ricevuto.

Era la loro “parte migliore”.

Quella che – secondo le parole del Maestro (guarda caso riportate proprio nell’opera di Luca, lo stesso autore degli Atti) – non poteva essere tolta (Lc 10,42).

Gli uomini che vengono scelti come diaconi, erano ben conosciuti dalla comunità, apprezzati per il loro servizio e la loro fede, autorevoli. Non erano certo lontani dalla Parola di Dio. Semplicemente, l’ascoltavano in quella forma particolare e la mettevano in pratica così.

In questo modo, il racconto degli Atti ci mostra l’apertura delle vie della santità.

Sono i tanti fiori belli che sbocciano dai semi del Battesimo, e abbelliscono il prato della Chiesa e del mondo.

La via è Gesù, ma ben lungi dall’essere univoca, è poliedrica: si concretizza nelle tante forme di seguire, imitare e ascoltare Gesù.

La meta è unica: il Padre e l’esperienza commovente del suo amore.

C’è chi ama leggere, studiare, meditare e pregare la Parola di Dio scritta; c’è chi questa Parola la legge nei poveri e la impara nei poveri; c’è chi adora fare l’adorazione e chi, dopo cinque minuti che è in ginocchio davanti al SS.mo comincia a pensare a quale sugo preparare per la cena, ma in compenso è un fenomeno all’oratorio. C’è chi organizzerebbe mille incontri di formazione in parrocchia, e chi ha la pazienza di ascoltare fino all’eroismo chi ha bisogno anche solo di parlare o di compagnia…

È come salire sulla vetta di una montagna, raggiunta da molti sentieri, magari anche una via di scalata.

Qualcuno preferirà fare il sentiero più diretto e ripido; un altro sceglierà il percorso più panoramico; un gruppo si fermerà alla malga a rifiatare, gli altri non vedranno l’ora di mangiarsi il panino in cima. Qualche intrepido preferirà fare la scalata, ma ad alcuni farebbe venire le vertigini, e quindi percorreranno il lento percorso a zig-zag che si configura negli ultimi tratti di salita.

La cosa stupenda è che, a pensarci bene, man mano che si raggiunge la cima, i percorsi sono più vicini e, a un certo punto, magari proprio sotto la croce di vetta, convergono.

Così è la vocazione cristiana.

È importante che sia un saggio equilibrio: che chi ama la Parola di Dio dedichi spazio alla carità, e che chi farebbe centomila partite a biliardino in oratorio vada a dire i vespri in chiesa con la comunità.

Ma sia benedetta la passione che ciascuno mette per vivere il proprio Battesimo e percorrere una vita santa. E sia benedetto il momento meraviglioso, in cui ci si siede insieme dove il mondo sembra finire e rimane solo il cielo sopra di noi a rifiatare, ristorarsi, ricordare il cammino fatto e raccontarlo a chi ne ha percorso uno diverso.

Don Davide




Tutto diverso e piccolo

“Ci sarà un sentiero e un strada” (Is 35,8): di solito si scelgono i tracciati sulle mappe o si percorrono dei tragitti per arrivare a una meta, un luogo. Al termine ci può anche attendere un appuntamento, magari desiderato: l’incontro con un amico o una persona amata.

Oggi certamente la liturgia ci parla di questo itinerario: “ci sarà” (al singolare) un sentiero, inizialmente stretto, forse impervio, che diventerà una strada, prima una mulattiera, poi una strada battuta o addirittura pavimentata, che ci porterà all’incontro con Gesù.

Anche Giovanni Battista, che fra tutti era quello che aveva le idee più chiare, esita. All’inizio è difficile riconoscere in Gesù i segni grandiosi della salvezza di Dio, della redenzione del mondo.

“Sei proprio tu?” (Mt 11,3) chiede Giovanni.

Dopo la chiarezza straripante di domenica scorsa, viene assalito da un dubbio.

Sembra tutto così diverso, e piccolo…

Anche noi ci accingiamo a celebrare il Natale nella solennità della liturgia, con acclamazioni, formule e preghiere debordanti: “È nato il Salvatore!”, “Oggi la pace viene nel mondo!”, “Tutto è permeato di gioia!” poi guardiamo fuori e ci sembra che non sia proprio così. Oltre alla guerra, continuano altre cose brutte, e poi ci sono tanti dolori, solitudini e preoccupazioni, spesso nascoste.

Ma Gesù conferma Giovanni e noi, indicandoci proprio la direzione giusta e invitandoci a percorrere il sentiero corretto che diventerà una strada.

“Guarda”, dice, “guardate!” I segni dell’amore di Dio sono grandiosi e nascosti allo stesso tempo.

Bisogna saperli e volerli vedere. Bisogna allenare lo sguardo!

