Convertirsi

Dio si rivela a Mosè come “il Dio di tuo padre” (Es 3,6).

C’è una storia che attraversa le generazioni e una trasmissione della conoscenza di questo Dio presente e partecipe della vita degli uomini.

Senza fare il facile profeta di sventura, bisogna ammettere che questa riconsegna – questo rapporto tra le generazioni che potrebbe dare inizio a una storia completamente nuova e rivoluzionaria nel senso migliore del termine, come quella di Mosè – si è completamente interrotta.

È umile e difficilissimo allo stesso tempo, quindi, accogliere la parola di Gesù che di fronte a due situazioni: la guerra e una catastrofe, dice: “Se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo” (Lc 13,5).

La guerra c’è; anzi, bisogna dire: le guerre ci sono, numerose, atroci e persistenti.

Le catastrofi ci sono, a partire dalla crisi ecologica che tocca tutti i versanti.

Cosa significa, allora, “convertirsi”? Ci fermiamo e meditiamo un istante su questo.

Convertirsi significa, prima di ogni altra cosa, riconoscere che la parola di Dio mette ordine nel caos e dona quella illuminazione che permette di avere chiarezza e di creare o ricreare il mondo (cf. Gn 1,1-3).

Convertirsi, poi, ha a che fare con se stessi: convertire sé. Significa lavorare di continuo a sradicare e correggere ciò che noi ci sentiamo in diritto di biasimare negli altri. È un impegno durissimo anche solo da accettare, ancora più faticoso da assumere costantemente, fino a che possiamo vedere qualche piccolo risultato. Eppure, quanto mai necessario.

Infine, convertirsi chiede di riconoscere il tempo che ci è dato come un tempo di misericordia. Esistiamo nel segno della misericordia e dell’amore di Dio. Anche se le parole di Gesù ci spronano con forza, ci è dato tempo non per sentirci nell’errore, ma per vedere le possibilità buone e per sapere che possiamo espanderci nell’amore.

Viviamo in questa benevolenza, ricevuta e data affettuosamente, e vedremo venire il bene (cf. Ger 17,6).

Don Davide




Alla porta del cuore

Papa Francesco, cinque anni fa, ha voluto istituire la Giornata Mondiale dei Poveri perché sentiva urgente, per la Chiesa, il bisogno di accogliere una conversione ancora più autentica.

La “povertà” ci mette in crisi tutti.

Sappiamo che bisogna soccorrere “il grido nascosto dei poveri” e che una certa sobrietà di vita è indispensabile, per il nostro equilibrio e per l’equilibrio delle relazioni fra gli uomini e le donne del mondo e del pianeta.

Tuttavia, appena la “questione della povertà” ci tocca da vicino, sentiamo tutte le contraddizioni e le fatiche. Proviamo disagio per i poveri che si incontrano per la strada; parliamo volentieri dei problemi del mondo, ma fatichiamo a modificare i nostri stili di vita; vogliamo una chiesa povera e per i poveri, ma non si riesce a trovare qualche volontario per le pulizie della chiesa.

La Giornata mondiale dei Poveri si celebra verso la fine dell’anno liturgico, tempo nel quale le celebrazioni domenicali ci ricordano che Dio lavora, con i suoi testimoni, per un significativo intervento nella storia a favore della giustizia e del bene, per rifondare la comunione degli uomini e delle donne sulle basi dell’umiltà, dell’abbandono delle logiche di potere e della fraternità.

Gesù entra in scena da grande protagonista in maniera clamorosa: la sua luce sovrasta quella del Sole e oscura la Luna, la sua autorità si fa spazio fra le galassie. Tuttavia, non è lui che agisce nella storia, ma i suoi angeli e i suoi amici. Egli chiede a noi di riconoscere la sua tenerezza per ogni creatura, come quando il ramo della pianta del fico matura; possiamo sentirlo vicino proprio quando si manifesta il bene per chi è più nel bisogno. Allora sappiamo che lui vuole entrare nella storia in maniera efficace, bussando alla porta del nostro cuore.

Don Davide




Fare, credere, convertirsi

Gesù propone un insegnamento sul “fare la volontà di Dio”, perfettamente coerente con la tradizione di Israele. Come ormai sappiamo bene, infatti, per Israele le Parole del Signore – che sono le indicazioni divine per la Vita – prima si “fanno” e poi si “ascoltano e comprendono”. È una sapienza molto pratica, che non prevede che il rapporto con Dio si possa apprendere solo intellettualmente. È il contrario: la pratica della vita, l’esperienza, permette di aprire il cuore e la mente a quei misteri che, altrimenti, sarebbero inaccessibili e incomprensibili.

Anche la catechesi di oggi e il tentativo di comunicare la fede dovrebbe sempre tenere presente questo criterio.

Il tema dell’insegnamento di Gesù, nel vangelo di questa domenica che ci propone l’esempio dei due figli, è dunque questo: che uno dice, ma non fa e l’altro fa, senza dire.

Sorprendentemente, però, Gesù associa il significato di questa storia al “fare” dei pubblicani e delle prostitute, che non è un fare, ma il credere.

