Papa Francesco a Bologna, 21/04/2018

Cari fratelli e sorelle,
vi saluto tutti con affetto. Grazie per la vostra presenza festosa! Con questa visita presso la tomba di Pietro voi ricambiate quella da me compiuta alle vostre Comunità diocesane il 1° ottobre dello scorso anno. Ve ne sono molto grato. […]
Conservo viva la memoria degli incontri che ho vissuto nelle vostre città. Non dimentico l’accoglienza che mi avete riservato e i momenti di fede e di preghiera che abbiamo condiviso, ai quali hanno preso parte fedeli provenienti da ogni parte delle vostre rispettive Diocesi. È stato un dono della Provvidenza per confermare e rafforzare il senso della fede e dell’appartenenza alla Chiesa, che chiede necessariamente di tradursi in atteggiamenti e gesti di carità, specialmente verso le persone più fragili. […]
L’occasione della visita a Bologna fu offerta, come voi ben sapete, dalla conclusione del Congresso Eucaristico Diocesano. Il fervore suscitato da quell’evento ecclesiale, che ha raccolto numerose persone intorno a Gesù eucaristico, possa prolungarsi nel tempo, non affievolirsi ma accrescersi e portare frutti, lasciando un’impronta indelebile nel cammino di fede della vostra Comunità cristiana. Come ho ricordato nella recente Esortazione apostolica Gaudete et exsultate, «condividere la Parola e celebrare insieme l’Eucaristia ci rende più fratelli e ci trasforma via via in comunità santa e missionaria» (n. 142). L’Eucaristia, infatti, fa la Chiesa, la aggrega e la unisce nel vincolo dell’amore e della speranza. Il Signore Gesù l’ha istituita perché rimaniamo in Lui e formiamo un solo corpo, da estranei e indifferenti gli uni agli altri diventiamo uniti e fratelli.
L’Eucaristia ci riconcilia e ci unisce, perché alimenta il rapporto comunitario e incoraggia atteggiamenti di generosità, di perdono, di fiducia nel prossimo, di gratitudine. L’Eucaristia, che significa “rendimento di grazie”, ci fa percepire l’esigenza del ringraziamento: ci fa capire che «si è più beati nel dare che nel ricevere» (At 20,35), ci educa a dare il primato all’amore e a praticare la giustizia nella sua forma compiuta che è la misericordia; a saper ringraziare sempre, anche quando riceviamo ciò che ci è dovuto. Il culto eucaristico ci insegna anche la giusta scala dei valori: a non mettere al primo posto le realtà terrene, ma i beni celesti; ad avere fame non solamente del cibo materiale, ma anche di quello «che dura per la vita eterna» (Gv 6,27). Cari fratelli e sorelle, gli uomini e le donne del nostro tempo hanno bisogno di incontrare Gesù Cristo: è Lui la strada che conduce al Padre; è Lui il Vangelo della speranza e dell’amore che rende capaci di spingersi fino al dono di sé. Ecco la nostra missione, che è ad un tempo responsabilità e gioia, eredità di salvezza e dono da condividere. Essa richiede generosa disponibilità, rinuncia di sé e abbandono fiducioso alla volontà divina. Si tratta di compiere un itinerario di santità per rispondere con coraggio all’appello di Gesù, ciascuno secondo il proprio peculiare carisma. «Per un cristiano non è possibile pensare alla propria missione sulla terra senza concepirla come un cammino di santità, perché “questa infatti è volontà di Dio, la vostra santificazione” (1Ts 4,3). Ogni santo è una missione; è un progetto del Padre per riflettere e incarnare, in un momento determinato della storia, un aspetto del Vangelo» (Gaudete et exsultate, 19). Vi incoraggio a far risuonare nelle vostre comunità la chiamata alla santità che riguarda ogni battezzato e ogni condizione di vita. Nella santità consiste la piena realizzazione di ogni aspirazione del cuore umano. È un cammino che parte dal fonte battesimale e porta fino al Cielo, e si attua giorno per giorno accogliendo il Vangelo nella vita concreta. […]
Vi ringrazio ancora per questo incontro. Vi chiedo per favore di continuare a pregare per me, e di cuore vi imparto la Benedizione Apostolica, che estendo a tutti coloro che compongono le vostre Comunità diocesane.




Non ci ardeva forse il cuore?

