Una catenina…pesante!

Prepariamo le Prime Comunioni, che celebreremo sabato 9 ottobre in due turni, e proviamo a riprendere oltre al catechismo, anche i gruppi giovanili.

Gesù parla di una macina da mulino appesa al collo a chi scandalizza i suoi piccoli che credono in lui… Una macina da mulino… non è esattamente come indossare un gioiello di Pandora o una catenina al collo!

Sento la grande responsabilità di non “disperdere” la fede dei credenti di qualunque età, e di avere una preoccupazione speciale per quella dei ragazzi e delle ragazze, che deve ancora maturare, trovare le motivazioni, fondarsi.

Dobbiamo provare ad essere una comunità che non arresta il loro percorso, ma lo favorisce, in percorsi belli, anche impegnativi, ma senza trabocchetti o inganni: questi sono gli scandali che Gesù menziona nel vangelo.

Gesù insegna, metaforicamente, a togliere quello che è di intralcio, ciò che porta a un’esperienza negativa, che è logoro. Tagliare e potare: nel Vangelo sono spesso immagini per fare spazio, presupposti a quella rinascita dall’alto che apprendiamo dal dialogo tra Gesù e Nicodemo.

Perciò, invito tutti noi a un impegno: focalizziamoci sulla fede essenziale, su quelle scelte che sono veramente evangeliche e che sono animate dallo Spirito del Signore, giudicate degne, decise insieme ed essenzializziamo i nostri comportamenti personali su ciò che rende testimonianza di Gesù.

Scopriremo tanti compagni e compagne di viaggio, che come noi testimoniano l’amore di Dio nel suo nome.

Don Davide




Risorgerà

Gesù parla ai discepoli della sua morte e profetizza, in base alla fede dei profeti e del suo popolo, il suo destino di resurrezione. “Ma i discepoli non capivano, e avevano timore di interrogarlo…” (Mc 9,31-32).
La nostra comunità, in questi ultimi anni, ha affrontato la morte di tante colonne della nostra parrocchia, intendo cioè molte persone che in vario modo hanno messo a servizio in maniera particolare la loro vita per tutti noi e per la Chiesa.
Questo ci avvicina a tutti coloro che fanno l’esperienza dolorosa di salutare una persona cara, vicini o lontani, credenti o no, della nostra comunità o di altre appartenenze. Non importa. Non vi è alcuna classifica e vogliamo solo allargare il cuore alla compassione, alla condivisione e alla bontà reciproca.
Questa esperienza ci fa sentire vicini tutti e tutte.

“Dopo tre giorni risorgerà” sentiamo dalle labbra stesse di Gesù.
Ma noi facciamo fatica a capire cosa questo significhi veramente. Vorremmo comprendere meglio… e allo stesso tempo temiamo di interrogare lui su questo, come se avessimo paura di accostarci a un mistero troppo grande, complesso e spaventoso.
“Risorgerà”: è una parola che si erge statuaria, come una torre sull’esistenza. Tante volte Gesù lo dice agli altri e di se stesso, del Figlio dell’Uomo: risorgerà.
Questa parola, al futuro, ci chiede un atto di fiducia che è come quando, sulla cima di un monte, ammiri il panorama bellissimo e ti senti certo che Qualcuno tiene tutto il mondo nell’esistenza e pensi che la vita sia possibile, nonostante tutte le brutture, cattiverie e violenze che da tante parti cercano di avvelenarla.
“Risorgerà…” è bene sussurrarla, come se fosse la preghiera del cuore.

Ma noi, oggi, Signore, vogliamo anche provare a raccogliere lo spunto del Vangelo e “interrogarti”. Non per questionare, che finiremmo confusi come Giobbe; non per protestare, ma per avere una luce, per sentire il calore dello Spirito, come una carezza sulla spalla fatta da un amico, come un bacino sulla guancia.
Prima di tutto, capiamo che dobbiamo domandare a te, Gesù. È nel rapporto con te che prendono forma le risposte, i sentieri, le prospettive e la speranza. In secondo luogo – penso – dobbiamo esplorare la vita, seguire le tracce come dei Sherlock Holmes dello Spirito, cogliere tutti i segni di vita concreta che sono infiniti e sono mille volte al giorno sotto gli occhi di ciascuno e ciascuna di noi, collegare le tracce, indagare al di là dell’ovvio e non accontentarci delle evidenze, ma usare la logica del Regno… e magari capirne qualcosa di questa vita, vedere dove si addentra, quali sono le sue strade per attraversare la morte.