Quante volte è capitato che Gesù facesse un miracolo sotto gli occhi di tutti e solo in pochissimi lo riconoscessero, mentre gli altri ne facevano motivo di disputa, o addirittura di scandalo! Così è ancora oggi. Bisogna allenare i riflessi giusti, per cogliere la velocità con cui il regno di Dio si manifesta davanti al nostro naso, e poi scompare altrettanto velocemente se trova qualcuno non pronto o disposto a riconoscerlo.

Il Natale è una grande storia di libertà, interpellata e rispettata.

Perciò, allenati! Guarda. Per tutte le orribili guerre che sono in corso e per i regimi che uccidono i ragazzi, ci sono giovani uomini e giovani donne che hanno il coraggio di rivendicare la libertà. A proteggerci dalla violenza, quanti gesti di tenerezza ci sono? Di fronte alla malattia e alla sofferenza, che hanno un potere schiacciante e vanno rispettate con il massimo rigore, quanti gesti e risorse di cura vengono messi in campo?

Il regno di Dio, per farsi spazio, è anche una questione di decisione, di scegliere cosa guardare, come educare i nostri pensieri, dove orientare la nostra attenzione, su quali sentieri e strade percorrere i nostri passi.

Dipende cosa decidi di guardare, e i tuoi occhi saranno luminosi od oscuri.

Dipende cosa decidi di pensare e i tuoi pensieri saranno orientati al bene o malvagi.

Dipende quali percorsi intraprendi e ti troverai in una terra fertile e buona o in un deserto arido e ostile.

Il regno dei cieli è piccolissimo, ma se lo vedi, è più grande di ogni cosa.

Don Davide




Piccolo e nascosto

È una storia di incontri intimi quella di questa domenica: lo spirito del Signore che si posa su germoglio… (Is 11,2)

Chi può descrivere che cos’è l’esperienza spirituale e l’efficacia che questa ha su un piccolo germoglio rispetto alla potenza della pianta, al vigore dell’albero cresciuto, o agli effetti che il profeta descrive di un cambiamento del mondo intero e di una conversione del cuore di tutti i popoli?

Pensiamo a che cosa significhi oggi la conversione del cuore di tutti i popoli, in prospettiva di giustizia e di pace.

Porterebbe una rivoluzione planetaria come mai ce ne sono state nella storia del mondo.

Poi c’è una voce che grida in uno spazio silenzioso – il deserto, il silenzio della nostra anima – dove i suoni si amplificano, ma possono anche disperdersi, e questa voce ci invita a “preparare la via del Signore” (Mt 3,3) a lasciarlo venire nel nostro spirito, a raddrizzare i nostri sentieri; se c’è qualcosa che non è andato bene, il Signore lo scruta, ci guarda con sguardo di misericordia, è in grado di perdonarci.

Giovanni fa questa preparazione, e il momento più intimo sembra quello anche più terribile.

Il signore tiene in mano la pala per pulire la sua aia dagli scarti e delle scorie (cf. Mt 3,12). La sua aia siamo noi! È il nostro cuore, il nostro intimo! Lui vuole raccogliere i frutti preziosi che noi sappiamo dargli e purificare, bruciare tutto quello che c’è di sbagliato, di impuro, che corrompe la bontà del frutto.

In questa storia intima ci siamo noi, con i nostri desideri di bene e la nostra speranza che questo Natale ponga questo germoglio, ci faccia fare l’esperienza spirituale e generi un cambiamento radicale che non è nelle nostre mani, ma nelle mani e nella potenza del Signore.

Don Davide




Il bagliore del Paradiso

In quest’ultima domenica dell’anno liturgico, Gesù ci invita a guardare dalla sua prospettiva.

In un salone regale, il re sta di fronte al popolo e tutti lo guardano. Questa è la grande scena che viene descritta: “Dopo che ebbero crocifisso Gesù il popolo stava a guardare…”. Al centro, l’evangelista pone la spiegazione di questa scena: “Sopra di lui c’era anche una scritta: «Costui è il re dei Giudei».”

C’è dunque un re sul suo trono e i sudditi al suo cospetto. Stavolta, però, sono spettatori, per lo più. Osservano, probabilmente qualcuno con un certo senso di rivalsa, la caduta che prima o poi tocca tutti i monarchi. Gli altri capi lo deridono: questo è il destino normale tra chi si contende il potere. Anche chi conosce solo la logica del salvare se stesso lo deride: un re che non è nemmeno in grado di usare la sua autorità in proprio favore è un povero zimbello.

Nessuno sembra fare caso al fatto che il trono non è coerente.

I Romani non potevano davvero considerare che Gesù fosse una minaccia per l’Imperatore, mentre i capi di Israele sono davvero convinti che sia la giusta punizione per un re pretenzioso, laddove Erode, il vero re, riduceva il popolo a uno schiavetto dei Romani.