Non ci ardeva forse il cuore, sabato scorso, quando tutta la città era in fermento e si sentiva l’aria frizzante per l’arrivo del papa? Non ci ardeva di carità quando, al centro per i rifugiati, papa Francesco ha ricordato quelli che non ce l’hanno fatta e che non ci sono più? Non ci ha fatto ardere di buoni propositi quando, all’Angelus, ha chiesto alla città di Bologna di rimanere un esempio nella testimonianza del Vangelo o quando ha raccomandato ai preti e ai religiosi di essere con il popolo, semplici e poveri, per condividere il Vangelo?

E non ha fatto come Gesù, riattualizzando d’un colpo le parole dei profeti, sedendo a mensa con i poveri e tutti coloro che avevano bisogno di riscatto?

E non ha letteralmente infiammato i nostri cuori con il suo discorso all’Università, parlando di cultura, di speranza e di pace, nell’orizzonte di un’Europa unita, contro tutti i populismi e le retoriche, come non si sentiva fare da anni?!

Sì, l’abbiamo riconosciuto nello spezzare il pane… ma non lui, cioè papa Francesco. Grazie al papa, e soprattutto grazie al suo rapporto così schietto e sulle stesse corde con il vescovo Matteo, nel catino suggestivo e trepidante dello stadio, trasformato in una cattedrale contemporanea, abbiamo riconosciuto Gesù risorto! Sì, Gesù risorto, vivo, presente in mezzo e insieme alla sua Chiesa, che ci ha confortato, ha fatto risuonare la sua parola con mille sfumature e ci ha dato la direzione.

Una Chiesa non clericale, fatta di pastori davanti, in mezzo e dietro al popolo; una Chiesa richiamata ai tratti (non ai valori) inconfondibili del Vangelo: i poveri, l’annuncio del Regno agli ultimi, la misericordia data e ricevuta. Una Chiesa tesa a raggiungere tutti e ad aprire una via per ciascuno.

Il vescovo Matteo, il giorno di San Petronio, ha ringraziato la città, per la preparazione della visita del papa, lo svolgimento della giornata e l’accoglienza profonda che Bologna gli ha riservato. Era da tempo che il giorno del patrono non si sentivano parole gentili nei confronti della città, piuttosto che rimproveri, provenienti da una supposta posizione di superiorità. È uno stile che, inequivocabilmente, i nostri pastori ci consegnano. Non perché non ci siano i problemi o perché la Chiesa debba abdicare al suo compito critico e di vigilanza, ma per costruire rapporti di vera amicizia, aiutarsi e camminare insieme.

Così, oggi, giorno della conclusione del Congresso Eucaristico nelle nostre parrocchie, il vescovo ci consegna la sua nota pastorale, per confermarci nella direzione di questo cammino, dal titolo: Non ci ardeva forse il cuore?

Incoraggiati da questa consegna, iniziamo il nuovo anno pastorale con l’immagine bellissima di Gesù che, dopo avere spiegato il significato profondo delle Scritture, essere stato ospitato a tavola e avere spezzato il pane con i segni dell’Eucaristia, ci fa percepire nitidamente che cosa fa ardere il cuore e brillare il volto.

L’egoismo ci spegne, il Vangelo ci infiamma. La divisione perde, la comunione vince. L’odio ci fa morire, l’amore ci fa vivere.

Don Davide




Contemplare la meraviglia

Dopo l’intermezzo, dovuto, per commentare la presenza della grande rete in chiesa, riprendiamo l’approfondimento di alcuni aspetti della liturgia eucaristica.

Ricordo che siamo nell’anno del Congresso Eucaristico e che nel tempo di Quaresima viene chiesto alle comunità di chiedersi come si possano rendere più partecipate ed autentiche le nostre assemblee eucaristiche.

La consacrazione è il momento più alto della celebrazione dell’Eucaristia insieme alla proclamazione del Vangelo. Dopo il prefazio, che indica il rendimento di grazie specifico per quella celebrazione, inizia la preghiera eucaristica vera e propria. A seconda di quale formula si usi, la consacrazione avviene quasi subito o anche dopo un lungo memoriale e le intercessioni per la vita della Chiesa e del mondo.

