La tradizione della Chiesa di fronte alla morte
Nella cultura di oggi la morte è stata rimossa. Ci illudiamo di poterla quasi eludere, grazie alle conoscenze sul benessere psico-fisico, per l’incredibile sviluppo della medicina, con l’ausilio della tecnologia, ma quando poi siamo costretti a farci i conti siamo impacciati, la nominiamo con imbarazzo, cercando gli eufemismi.
In realtà, non c’è nulla di male, in questo.
Ma la fede in Gesù ci aiuta a confrontarci con la morte, senza sottovalutarla, ma anche senza averne così paura da doverla rimuovere. Anzi, ci permette di nominarla e di farla oggetto di meditazione per la nostra esistenza.
In questi mesi della pandemia, in modo particolare, la morte è stata vicina. Inevitabilmente, qualcuno si sarà scontrato contro il pensiero che la Cattiva Signora avrebbe potuto raggiungerci, in modo subdolo e inaspettato. Affrontare il pensiero, senza battere in ritirata, ci aiuta a imparare la sapienza.
Ho vissuto bene, fino ad ora?
Gesù è risorto, e la grande tradizione ci insegna che nell’attraversamento del Luogo delle Ombre – lo Sheól, in ebraico – lui prende per mano tutti i “prigionieri” e li riporta nel Giardino della Vita. Questo potrebbe essere il secondo elemento per meditare: il ricordo di coloro che abbiamo amato, che ci hanno preceduto e ci aspettano.
Siamo persuasi che ci rincontreremo?
Fin dai tempi delle catacombe, l’esperienza della Chiesa insegna che nella messa offerta per la memoria dei defunti, noi meditiamo su queste due domande. Nella messa, infatti, mentre siamo coinvolti in questa mensa collocata tra la terra e il cielo, che ha come commensali i vivi e i defunti, da un lato ci interroghiamo sul senso della nostra esistenza, dall’altro guardiamo alla comunione dei santi, fiduciosi che loro ci accolgano e che di questa comunione possiamo davvero fare esperienza, anche se “da qui” è sempre molto difficile.