La forza della Parola

Il seme che sradica le pietre

Il secondo terreno su cui cade la semina della parola è quello sassoso, che ha come caratteristica di permettere al seme di germogliare, ma lo fa seccare alla prima calura per la mancanza di radici.

È fin troppo facile identificarlo con la nostra superficialità, le distrazioni, la pigrizia e – viceversa – la convinzione di potere fare mille cose, che ci impediscono di scendere in profondità, di assimilare e trattenere le esperienze vissute e le cose buone che abbiamo imparato e che ci potrebbero fare bene.

Ci sono come dei sassi che ci fanno inciampare e che rendono meno fertile il terreno.

Su queste tendenze, che in misura diversa sono di tutti, risuonano le parole dell’Avvento: Spianate nella steppa la strada per il nostro Dio! Ogni valle sia innalzata, ogni monte e ogni colle siano abbassati; il terreno accidentato si trasformi in piano e quello scosceso in vallata. Allora si rivelerà la gloria del Signore! (Is 40,3-5)

È un comando, ma è anche un “vangelo”, una buona notizia!

Possiamo trasformare questo terreno sassoso, e renderlo fertile. Possiamo trasformare quella parte della nostra esistenza più superficiale e farla diventare uno spazio accogliente.

Paradossalmente, è la stessa Parola di Dio che ha il potere di farlo. È come se il seme del Seminatore, avesse la proprietà di fare dei germogli così forti e robusti da rimuovere le pietre del terreno.

Infatti, il profeta Isaia afferma ancora: Secca l’erba e appassisce il fiore, ma la parola del nostro Dio rimane per sempre. (Is 40,8)

Così, in questa tappa, siamo invitati a dare spazio alla Parola di Dio letta, meditata, pregata e amata, perché ci dia quell’energia dinamica capace di bonificare il terreno. È l’impegno di questa seconda settimana d’Avvento: dopo avere provato a trasformare la strada in terreno fertile, chi vuole potrà trovare nella parte successiva l’esercizio spirituale per rimuovere i massi.

 

Metodo

1) Scegliere in anticipo un giorno e un momento preciso nella settimana per vivere questo momento di preghiera. Fissarlo in agenda e difenderlo con tenacia da qualsiasi altro impegno. 

2) Decidere in anticipo dove lo vivrò: se in chiesa, in quale chiesa? Se a casa, in quale stanza, su quale tavolo? Se in ufficio o all’aperto, dove precisamente? 

3) Tenere un taccuino di appunti e una biro. Tutti i passaggi della meditazione, ma anche le preghiere, sono facilitati se scrivo i miei pensieri. Basta anche solo un appunto, non importa che la forma sia perfetta. Lo faccio solo per me. Non lo deve né leggere né vedere nessun altro. 

 

Ingresso nella preghiera

Tempo previsto 3′

Prima di tutto, faccio lentamente il Segno della Croce, poi dispongo il mio cuore alla preghiera, chiedendo la grazia di cui ho bisogno.

Aiutami, Gesù, a preparare il mio cuore, perché la grazia del Natale sia significativa per me. Ti chiedo che questo momento di preghiera sia come un bagno, e che ne esca purificato/a dalle distrazioni, dalle frenesie e dalle preoccupazioni. Fa’ che lo Spirito mi guidi a celebrare con gioia la festa di Natale.

 

Meditazione

Tempo previsto 20′

Ora, meditiamo il testo.

PRIMO. Stiamo leggendo l’inizio del Vangelo. Marco è stato il primo vangelo ad essere scritto, quindi stiamo leggendo l’inizio di tutti i vangeli, anche se poi sono stati sistemati con un ordine diverso. Siamo riportati adunque al primo incontro con questo grande dono del Vangelo.

Medito: che emozione mi suscita la consapevolezza di essere riportati a questo incontro decisivo con l’annuncio della buona notizia di Gesù? Quando l’ho ascoltata per la prima volta, e da chi? Quando invece ho sentito che diventava importante, decisivo nella mia vita?

SECONDO. Giovanni Battista viene presentato come la voce del profeta Isaia che annunciava la consolazione per la fine dell’Esilio di Babilonia. Ora, il motivo della consolazione testimoniata da Giovanni è l’incontro imminente con Gesù. Dobbiamo pensare a un incontro molto concreto, fisico. Nella sequenza iniziale del Vangelo secondo Marco, Gesù entra in scena e si rivela pubblicamente per la prima volta.