La riforma liturgica ha voluto conservare un’indicazione di quando inizia la consacrazione – come forma di particolare riverenza e NON perché siano parole magiche, quasi che potessero valere senza le altre – attraverso il suono delle campanelle, che richiamano – appunto – un’attenzione e una devozione speciale per le parole di Gesù nell’Ultima Cena.

Il primo momento della consacrazione è l’epiclesi, o invocazione dello Spirito Santo sul pane e il vino perché diventino il Corpo e il Sangue del Signore. Quando il ministro dell’Eucaristia stende le mani sul pane e sul vino, è quello il momento in cui l’assemblea è invitata a inginocchiarsi.

È fondamentale, lo ribadisco ancora una volta, capire che non è un momento staccato dagli altri, ma in piena continuità con le parole che vengono dette prima e dopo: tutto il memoriale dell’opera di salvezza e dell’Ultima Cena è la preghiera che ci riporta a quell’unico sacrificio di Cristo, ma questa attenzione speciale riservata alla Consacrazione è come un invito a contemplare le meraviglie di Dio, a vedere il vero miracolo che si compie quotidianamente per mezzo della celebrazione della chiesa, l’unico vero miracolo di cui abbiamo bisogno: la presenza reale del corpo glorioso di Gesù Cristo risorto in mezzo a noi.

Diversamente dall’uso che avveniva prima della riforma liturgica, invece, l’ostensione del pane e del vino consacrati non si sottolinea più con il suono delle campanelle, perché rimane per l’adorazione silenziosa e stupita del mistero che è velato dalle specie del pane e del vino.

Le campanelle si suonano di nuovo dopo che il ministro proclama il “Mistero della fede”, per sottolineare che con la risposta dell’assemblea che si rialza in piedi si conclude l’atto della consacrazione.

Queste sfumature, che potrebbero apparire rubriciste, mirano invece a cogliere il significato spirituale del vertice celebrativo dell’Eucaristia, senza però staccarlo dal resto della celebrazione, affinché possa essere vissuto non solo come atto devozionale, ma di vera partecipazione all’offerta di Gesù, e in piena unità di cuore, di intenti e di sentimenti da tutta l’assemblea celebrante.

Don Davide




La Consacrazione e la Trasfigurazione

La terza tappa del Congresso Eucaristico ci invita, nel tempo di Quaresima, a riflettere su come possiamo rendere le nostre liturgie più partecipate.

Nell’intenzione del Concilio Vaticano II e della riforma liturgica che ne è seguita c’era in primo luogo, sicuramente, la volontà di affermare che la liturgia è partecipata e celebrata bene quando ne comprendiamo il significato profondo, lo gustiamo e viviamo i vari momenti della celebrazione eucaristica accompagnando con il nostro corpo e il nostro spirito il significato simbolico dei gesti che compiamo.

L’invito del vescovo, quindi, rappresenta una preziosissima opportunità per riscoprire la ricchezza della nostra liturgia.

In questa seconda domenica di Quaresima, nella quale ci guida il Vangelo della Trasfigurazione, vorrei partire da alcune riflessioni sul momento della Consacrazione, a cui seguirà una seconda parte, sempre su questo momento fondamentale della messa, domenica prossima.

Analogamente a quanto succede nella Trasfigurazione, nella Consacrazione noi vediamo nei segni del pane e del vino il corpo glorioso del Signore, così come i discepoli videro nel corpo umano di Gesù la manifestazione della sua gloria.

Mentre abbiamo la sensazione che la Consacrazione sia quasi un momento magico, in cui grazie all’unione di una formula e di un gesto accade qualcosa di incredibile (e in visibile agli occhi), il vero significato della liturgia eucaristica è che la Consacrazione non è affatto un momento a sé, ma è connessa a tutta la grande preghiera eucaristica che inizia dopo il Santo, anticipata dal Prefazio che dice qual è il motivo specifico della preghiera di ringraziamento di quella celebrazione.

Il momento che ci riporta all’Ultima Cena di Gesù e che ci mette alla sua presenza non sono solo le parole della Consacrazione, ma tutta la lunga preghiera memoriale che introduce la Consacrazione stessa e che la segue. A questa preghiera, l’assemblea si unisce dopo il rendimento di grazie finale: “Per Cristo, con Cristo e in Cristo” con la risposta importantissima dell’ “Amen” che è come il sigillo di un notaio, l’autentica sul fatto che quella preghiera sale dal popolo che celebra al Padre; mentre noi, a quel punto, siamo quasi assonnati o distratti e si risponde “Amen” come riprendendosi da un torpore che ci ha presi per il fatto che in quella lunga parte aveva fatto tutto il prete, ma adesso bisogna destarsi perché “finalmente” tocca anche a noi con il Padre nostro. Niente di più sbagliato, ovviamente.