All’unico che si accorge di questo indizio elementare, ma decisivo, Gesù apre gli occhi su una scena completamente diversa. Il ladro penitente riconosce che la croce non è un trono, ma una pena e che il regno di quell’uomo che tutti invitano a mostrarsi “regale” deve essere affatto diverso.

È allora che Gesù, come in un sussurro gli parla.

“Io non ho mai voluto fare «il capo», perché tutti devono essere liberi. Anche quelli che mi amano di più, li ho lasciati liberi persino da me stesso.

“Non bisogna deridere nessuno, né infliggere dolore, né – tantomeno – governare o ingannare con le armi.

“Ci sono tanti, troppi che soffrono. Ho provato a sentire il loro dolore, a condividerlo e a restituire loro fiducia nella vita.

“A me non interessa di salvare me stesso, ma che il nostro ricordo sia presso il cuore del Padre.

E ora sali su questa specie di trono, qui dove sono io e guarda dalla mia prospettiva. Osserva.

Quel regno che dicono loro a me non interessa, ma il Paradiso per me è questo che ti ho descritto: lasciare liberi, non ingannare, dare fiducia, essere insieme presso il cuore di Dio.

Vedi, se guardi da qui, la luce è così grande che anche da questo buio puoi vedere il bagliore del Paradiso.”

Don Davide




Vicino o pieno?

Lucia deve presentare Fabio ai genitori. Si sono conosciuti in vacanza con gli amici, d’estate. Lucia sembra serena, da allora, e la sua famiglia è aperta e gioviale, ma anche protettiva, non troppo incline alle smancerie.

La tavola è preparata, apparecchiata bene. C’è anche, pronta da stappare, una buona bottiglia di vino; in fondo Lucia ha 19 anni e il suo ragazzo 21. Il papà di Lucia pensa che sia giusto offrire un bel gesto di ospitalità.

Nell’attesa, Lucia è serena: ha aiutato i suoi genitori, si è truccata; conosce Fabio e si trova perfettamente a suo agio. Non pensa minimamente a cosa dovrà dire, a come dovrà comportarsi. Semplicemente, non vede l’ora che arrivi.

In cucina, invece, mentre armeggiano e si aiutano con le ultime cose, i suoi genitori bisbigliano. Sono curiosi di sapere qualcosa di questo ragazzo di cui non conoscono nulla: non sanno da dove sia saltato fuori, che gruppi frequenti, che tipo sia, perché fosse in quella vacanza con gli amici della figlia.

Quando squilla il campanello, l’atmosfera si ravviva e si scioglie. Fabio è vestito bene, ma sportivo. Non si è preoccupato di eccedere per fare bella figura. Si presenta ai genitori, offre una piantina alla mamma di Lucia e saluta la sua ragazza con un bacio disinvolto.

Durante la cena apprezza la cucina, gusta il vino e parla di tutto. Di quello che non sa, chiede, senza fingere. Lucia fa squadra con lui, alimenta il dialogo e rallegra la serata. I suoi genitori sono sorpresi e distesi e, decisamente, non sono abituati a vederla così aperta a chiacchierona anche con loro. Prima del dolce, Fabio fa una carezza a Lucia, e lei si appoggia lievemente alla sua mano. È stato un istante, ma sufficiente per essere notato.

In questa immagine possiamo cogliere la differenza tra quelli che dicono “il tempo è vicino” (Lc 21,8), da cui Gesù ci mette in guardia, e lo spirito autentico del Vangelo, che dice: “il tempo è pieno” (Mc 1,15) oppure “oggi!” (Lc 4,21).

È una differenza sottile, ma fondamentale.

Nella metafora, la differenza è fra la sicurezza di Lucia, che conosce il suo innamorato, e i genitori che ancora non l’hanno incontrato. Lucia non ha bisogno di preparare le cose da dire, perché è pronta a viverle. I genitori di Lucia sono in apprensione, ma la presenza si rivela una sorpresa rispetto alle aspettative.

Allo stesso modo, la presenza del Signore è piena di buona potenza per il tempo che viviamo adesso.

Certo, anche noi usiamo espressioni relative al Signore che “viene”, soprattutto in questa parte conclusiva dell’anno liturgico e in Avvento, ma è un’attesa conosciuta, che “non vede l’ora” come quella di Lucia, non minacciosa.

“Il tempo è vicino” invece, è il linguaggio di chi ama la minaccia e abdica alla speranza. Sono le parole di chi si spaccia per profeta e messia, come se solo lui o lei avessero capito le cose, che vedono nella guerra, nelle carestie e nelle pestilenze il segno della fine del mondo e si compiacciono di terrorizzare attraverso questo.