Medito: quali motivi di consolazione ci sono nella mia vita? Li elenco tutti, preferibilmente su un quaderno o un foglio di carta.

TERZO. L’annuncio di Giovanni, però passa attraverso la richiesta di un impegno di conversione. Un “battesimo”, nel senso che uno/a ci si deve impegnare completamente.

Medito: che cosa significa per me, concretamente e pensando solo a queste tre settimane che rimangono prima del Natale, impegnarmi davvero a preparare l’incontro con Gesù? Provo a individuare una cosa, solo una, che desidero migliorare, in cui provare a mettere più attenzione, cura e impegno.

QUARTO. Giovanni dice che dopo di lui viene qualcuno di molto più importante, così sollecita la nostra attesa. Lui si riferisce alla presenza di Gesù che inizia il suo ministero pubblico, per noi in questo tempo significa prepararci al memoriale della nascita di Gesù, nella celebrazione del Natale.

Medito: chi è Gesù per me? Che sentimenti ho nei suoi confronti?

 

Preghiera

Tempo previsto 3′

Ora provo a raccogliere gli spunti che ho meditato e a trasformarli in preghiera. Dev’essere una preghiera semplice, con le mie parole, rivolta a Gesù. Potrebbe essere (ma solo come esempio):

Gesù, mi ha emozionato ritornare all’inizio del Vangelo. È come ripercorrere l’inizio di una storia d’amore. Ti ringrazio perché anche in mezzo alle preoccupazioni di questi giorni ho tanti motivi di consolazione… […]. Mi propongo di impegnarmi di più… […], per essere attento a vivere la festa con consapevolezza e intensità spirituale. Non vedo l’ora che sia Natale: sostare davanti alla tua natività suscita in me il desiderio di amare di più.

 

Contemplazione

Tempo previsto 2′

Infine, contemplo.

Scelgo una parola, una sola, che riassuma il contenuto della mia preghiera; potrebbe essere: speranza, o consolazione, o Vangelo, o Gesù. Prima di uscire dalla preghiera, mi siedo comodo, metto la schiena dritta, chiudo gli occhi e respiro lentamente. Mentre respiro, ripeto lentamente, al ritmo del mio respiro la parola che ho scelto. Faccio questo per 2 minuti o finché me lo sento. Non devo fare altro.

Al termine mi faccio lentamente il Segno della Croce ed esco dalla preghiera.




Aprirò anche nel deserto una strada

Irrigare l’aridità

Ascoltate. Ecco, il seminatore uscì a seminare. Mentre seminava una parte cadde lungo la strada; vennero gli uccelli e la mangiarono. […] Il seminatore semina la Parola. Quelli lungo la strada sono coloro nei quali viene seminata la Parola, ma quando l’ascoltano, subito viene Satana e porta via la Parola seminata in loro. (4,3.15)

Una delle prime promesse di Dio, che risuonano nel Tempo d’Avvento, è quella di ricondurre gli esiliati, di aprire percorsi necessari e nuovi.

Così dice il Signore, che aprì una strada nel mare e un sentiero in mezzo ad acque possenti. […] Aprirò anche nel deserto una strada, immetterò fiumi nella steppa. (Is 43,16.19)

In tutti noi c’è una parte più esposta a farci strappare il buon seme. Vuol dire, prima di tutto, che c’è molto di buono in ciascuno di noi. Il seme cade in uguale quantità sulla strada, come sul terreno buono. Abbiamo la possibilità di esserne consapevoli e di non lasciarcelo portare via dal Nemico. Non dobbiamo spaventarci. La partita non è fra noi e il Nemico e basta. Nella nostra squadra gioca un fuoriclasse, Dio, che fa la differenza.

Come ha aperto nel Mar Rosso la strada a Israele, per strapparlo dalla schiavitù, così anche oggi apre nel deserto una strada. Non è, però, una strada arida come quella della parabola. “Aprire una strada nel deserto” come dice il seguito del versetto di Isaia, significa in realtà irrigare quel terreno, renderlo fertile e attraversabile, tale da offrire il sostentamento e refrigerio durante il percorso.

In questa prima settimana d’Avvento, dunque, lasciamo che il Signore irrighi la nostra strada per trasformarla in terreno fertile. Possiamo fare concretamente questo esercizio:

1) Vado in chiesa 5 minuti per fare questo esercizio.

2) Lo posso fare una volta nella settimana o una volta al giorno o secondo il ritmo che preferisco.