La Consacrazione è uno dei momenti più importanti della celebrazione, e viene accompagnato con due gesti che ne sottolineano la solennità – il suono delle campanelle e il gesto di inginocchiarsi – ma non bisogna per questo pensare che sia una cosa a parte. È proprio come il cuore pulsante della liturgia, insieme alla proclamazione del Vangelo: ma sappiamo che il cuore dà energia vitale all’organismo eppure sarebbe insignificante senza il corpo che lo circonda.

Don Davide




Bisogno di silenzio

La scena del vangelo della solennità di Cristo Re, fa da cerniera tra l’anno appena concluso sotto il segno della misericordia e il nuovo anno liturgico, che riprende con l’invito a una maggiore attenzione alla presenza di Gesù tra noi nell’eucaristia.

Oggi contempliamo Gesù sulla croce, nell’ennesimo atto di misericordia regale, con cui si fa precedere dal suo amico ladro – nuovo amico ed ex ladro – in Paradiso. È come se il suo sguardo, dall’alto, spingesse il nostro e ci invitasse a non dimenticare questo stile di misericordia, e a portarlo ancora e sempre di più nelle nostre vite, perché l’Eucaristia è il modo di Gesù di continuare la sua incarnazione tra noi.

L’apertura del Congresso Eucaristico diocesano è un richiamo a migliorare la qualità delle nostre celebrazioni e farne una sorgente per incarnare l’amore di Gesù nelle nostre giornate.

Sono da poco stato qualche giorno in un eremo camaldolese, dove la preghiera è sobria e raccolta, e la messa estremamente essenziale. In quel contesto privilegiato, ho potuto apprezzare quanto il silenzio fecondi la celebrazione.

Con questo ricordo ancora nell’animo, fermandomi questa domenica davanti alla scena della crocifissione di Gesù, la cosa che più mi colpisce è questa situazione caotica, di grande chiasso e confusione. Le persone che gridano, i sacerdoti che lo provocano, la voce sgraziata del ladro impenitente.

Oggi guardiamo alla croce come a un trono regale, e mi sono chiesto chi mai entrerebbe nel salone del trono di un grande re, con urli e schiamazzi. Di fronte a questo contrasto sentiamo la supplica del ladro pentito elevarsi da un silenzio che, evidentemente, gli ha permesso in un ultimo istante di grazia di capire quello che stava avvenendo. Lì sorge l’atto di fede, lì sorge una preghiera di salvezza, una preghiera che guarisce.

Se dovessi esprimere qual è il senso delle nostre liturgie direi proprio questo: che da un silenzio (prima ancora intimo, che esteriore) posto di fronte a Gesù, sorga un atto di fede schietto, e si possa elevare una preghiera di salvezza che ci cura e conforta in tutti i nostri bisogni.

La gioia della vita cristiana, il senso di comunione e fraternità, l’incoraggiamento a vivere la carità risultano da quel primo e più fondamentale passaggio.

Ho notato con piacere che anche il sussidio liturgico proposto dalla CEI per vivere l’Avvento nelle nostre comunità, fa leva su questa attenzione al silenzio.

Mi propongo, allora, che le celebrazioni dell’Avvento siano uno spazio privilegiato per il silenzio, con alcuni piccoli accorgimenti liturgici che vanno nell’ordine di togliere, e di sottolineare alcune attenzioni, per poi godere della pienezza nella celebrazione del tempo di Natale. In un foglietto a parte da queste brevissime riflessioni, indico quali sono le attenzioni che vorrei provare ad avere, per ora solo per il tempo di Avvento, con il proposito di verificare su quale stile migliore possono istruirci.

Se mi si passa l’esempio, è la differenza tra entrare in vecchio negozietto stile bazar e in un moderno Apple Store. Nel negozio moderno non troverai niente di superfluo, perché possa risaltare ciò che è prezioso. Ecco, nella liturgia noi abbiamo qualcosa di molto più importante che un iPhone o qualche altro strumento. Noi abbiamo qualcosa che non è da usare, ma da godere. E dobbiamo testimoniarlo come il nostro più grande tesoro.