Ma questo non è cristiano. Scusate, c’è bisogno di elencare gli orrori del passato, per dire che anche allora sarebbero stati sufficienti per parlare della fine del mondo? Anche se pare che invitino a cambiare, Gesù dice: “Non andate dietro a loro!” (Lc 21,8). Perché, appunto, affermano che le cose sono vicine e spaventose, come quelli che si ritrovano a parlare del clima e dicono: “Se nei prossimi anni non faremo…” E oggi?!

Invece, la presenza di Gesù marca il tempo in maniera diversa.

Il tempo non è più vicino – anche vicinissimo – ma fra un po’… Il tempo – paradossalmente, rispetto alle tentazioni desolanti di ogni tempo – si è arricchito. È opportuno adesso. Abbiamo già tutte le risorse che ci servono: per fare la pace, per cessare le guerre, per dare da mangiare a tutti, per accogliere i forestieri.

Don Davide




Le chiavi del futuro

Mia nipote più piccola, nel 2030, anno di verifica degli obiettivi globali per lo sviluppo sostenibile, avrà 9 anni. Spero che sia ancora una bimba spensierata, ma che almeno il secondo obiettivo possa saperlo realizzato: ossia che non ci saranno più persone, soprattutto bambini come lei, che muoiono di fame.

Confido anche che a quel tempo sia realizzato l’obiettivo 16, ossia la pace. Solo la stupidità può ancora convincere che le guerre siano opportune, necessarie o peggio desiderabili per qualsivoglia risultato. La pace dovrebbe iniziare da domani, ma che dico: da adesso! Anzi, dovrebbe già essere iniziata.

I bambini e le bambine della sua età, nel 2040 avranno 19 anni. Saranno giovani e mi auguro con tutto il cuore che vivano in un mondo dove gli obiettivi 4 e 5 – l’istruzione di qualità e la parità di genere – siano talmente presenti e acquisiti da chiedersi come sia stato possibile vivere in un mondo dove queste cose non c’erano. Auspico, allo stesso tempo, che non vengano mai dati per scontati, cosicché i giovani uomini e le giovani donne del futuro possano scegliere come istruirsi al meglio e sviluppare con le stesse opportunità i propri sogni e la propria visione del mondo.

Nel 2050, la generazione di cui parlo sarà alla soglia dei 30 anni. Dovremmo potere pensare che avranno il mondo ai loro piedi e la vita davanti e che giustamente noi ci faremo da parte. Sogno di poter stare loro vicino come un anziano prete, pieno di stima e di affetto e magari con un pizzico di saggezza, ma non troppo invadente.

Per quell’anno, però, la posta in gioco è altissima, bisogna che siano raggiunti tutti gli altri obiettivi.

In modo particolare, stanno alle fondamenta i numeri 6 e 7, che riguardano l’acqua potabile e l’energia pulita, i numeri 11 e 12, che ambiscono a città vivibili, e i numeri 13, 14 e 15 che puntano alla lotta contro il cambiamento climatico. Quelli che non ho citato, saranno conseguenza di questi.

Alternativa non c’è.

Se vogliamo che i bimbi più piccoli che amiamo oggi, possano abitare il loro mondo domani, dobbiamo trovare le chiavi per aprire questo futuro. Per loro è un diritto e non una gentile concessione da parte nostra. Per noi è un dovere. In ogni caso possiamo farlo insieme, da alleati ed amici per lo stesso fine comune.

La radice di tutti i problemi e i conflitti generazionali, oggi, è nel trascurare da parte degli adulti questa consapevolezza.

In questi giorni celebriamo i santi e commemoriamo i defunti.

I santi sono coloro che hanno trovato le chiavi del futuro.

Lo hanno fatto in tutte le età della storia, anche di fronte alle sfide più difficili, rapiti dall’amore di Gesù e nell’ascolto profondo della Parola di Vita che li ha guidati: Benedetto e Scolastica, Francesco e Chiara, Bartolomé de las Casas, Francesco Saverio, Teresa d’Avila, i martiri delle guerre mondiali, Charles de Foucauld – solo per citarne alcuni – hanno letteralmente dato vita a nuovi mondi.

I defunti che commemoriamo, perché li ricordiamo volentieri, sono quelli che ci hanno lasciato un’eredità da custodire e che non vogliamo dimenticare, non quelli che ci hanno lasciato solo macerie.

Oggi, santità significa trovare le chiavi del futuro.

Ma non è un esperimento da laboratorio; è piuttosto un lavoro d’artista, di chi ha una fonte d’ispirazione e un fuoco dentro e li alimenta giorno dopo giorno con gli strumenti dell’amore e la speranza per le persone a cui vogliamo più bene.

Don Davide