3) Individuo due o tre peccati, debolezze o aridità che sento in questo periodo.

4) Ripeto questa frase: Padre buono, sento in me questo peccato/questa debolezza/questa aridità: me ne dispiaccio, ma non voglio intristirmi. Lascio che la bagni la tua misericordia.

5) La ripeto qualche volta, con calma, identica, finché non è scesa profondamente nel mio animo.

6) Concludo l’esercizio con questa semplice preghiera: Rendimi terreno fertile, Signore Gesù.




L’Avvento e il seminatore

Quattro terreni e quattro settimane 

Ci accostiamo all’Avvento, nell’anno in cui meditiamo sulla parabola del seminatore (Mc 4,1-20) e in questo periodo della pandemia che sembra volere erodere il senso delle feste natalizie. 

Abbiamo più che mai bisogno di una parola che venga seminata nei nostri cuori, per infondere in essi chiarezza e speranza, la virtù regina del Tempo di Avvento. 

Quattro sono le settimane dell’Avvento, come i terreni in cui viene seminata la parola. Percorriamo, allora, un itinerario spirituale per arrivare al frutto pieno: la Parola incarnata nella vita del mondo e pienamente accolta nel terreno del nostro cuore.  

Nel prossimo mese, tutte le settimane che precedono ogni domenica d’Avvento, troverete sul sito un’indicazione e un piccolo esercizio spirituale per trasformare ciascuno dei terreni della parabola del seminatore, terreni che sono, in realtà, nel nostro cuore. Ognuno potrà scegliere di fare questo esercizio spirituale nella settimana prima o dopo la domenica di riferimento, a seconda se preferisce prepararsi alla domenica, o avere un aiuto per vivere il cammino dell’Avvento in corso. 

La notte di Natale, così, potremo forse raccogliere un frutto tanto desiderato, eppure sorprendente e davvero inaspettato.




Una sapienza per la vita

La tradizione della Chiesa di fronte alla morte 

Nella cultura di oggi la morte è stata rimossa. Ci illudiamo di poterla quasi eludere, grazie alle conoscenze sul benessere psico-fisico, per l’incredibile sviluppo della medicina, con l’ausilio della tecnologia, ma quando poi siamo costretti a farci i conti siamo impacciati, la nominiamo con imbarazzo, cercando gli eufemismi. 

In realtà, non c’è nulla di male, in questo. 

Ma la fede in Gesù ci aiuta a confrontarci con la morte, senza sottovalutarla, ma anche senza averne così paura da doverla rimuovere. Anzi, ci permette di nominarla e di farla oggetto di meditazione per la nostra esistenza. 

In questi mesi della pandemia, in modo particolare, la morte è stata vicina. Inevitabilmente, qualcuno si sarà scontrato contro il pensiero che la Cattiva Signora avrebbe potuto raggiungerci, in modo subdolo e inaspettato. Affrontare il pensiero, senza battere in ritirata, ci aiuta a imparare la sapienza. 

Ho vissuto bene, fino ad ora? 

Gesù è risorto, e la grande tradizione ci insegna che nell’attraversamento del Luogo delle Ombre – lo Sheól, in ebraico – lui prende per mano tutti i “prigionieri” e li riporta nel Giardino della Vita. Questo potrebbe essere il secondo elemento per meditare: il ricordo di coloro che abbiamo amato, che ci hanno preceduto e ci aspettano. 

Siamo persuasi che ci rincontreremo? 

Fin dai tempi delle catacombe, l’esperienza della Chiesa insegna che nella messa offerta per la memoria dei defunti, noi meditiamo su queste due domande. Nella messa, infatti, mentre siamo coinvolti in questa mensa collocata tra la terra e il cielo, che ha come commensali i vivi e i defunti, da un lato ci interroghiamo sul senso della nostra esistenza, dall’altro guardiamo alla comunione dei santi, fiduciosi che loro ci accolgano e che di questa comunione possiamo davvero fare esperienza, anche se “da qui” è sempre molto difficile. 




Riprendere

Quattro parole per darci fiducia:
presenza – comunità – coraggio – ascolto

Cosa significa riprendere?

Che valore ha e che cosa mette in gioco riprendere la vita ordinaria, inevitabilmente caratterizzata dalla riapertura delle scuole e delle università; riprendere la vita lavorativa, dopo la pausa estiva; riprendere la pastorale, che praticamente si è arrestata a inizio marzo, con qualche eccezione che però non può surrogare l’incontro tra le persone?

