Capita di essere trasferito dalla parrocchia dopo otto anni, e una ragazza che sapevi brillante – certo – ma che era stata quasi nascosta fino ad allora, ti scrive una lettera mozzafiato dove recupera le esperienze condivise, la vita imparata, le parole ascoltate e i passaggi in cui si è sentita accompagnata.
Capita che un gruppo di ragazzi proponga al proprio parroco un’attività; questi è entusiasta e scettico allo stesso tempo: la cosa è bellissima, ma riusciranno ad organizzarsi e a portare avanti l’impegno? Arrivano suggerimenti, loro però sono autonomi, hanno un progetto e le energie per realizzarlo, incassano il permesso ufficiale e declinano gli altri aiuti ringraziando con garbo, guardando l’affettuoso prete come un nonno partigiano che volesse insegnare ad usare l’iPhone 7 al nipotino.
Capita che un giovane prete si ricordi, a una fermata dell’autobus, di dovere benedire i nuovi capi squadriglia. Invece di «ciappinare o uozzapare col telefono» (cit.) si lancia in una versione Facebook delle grandi benedizioni bibliche sul cosmo e sulle persone.
Un tesoro da non sprecare
Sono solo tre esempi, ma chiunque abbia vissuto un’esperienza rivolta ai giovani con un incarico educativo o un ruolo pastorale – e abbia conservato quella minima capacità di stupirsi che si prova di fronte al mare o a una montagna incantata dalla neve – ha potuto intravedere un patrimonio di ricchezze infinito, uno scrigno dell’interiorità che andrebbe valorizzato.
Spesso, infatti, si tratta solo di un riflesso, un indizio in una caccia al tesoro, ma la sorgente di quel bagliore si trova in un luogo assai più profondo, e rischia di rimanere nascosta. Questa è la sfida pastorale: un tesoro non rinvenuto si spreca, come un capitale investito male, che non si può usare e si logora. Tante volte sembra che non ci sia, solo perché quando vi abbiamo inciampato sopra, non abbiamo fatto come l’uomo della parabola evangelica e non siamo andati a vendere tutto, per comprare quel campo e dissotterrare il forziere (cf. Mt 13,44).
Non sarebbe questa un’esperienza del Regno, fatta con i giovani e non ai giovani? Un simile capitale andrebbe portato alla luce e incoraggiato nel vivace contesto della liberalità giovanile, e non frustrato dentro richieste di piccolo profilo, preoccupazioni moralistiche o moraleggianti di buon costume e sforzi di contenimento parrocchiale.
Baricco, in Emmaus, critica un certo modello dei ragazzi cristiani: «Il senso di colpa, sempre. Siamo dei disadattati, ma nessuno vuole accorgersene. Crediamo nel Dio dei Vangeli».[1] Bisognerebbe riuscire a rendere evidente che non è così, che la Chiesa può essere un esempio – nei gruppi, attraverso le proprie iniziative e persino nella liturgia – della capacità di dare rilievo, spessore e maturità all’interiorità bella che cova nei giovani, per i credenti e per tutti.
L’interiorità dei giovani
Sento di poterlo dire con una certa convinzione. La realtà è questa: l’interiorità dei ragazzi come gli abissi più belli dei mari. Tutto il resto è retorica.
La retorica del “non ci sono più i giovani di una volta”; la fastidiosa autogiustificazione quando li accusiamo di essere attaccati al telefonino o ai videogiochi, perché non li sappiamo integrare in una conversazione; la nostra endemica incapacità di non giudicare, non svalutare, non snobbare, non liquidare le loro ragioni e le loro domande (non parlo dell’atteggiamento tutto melassa e smorfiette che si ha con i bimbi, ma della capacità di riconoscere l’intelligenza emotiva dei ragazzi).
Anche quando si manifestano delle durezze, una forza di opposizione invincibile o delle superficialità, sono convinto che per i ragazzi, ossia in quella fase in cui i giovani si affacciano per la prima volta alla loro giovinezza, sia sempre il riflesso di qualche sensibile – alcune volte troppo sensibile – esperienza interiore.
Germoglio del Regno
Come gli abissi più belli dei mari, così l’interiorità di questi giovani “mondi” – che non ha sempre tutte le parole per dirsi e l’esperienza per farsi – non viene vista e, talvolta, nemmeno percepita da molti. Bisogna avere il coraggio di immergersi in queste acque, come dei sommozzatori dell’anima. Si scende quasi in apnea, perché appena respiri tu, finisce l’incanto loro; come le barriere coralline, che non le puoi toccare, ma solo custodirle, farle risplendere, attendere un tempo lungo perché diventino lo splendore che sono.
Forse, la parabola del seme che cresce da solo (cf. Mc 4,26-29) si riferisce in modo particolare a quella singolare esperienza del Regno che si genera nel cuore dei giovani, quando la loro interiorità e la loro sensibilità – per vie nascoste ed impossibili da seguire – cresce; quando si innamorano di un verso di una poesia o di una canzone, o vergano di getto una pagina di diario, o sognano di scrivere un libro, o si perdono suonando una musica, o si appassionano a un film. Come avvenga questo miracolo non si sa, ci ricorda il Vangelo, ma non deve mancare la fiducia che possa accadere e la prontezza di coglierne il frutto.
[1] A. Baricco, Emmaus, Feltrinelli, Milano 2009, 16.
Don Davide
Testo scritto per SettimanaNews il 22 dicembre 2016