Anzi, a ben guardare – leggendo tra le pieghe della narrazione evangelica – spesso queste persone considerate peccatrici, impure ed escluse dal culto, si trovavano nella posizione di essere affascinate dalle parole di Gesù, senza riuscire effettivamente ad uscire dalla loro miserevole e contraddittoria condizione.

Ma la predicazione di Gesù apriva comunque uno squarcio, lavorava sotterranea, come un torrente carsico o una goccia che scava la roccia. E così, infine, era proprio il loro credere, credere che quell’annuncio di vita, di bene, di nuove possibilità che si radicava nella vicinanza di Dio attraverso Gesù potesse riguardare anche loro, che pian piano, ma inesorabilmente, li cambiava.

E si convertivano.

Il racconto delle figure come Levi, come Zaccheo, come la donna che lava i piedi di Gesù con le sue lacrime sono simbolici di quello che poteva accadere a tutti loro.

Dunque, raccogliamo due insegnamenti.

Il primo è che possiamo puntare a mettere in pratica qualcosa del Vangelo fin da oggi. Questo fare e mettere in pratica ci aiuterà a scoprire che le visioni che la fede ci offre sono vere, autentiche e penetrano il senso profondo dell’esistenza. La sorpresa e la profonda consonanza con i nostri bisogni più veri aprirà il nostro cuore alla fede e, di conseguenza, a convertirci in tutti quegli aspetti che hanno bisogno di essere illuminati dall’amore di Dio.

Il secondo è che credere nelle possibilità di bene instillate dalla vicinanza di Gesù ha il potere reale di cambiare in meglio la nostra vita. Di migliorare le nostre relazioni, di amicizia e di amore; di fare scattare qualitativamente la nostra crescita e la nostra maturazione; di ottimizzare il nostro studio, la nostra professionalità; di vivere con più lucidità sui nostri buoni propositi, con meno, ansia, più pace e consapevoli della pienezza verso cui tendiamo.

La porta è aperta e il cammino della vita è davanti a noi.

Don Davide




A colpi di fioretto

Nella riflessione di domenica scorsa ho indicato come via privilegiata per vivere spiritualmente l’itinerario quaresimale il fatto di dare rilievo e partecipare ai tre importanti appuntamenti comunitari che ci aspettano: gli Esercizi spirituali parrocchiali (1); l’Assemblea di Zona pastorale (2); la Festa dell’Incontro (3).

So bene, però, che la nostra educazione religiosa non ci fa sentire “bene” se non facciamo almeno un “fioretto”.

Vorrei provare, allora, a indicare quali caratteristiche deve avere un “buon” fioretto, per essere proficuo per la nostra vita cristiana e per sfuggire alla presunzione di essere giusti davanti a Dio (cfr Lc 18,9).

Mani che porgono una candelaPer prima cosa, dunque, un fioretto non deve essere una cosa che ci mette nell’atteggiamento di conquistare la giustizia o di meritare il premio. Bisogna sempre guardarsi dagli atti di superbia davanti a Dio, che sono la cosa più pericolosa per un cammino spirituale. Al contrario, un “buon” fioretto dovrebbe essere un impegno che ci aiuta a fare spazio all’azione e alla grazia di Dio. Un’operazione di sgombero e non di riempimento. In quest’ottica, il silenzio, la rinuncia a qualcosa che ci distrae, il sacrificio del tempo per una cosa più importante possono essere attenzioni ben calibrate.

Il fioretto, poi, è indubbiamente una mortificazione e non dobbiamo edulcorare questa parola, come se fosse un principio dei secoli bui. La mortificazione – come trattare il proprio corpo duramente in allenamento – è un metodo indispensabile per allenare la nostra volontà. Perciò rinunciare alla cioccolata, alla Coca-Cola, al caffè, al vino, alla Play-station può essere certamente un piccolo esercizio di mortificazione. Ci possono essere anche attenzioni più importanti e significative: mortificare un interesse o una curiosità, evitare una spesa; rinunciare a qualcosa per fare qualcosa di migliore… Il punto è non vivere queste cose come un atto eroico, ma come un esercizio per essere più pronti a vivere con attenzione la dimensioni spirituali della Quaresima.

Infine, un buon fioretto deve essere orientato alla conversione. In realtà non è molto utile se io sono goloso, fare il fioretto di non mangiare dolci, se prevedo che alla fine della Quaresima mi ingozzerò di pasticcini. Molto più utile è pensare qualcosa che educa piano piano i nostri atteggiamenti. L’insegnamento dei grandi maestri della vita spirituale ci dicono che la correzione dei propri vizi è un lavoro faticosissimo, che va preso con tutta la serietà del caso. Spesso è impossibile senza la grazia, nonostante ciò è prezioso per l’obiettivo che si pone: la lotta spirituale, il fuggire il male con orrore (cfr Rm 12,9), il non lasciare andare se stessi.

Il vangelo di questa domenica ci presenta Gesù che si scontra con le tentazioni di Satana. Anche lui si misura nella lotta spirituale, ci dà l’esempio di come si fronteggia il male ed è il nostro modello di umanità. Forse, Gesù non aveva bisogno di allenarsi con i fioretti, però sappiamo che digiunò quaranta giorni… Altro che fioretto! Teniamo fisso lo sguardo su di lui per vivere con la stessa intensità e lo stesso impegno il nostro cammino di apertura alla grazia.

 Don Davide