Veniamo da te, Gesù, a tirarti il lembo del mantello, non solo come quella donna che era sicura di venire guarita, ma anche come quei bimbi che tirano la giacca del papà o della mamma, perché hanno qualcosa da chiedere, col desiderio di capire, certi di imparare.

Don Davide




Il potere delle parole (per gli Under 20)

Quanti sordi e muti ci sono nel nostro mondo! Non le persone che hanno difficoltà fisiologiche, che spesso comunicano addirittura meglio degli altri. A loro va tutto il rispetto dovuto.

Ci sono tanti muti di fronte alle ingiustizie, giovani che non difendono i loro amici e le loro amiche, responsabili che non parlano della crisi climatica o, peggio, ne distorcono la percezioni, presunte autorità le cui parole sono così insulse che anche il loro suono risulta vuoto oppure stonato.

E poi ci sono i sordi che non vogliono ascoltare, chi non fa lo sforzo di mettersi in relazione, i peggiori sono quelli che non si meravigliano più e che non vogliono imparare.

Ma voi no, ragazze e ragazzi! Cogliete oggi l’invito di Gesù che guarisce un sordomuto dicendo: “Apriti!”. Doveva avere risuonato con un tale carisma, quel comando, che i narratori lo riportano ancora nella lingua originale: “Effatá”, come quando una parola è talmente forte che ti rimane in mente per sempre.

Io vi dico: leggete libri, guardate film e serie tv, ascoltate la musica, non rinunciate mai a parlare dopo avere pensato con un po’ di saggezza cosa comunicare. E se la gente si stupirà, come accadeva con Gesù, meglio così! Scoprirà che siete recettivi e sarà costretta a riconoscere che avete qualcosa da dire.

Don Davide




Visioni di coraggio

Riprendono la pastorale più attiva, la scuola e l’università, il lavoro e gli impegni personali e la prima parola che risuona in questa domenica è: “Coraggio! Non temete!” (Isaia 35,4-7). I profeti hanno sempre la capacità di infondere speranza e di rigenerare la forza di guardare al futuro, e se pensiamo agli anni di pandemia da cui veniamo e alla crisi della pastorale, che sembra essersi ormai rassegnata a delle chiese semivuote e alla difficoltà di appassionare e coinvolgere i giovani, pare che ce ne sia proprio bisogno.

Accogliamo volentieri perciò lo sguardo dei profeti, che penetrano prospettive che è difficile persino intuire. Concretamente, nel contesto in cui risuona l’oracolo del profeta Isaia, il regno di Israele era sotto l’assedio delle truppe di Sennacherib, imperatore d’Assiria. Sembrava non ci fosse speranza alcuna. Invece il profeta – contro il parere di tutti e fronteggiando contrarietà e umiliazioni – non offre solo un oracolo di vittoria, ma la prospettiva di un mondo nuovo. L’esito della vicenda darà ragione al profeta.

Per vedere la realizzazione delle profezie, però, bisogna credere alla Parola di Dio. Da questa domenica, allora, cogliamo due suggerimenti a cui aderire con fede.

Per prima cosa dobbiamo riconoscere di essere sordi e muti proprio di fronte alla Parola di Dio. Sembra un’affermazione ripetuta banalmente, ma occorre prendere atto che non abbiamo una consuetudine significativa con la Parola di Dio, non l’ascoltiamo (siamo sordi) e ancora meno siamo capaci di testimoniarla in maniera affascinante (siamo muti): in verità, sembriamo sempre dei principianti nella vita spirituale, che invece è necessaria per orientare le nostre scelte di vita, per rafforzare la nostra personalità e le nostre relazioni, e per osservare un rigore morale che riguarda prima di tutto la nostra dignità.

In secondo luogo possiamo cercare di vivere una carità più limpida, non tanto nelle cose eclatanti, quanto negli atteggiamenti fraterni, nel vivere con più cordialità i rapporti in parrocchia e fuori, essere gentili, non discriminare, non dare giudizi affrettati, impegnarsi a volere bene, gioire di condividere la fede con la propria comunità.

C’è un grande desiderio, in fondo, in ciascuno dei credenti, di una fede viva e di una comunità così amorevole e propositiva, da rallegrare persino il deserto e la terra arida.

Don Davide




Se sapete ciò che fate… (per gli Under 20)

Sentiamo Gesù che dice: “Ascoltate e comprendete bene” e pensiamo che si voglia imporre, senza diritto, sulla nostra vita. Forse, ai più ribelli viene da pensare: “Ma cosa vuole questo? Perché dovrei dargli retta?!”.