E cosa chiede a ciascuno di noi lo sforzo di riprendere dopo la terribile esperienza della pandemia e della “chiusura”, consapevoli tuttavia che l’emergenza sanitaria non è alle spalle?

Abbiamo bisogno di incontrarci, di dare ritmo quotidiano alle nostre esistenze e di avere cura dei bimbi, ragazzi e giovani, che sembrano i più colpiti da questa situazione, come se li avesse sfiduciati ancora di più; dobbiamo assolutamente permettere che le loro energie rifioriscano.

La sfida è più che mai impegnativa, perché richiede alcune attenzioni, che decliniamo in quattro parole.

    1. PRESENZA. Non bisogna perdere l’importanza di quella dimensione di meno frenesia di cui l’emergenza ci ha fatto rendere conto, e che ci ha resi più presenti a noi stessi, come quando ci si riprende dopo un risveglio.
    2. COMUNITÀ. Non dobbiamo rinunciare all’incontro con la nostra comunità, per quanto piccola e scalcagnata che sia, e non possiamo accontentarci. Vibra l’urgenza di rianimare la vita di una comunità cristiana in senso evangelico, sfrondando le tante cose inutili e cercando di radicarsi in ciò che fa davvero bene alla vita delle persone.
    3. CORAGGIO. La pandemia non ha avuto solo degli effetti negativi visibili e quantificabili. In molti ha lasciato un senso interiore di disagio, di paura e di ansietà. Non dobbiamo pensare che siano esagerati o che non conti questa dimensione psicologica non conti eccessivamente. È preziosissimo anzi, accorgerci di chi è in difficoltà e aiutarlo, incoraggiarlo, stargli vicino, infondere una nuova fiducia. Possiamo e dobbiamo aiutare tutti a rifare i propri passi sentendosi sicuri, quindi si tratta di garantire la serenità di incontrarsi e fare le cose anche a chi è stato più turbato in questi mesi.
    4. ASCOLTO. Nel silenzio della pandemia, spesso la Parola di Dio ha brillato come luce e risuonato come lettura del nostro vissuto. La comunità cristiana, che ambisce ad incontrarsi dopo una simile terribile esperienza, si deve confrontare all’altezza delle sfide, senza ripiegarsi sulle abitudini e la tradizione.

A tutte e a tutti coloro che si sentiranno motivati a “riprendere”, anche in mezzo a tutte le fatiche e paure, va il nostro autentico grazie.




Egli passa

La Pasqua di Gesù e la nostra

Niente resiste a questo vincitore.
Egli passa
a porte chiuse dall’altra parte del muro.

(Paul Claudel, La notte di Pasqua)

Questo verso folgorante di Paul Claudel fa esplicito riferimento alla scena di Gesù che, la sera della resurrezione e otto giorni dopo, visita i suoi discepoli entrando nella stanza a porte chiuse – il testo evangelico lo dice per due volte (Gv 20,19.26) – e si colloca proprio “nel mezzo”.

Gesù risorto non è ostacolato dal fatto che siano chiuse le nostre case, che siano chiuse le nostre attività, che siano chiuse le nostre chiese. Lui passa attraverso i muri e si fa trovare proprio al centro, dove conta e dove possiamo incontrarlo: in mezzo alle nostre famiglie, in mezzo alle nostre vite, perché possiamo celebrare la Pasqua.

Anche se le regole devono sigillare le porte, la pietra del sepolcro rotolerà. La morte sarà sconfitta.

È molto importante ricordare che Pasqua in ebraico significa passaggio e quindi questi versi del poeta possono essere interpretati anche con questo significato: “Egli fa Pasqua a porte chiuse…”

Nonostante il dispiacere di non potere celebrare insieme, dobbiamo riconoscere che non siamo noi a dovere garantire che si avveri la resurrezione. Non dobbiamo preoccuparci troppo di questo. È lui che passa. È lui che fa la Pasqua insieme con noi.

E il primo saluto che ci porta, ancora seguendo il vangelo di Giovanni è: “Pace a voi!” (Gv 20,19), affinché almeno attraversando questa notte, almeno in questo giorno, i nostri cuori non siano turbati.

E la seconda cosa che ci consegna è il mandato di riconciliare e di perdonare, di fare sentire a tutti la tenerezza di Dio.