Don Davide




Tra l’Eucaristia e il mondo

Il Congresso Eucaristico Diocesano, che inizia oggi, si apre in mezzo a sconvolgimenti e false promesse messianiche. Abbiamo sempre la tentazione di rifugiarci in qualche sicurezza a basso costo, purché nessuno ci obblighi a interrogarci seriamente sulla storia che, come cristiani, siamo chiamati a vivere e a interpretare.

Invece, tante volte abbiamo l’impressione che il nostro cristianesimo sia inefficace, collocato marginalmente rispetto alle grandi sfide del mondo, incapace a raccoglierne fino in fondo le provocazioni.

La seconda lettura, però, ci propone l’atteggiamento degli apostoli come modello: segnatamente Paolo. Un uomo che, dopo l’esperienza dell’incontro con il Risorto, non è rimasto ozioso. Ha lavorato seriamente per annunciare il vangelo, ma anche custodendo la pace e la tranquillità. Mi sembra che noi abbiamo oggi un esempio di questo stile in papa Francesco, che entra continuamente e con coraggio nei nodi dell’esistenza di oggi, e a farlo con sollecitudine e segnalando l’urgenza, ma allo stesso tempo lavorando con grande serenità e pace. La terribile diseguaglianza delle povertà mondiali; il problema delle migrazioni che – su scala mondiale – è ben più ampio e più drammatico di quello che noi percepiamo nel Mediterraneo; il bisogno di creare ponti e vie di incontro, in un vivere che è sempre più connesso tra tutti i popoli, le razze e le culture, e che si vorrebbe sempre più definire con muri e confini; la questione ecologica seria, per la salvaguardia del pianeta e il diritto di vivere delle generazioni future; l’esperienza di ferite micidiali nel mondo degli affetti personali, che hanno bisogno di essere curate; infine, la percezione netta della misericordia, come unica strada per sanare la rovina dell’esistenza, e collaborare alla redenzione del mondo e all’instaurarsi della nuova creazione di Dio.

Di fronte a tutto questo, Gesù ci dice di non farci spaventare, che non è la fine del mondo – perché “la fine” non sarà quando il mondo sfuggirà dalle mani amorevoli di Dio, ma quando lui deciderà di raccoglierne i destini – e che possiamo invece cogliere tutte queste sfide per dare testimonianza, anche con una certa semplicità e immediatezza.

Il Congresso Eucaristico Diocesano ci offre la sorgente per questo atteggiamento, nella celebrazione dell’eucaristia, che passa dal culto alla vita ordinaria. La tradizione dei Congressi Eucaristici non mette tanto al centro l’adorazione dell’ostia consacrata, come spesso erroneamente si pensa, ma il valore complessivo della celebrazione dell’eucaristia, di cui la Chiesa di Bologna è stata per molti decenni maestra ineguagliata riconosciuta a livello mondiale. I congressi eucaristici, si propongono, infatti, di recuperare il significato dell’atto del celebrare il culto in spirito e verità e in santità di vita, migliorando certamente lo stile della celebrazione, ma anche permettendo di raccoglierne la ricchezza da portare nella propria vita personale e nella pastorale della comunità.

Vorrei perciò, tra le altre cose, provare cogliere questa opportunità, radicandoci nell’essenziale della celebrazione, soprattutto nella celebrazione feriale. Sono appena stato un paio di giorni in un eremo camaldolese, dove l’eucaristia ruota attorno nella maniera più sobria possibile alle due mense: l’ascolto della parola e l’offerta del pane e del vino, in modo che ci sia più spazio per il silenzio (dopo l’ascolto della Parola e un breve commento radicato nella forza dei testi) e per unire la propria preghiera all’efficacia delle parole e dei gesti dell’offerta eucaristica. Non nascondo che alcuni accorgimenti in questa direzione mi sembrano interessanti, e che il tempo del Congresso Eucaristico Diocesano potrebbe essere l’occasione per tentare di caratterizzare ancora meglio lo stile della nostra messa feriale, in modo che anche la celebrazione festiva – che raduna tutta la comunità – possa guadagnarci e offrire la gioia di una preghiera e di una festa vissute intensamente.

 Don Davide