Eppure, scopriamo che Gesù valorizza il bisogno di autenticità delle persone che lo circondano, ed è convinto che proprio la ricerca dell’autenticità porti ogni giovane alla sua unità e integrità.

Con un capolavoro di amicizia, Gesù inverte le prospettive e si avvicina a ciascuno e ciascuna di voi: mentre per alcuni, la ricerca di autenticità dei giovani appare una cosa eccentrica, Gesù afferma che è proprio quella che vi farà conquistare voi stessi.

L’importante è che siate consapevoli di ciò che state facendo. Se sapete ciò che fate… beati voi!




Dal nucleo

La scena del vangelo di questa domenica ha una triplice intensificazione. Prima Gesù risponde a una disputa pubblica sulle questioni della purità rituale, poi approfondisce il discorso in una casa, portandolo sul tema dell’interiorità, infine risponde personalmente ai suoi discepoli.

Purtroppo, nel taglio della versione liturgica, si perde il senso di sgomento dei discepoli, che – appunto – “lo interrogavano”, perché si rendevano ben conto della rivoluzione delle parole di Gesù.

Sulla scia dei profeti, in un mondo dove il sacro e il contatto con il mistero di Dio veniva definito dalle pratiche esteriori, Gesù costruisce l’interiorità. È quello il luogo dove si gioca la qualità della nostra esistenza: se riusciamo ad essere integri, interi, con ciò che proviamo.

Qui la questione diventa delicata, perché noi tendiamo a pensare che “essere integri con ciò che proviamo” significhi solo dare retta alle nostre emozioni e ai nostri sentimenti… ma non è così. Il punto è che ciò che viviamo sia un tutt’uno tra i nostri propositi, il nostro stile, le nostre scelte di vita, gli obiettivi che abbiamo, ciò che diciamo e ciò che facciamo. Un esempio perfetto, in negativo, è quando dobbiamo mentire: se mentiamo, vuol dire che queste dimensioni non sono allineate.

L’interiorità è una cosa desueta. Oggi vanno più di moda le belle foto su Instagram con le frasette carine… ma anche in questo esempio possiamo osservare un bisogno di interiorità. L’esposizione esteriore di sé in un’immagine proposta al pubblico esprime, in realtà, il bisogno di raccontare qualcosa di vero… che spesso deve addirittura essere esplicitato appunto con una frasetta, che esprime ricerca di interiorità.

Alla fin fine, per tutti l’interiorità è la cosa più preziosa che abbiamo. Solo che spesso è una gran confusione, perché ci sono troppe forze che spingono e non sappiamo come manovrarla, inoltre ci sono pochi maestri.

Gesù, tra l’altro ci mette in guardia che, paradossalmente, i nemici vengono proprio dall’interno. La nostra interiorità è come un fortino, al cui interno ci sono dei traditori; oppure come un muscolo che… sì certo, si può fare male prendendo una botta, ma è molto peggio quando si strappa per l’uso o per un movimento sbagliato. Bisogna avere cura pazientemente e di continuo di questo muscolo che è l’interiorità, in modo da impedire di farsi male e di sgominare i “traditori”.

Gesù conclude la lista di questi nemici parlando dell’insensatezza. Possiamo vigilare, quindi, cercando di non fare cose “insensate”, rimanendo padroni di noi stessi e in contatto con la nostra consapevolezza. In un manoscritto raro dei vangeli, c’è una glossa che attribuisce a Gesù questa affermazione: “O uomo, se sai ciò che fai, beato te!”.

Beato chi ha la consapevolezza di sé ed espande la sua esistenza come il Sole che irraggia calore dal suo nucleo.

Don Davide




…quella felicità (per gli Under 20)

Voglio consegnare una piccola riflessione a voi ragazze e ragazzi, diciamo dalle medie ai vent’anni, amichevolmente. Non è detto che siano sempre poche righe, potrebbe essere un video o un post sui canali social della Parrocchia… Stay tuned!

Per questa settimana, mi colpisce che Pietro non voglia rinunciare a Gesù e gli dica: “Gesù, dove vuoi che andiamo? Tu dici qualcosa che ci rende felici!”. (Ok, ho tradotto per attualizzare, ma il senso è questo!). Noi, adulti e credenti, non siamo sempre stati capaci di mostrare questo legame tra Gesù e la felicità. Alcune volte, magari, abbiamo parlato più di impegno, di morale o, peggio, di divieti.

Per quanto mi riguarda, mi propongo di migliorare. Vorrei che ciascuna e ciascuno di voi possa scoprire che cosa c’entra Gesù con la felicità, quella che ti fa cantare le tue canzoni preferite al sole d’estate, o che vuoi immortalare con la storia più bella che tu riesca a creare. È quella felicità semplice che ho in mente, e anche quella dei traguardi più belli.

Mi basta sapervi su quella strada, ma – se avete voglia – fatemi sapere se ci siete o se c’è stato qualche impiccio.

Don Davide




Scegliere tutti i giorni

Ben ritrovate e ben ritrovati,

spero che la vostra estate sia stata in linea con le vostre aspettative e rigenerante. Dopo la pausa estiva riprendiamo questo appuntamento domenicale, che – per chi non lo sapesse – offre uno spunto di riflessione collegato alla liturgia domenicale o alla vita della nostra comunità parrocchiale.

In questa domenica incontriamo un luogo singolare, fondamentale nella storia dei patriarchi, collocato a metà strada tra la Samaria e la Galilea, circa al centro della Terra Promessa: Sichem.

Sichem (Gs 24,1) è il luogo della prima sosta di Abramo nella Terra: il posto dove Dio gli fa contemplare il dono futuro e promesso (Gn 12,6-7).

Sichem è il momento della conferma, dopo il cammino di redenzione di Giacobbe, dove tutta la sua storia viene ricapitolata e lui diviene finalmente il padre di un popolo, come era destinato ad essere (Gn 35,1-4). Per Giacobbe Sichem è il luogo della maturità, quando dopo una crisi lunga e faticosa, ma superata, seppellisce gli idoli per identificarsi completamente con la sua missione e il suo ruolo.

Spesso la Bibbia rimanda ai momenti decisivi e di passaggio, a quegli eventi che segnano radicalmente una svolta; tuttavia, si viene a sapere poi che questi momenti, invece, non risultano mai definitivi. Pur ancorandosi ad essi, le vicende dei personaggi incontrano ancora smarrimento, fatica e disorientamento, quasi fino alla fine della loro vita. Ma proprio nella considerazione di questo lungo cammino, emergono ancora più chiaramente quelle tappe significative che più di ogni altra hanno segnato una svolta e che, perciò, diventano punto di riferimento.

Così è anche l’invito che fa Giosuè a Sichem e oggi a ciascuno di noi: Sceglietevi oggi chi servire! (24,15).

Abbiamo l’occasione di verificare di nuovo che Dio, benedetto Egli sia, è l’unico Dio vivente e il cammino che lui ci ha fatto fare è un cammino di vita, mentre quelle degli idoli sono seduzioni ingannevoli.

Ora questo appuntamento decisivo con Dio, per noi ha i tratti dell’incontro con Gesù. “Noi abbiamo riconosciuto che tu sei il Figlio di Dio”, dice Pietro, dove il passaggio più importante è dato proprio dal riferimento a Gesù: “TU sei il Figlio di Dio”. In sostanza, Pietro riconosce che se di una felicità si può parlare, si tratta di cercarla con lui, con Gesù, e di non lasciarsi disorientare.

Così, come se la nostra ripresa fosse “essere a Sichem”, abbiamo l’occasione di scegliere e confermare Gesù anche oggi, con più amore, convinzione ed entusiasmo, nella continua accoglienza dell’incontro con lui. In fondo, si tratta di scegliere e confermare la nostra ricerca di felicità, le cose per cui la nostra vita ha un senso vero e con dei frutti belli.

Don Davide




Cose grandi e umili

Nella liturgia di oggi c’è un tema di leadership cristiana.

Il profeta Ezechiele propone una parabola al termine di una riflessione che offre un confronto serrato fra Dio e tutti gli altri re e imperatori che hanno preteso di rivaleggiare con il suo potere.

Essi, dice il profeta, sono come alti cedri, maestosi e imponenti, ma il Signore eleva tra questi cedri un ramoscello, una cosa piccola, ancora nascente, la pone sulla cima del monte… perché “sappiano tutti gli alberi della foresta che io sono il Signore: che umilio l’albero alto e innalzo l’albero basso…” (Ez 17,24).

Gesù ci propone, innanzitutto, la parabola del seme che cresce da solo, per affermare che il Signore mette in gioco una forza inarrestabile che permette al seme di crescere, anche indipendentemente dall’attività del contadino. In seguito, Gesù introduce una differenza significativa con il riferimento corrispettivo del profeta Ezechiele: il granello di senape non è come il ramoscello del cedro. Il granello di senape cresce e diventa il più grande di tutte le piante dell’orto e gli uccellini possono fare il nido alla sua ombra, nel senso che senz’altro possono trovare un piccolo ristoro, ma certamente non svolazzare e rifugiarsi sotto di esso come sotto il cedro.

Siamo dunque invitati non tanto alle piccole cose, ma a quelle grandi vissute con un atteggiamento umile e prudente: non tante cose, ma una che possa crescere; non la pretesa di essere uno spazio immenso o la presunzione di coinvolgere tutti, ma la disponibilità di fare ombra a chi vuole.

Ci si potrebbe chiedere dove vada a finire lo slancio missionario, la conversione pastorale che papa Francesco ci chiede. Mi sembra che il punto sia la decisione ferma di vivere questo impegno in maniera non autoreferenziale, che vuole dire non nella cornice della nostra visione e del nostro punto di vista, ma col tentativo di cogliere la realtà, le sfumature e le connessioni.

In questo senso, la grandezza della pianta di senape non è di essere immensa, ma di esserci per le altre piante dell’orto: di portare ombra in modo che tutto possa svilupparsi in maniera salutare e giusta, e così di favorire e collaborare con l’energia che Dio mette in ogni cosa che deve crescere.

Don Davide




Rebecca e l’Ascensione

In settimana sono passato davanti a un bar alle 18 dove un gruppo di giovani stava facendo aperitivo. Sembravano minorenni, ma questo non coincideva con lo spritz che ciascuno aveva davanti a sé, e parevano sereni e senza tipizzazioni eccessive. Nell’istante di passargli accanto ho intercettato l’unica ragazza presente che diceva: “Cioè, il giorno del tuo compleanno devi bere fino a ubriacarti, questo è fisso. Poi se sei da sola o in compagnia non fa differenza…”

Chiameremo questa ragazza Rebecca.

Io stavo pensando a cosa avrei potuto scrivere per questa Domenica dell’Ascensione e mi sono chiesto: perché Rebecca pensa che ci sia gusto a ubriacarsi, magari anche da sola? Oppure: che cosa cerca, o viceversa, che cosa vuole nascondere?

Non voglio fare il paternalista, ma non posso fare a mano di ritenere che sia un pensiero non elevato. Non voglio giudicare, sto solo raccontando quello che ho ascoltato e la mia reazione emotiva e mi chiedo: come possiamo fare ad “elevare” la nostra vita?

Gesù che “sale” al cielo è una specie di metafora: il messaggio è che Gesù trascende questo mondo, attratto dall’amore del Padre e trasformato dallo Spirito Santo.

Con tutta la sua umanità, Gesù porta la nostra umanità nel regno di Dio. Questo avvenimento è certamente una grazia e un dono di Dio, ma non per questo deve farci stare con le mani in mano o imbambolati a “guardare il cielo” (cf. At 1,11)… Tutto ciò che Gesù ha compiuto, con la sua umanità, è per darci il potere di realizzarlo nella nostra.

Infatti, il mandato Signore ai discepoli è di compiere le sue opere prodigiose attraverso la fede e di farne “di più grandi” (Gv 14,12).

Sta a noi, dunque, accogliere questo dono ed elevarci.

Henry David Thoreau scrisse: “Non conosco nessun fatto più incoraggiante che l’indubbia abilità degli esseri umani ad elevare la propria vita attraverso un impegno consapevole”.

Scrivevo, prima, che Gesù si è elevato nel mondo di Dio, nel reame del divino, per elevarci verso di lui. Elevarsi, per elevare: questo è anche il nostro compito.

Ci sono quattro regni interiori che possiamo elevare: il regno spirituale, il regno dell’anima, il regno corporeo e il regno della nostra mente.

Siamo chiamati ad elevare questi regni interiori con un impegno consapevole. L’amore del Padre ci chiama e ci sospinge, lo Spirito non ci abbandonerà in questo proposito.

Allora, cara Rebecca,

senza biasimo né giudizio, ti auguro di potere fuggire dalla tentazione di trangugiare il vino per stordirti, ma di imparare a gustare la bellezza di riconoscerne i profumi, di rimanere incantata dai riflessi del suo colore rubino, ambrato, rosa o giallo paglierino e di sapere distinguere al primo sorso un Franciacorta da un Valdobbiadene.

Sarei felice se potrai brindare in compagnia, mentre festeggi la tua Maturità o la tua Laurea, o sorseggiarlo nel tuo posto preferito in compagnia della persona che deciderai di amare; e – se ti troverai a bere un calice da sola – spero che tu voglia farlo con un bel libro, ascoltando la tua musica preferita, o semplicemente apprezzando il silenzio e ammirando il panorama che prediligi.

Tutto ciò che vuoi, cara Rebecca, purché ti elevi e non ti abbassi.

Don Davide