E il terzo effetto che vuole operare in noi è l’esperienza di questa resurrezione, anche se rimpiangiamo di non essere stati lì a vederlo e toccarlo, ma con Tommaso possiamo dire: “Mio Signore e mio Dio!” (Gv 20,28).

Si tratta, dunque, di accettare di incontrarlo o nelle nostre case, o personalmente. Possiamo richiamare la dimensione domestica delle prime celebrazioni della Pasqua, sia della Pasqua ebraica, che si ritualizzava con la propria famiglia, sia della Pasqua cristiana, che si viveva nelle case dei primi cristiani.

 




La consistenza delle parole

Morte, bene, casa, cristiani

In questi giorni abbiamo ascoltato tantissime parole. Quelle che venivano da lontano, confuse e quasi incredibili, che parlavano di un nemico con il nome, ma senza volto, che speravamo di non dovere combattere. Poi quelle autorevoli, di chi è deputato a prendere le decisioni: parole pesanti, che hanno necessitato la nostra obbedienza e di modificare la nostra vita. Infine, anche le parole sciocche, urlate, scomposte e stolte. Per fortuna, quest’ultime non erano da sole: cercavano di oscurare le belle testimonianze, le parole tenere e incoraggianti, quelle di amicizia e di solidarietà, ma hanno perso. 

Per chi si dichiara discepolo del Verbo fatto Carne, è necessario essere attenti alla consistenza delle parole. 

Tra queste, quattro in modo particolare: morte, bene, casa, cristiani. Le prime tre sono sulla bocca di tutti. L’ultima di nessuno, ma non è meno importante. Anzi, proprio il fatto che non venga pronunciata, la rende ancora più preziosa. 

Tante persone morte: “Oggi sono morte n. persone.” In questo caso, la consistenza della parola morte ci rimanda dal numero alle persone. Non c’è un numero di morti; ci sono degli uomini e delle donne morti. “Chi ha pianto per quelle persone?” chiese papa Francesco nella famosa omelia di Lampedusa (08-07-2013). Insieme a quelle persone ci sono delle storie, qualcuno che piange (in quasi tutti i casi senza potere nemmeno celebrare il funerale) che, nella difficoltà, sarà persino segnatda un trauma. 

Dietro a quelle esistenze c’è anche un’infinita bellezza di cura: la fatica e la dedizione del personale sanitario, la solidarietà, la gentilezza di chi accudisce i malati, il gesto di chi ha offerto loro un telefono per chiamare chi non si poteva vedere, magari per l’ultima volta. 

Ogni volta che pronunciamo la parola “morte” dobbiamo sentire un vissuto e tutta la sua consistenza. 

E poi il pensiero della morte. Che arriva invisibile, improvvisa. Che colpisce mentre si pensava di essere invincibili che i nostri stili di vita e la nostra economia fossero immodificabili. La possibilità della morte che terrorizza perché non sai da dove arriva il tocco. 

Il pensiero alla morte, concreta, reale, plausibile, vicina, invadente, è sempre stato, nella tradizione cristiana, una meditazione sapienziale utile per acquistare saggezza. Attenzione, non si intende l’essere avvoltoi o sciacalli in una situazione di sventura: tutto il contrario. Il pensiero alla morte è stato un modo di neutralizzarne la forza orrorifica, per fare diventare la sua considerazione un esercizio per valorizzare e custodire la vita e le sue bellezze nel più puro dei modi.  

“Tutto andrà bene” è la frase che ci si consegna come augurio e come incoraggiamento; lo slogan che si scrive sui post-it attaccati ai campanelli o sulle vetrine dei negozi, o come stickers di Instagram e Facebook. È un pensiero bellissimo, per la tenerezza che esprime e quel senso di cura con cui ci si vorrebbe rassicurare gli  uni gli altri. 

Qui, riscoprire la consistenza della parola bene, significa riconoscere l’appello che ne deriva. 

Per qualcuno, purtroppo, non sta andando tutto bene. Ma questo non toglie la bontà dell’augurio o dell’incoraggiamento. Solamente, ci chiede di comprenderlo meglio e di farne buon uso: non per rassicurarci a basso prezzo o per metterci la coscienza a posto, ma per farci sentire la responsabilità per i fratelli e le sorelle. 

Tutto andrà bene, se ci aiutiamo. Tutto andrà bene, se siamo solidali. Tutto andrà bene, se ciascuno si sforza di fare la propria parte, senza dimenticarsi degli altri. E quando tutto sarà andato bene, non disperdere il tesoro dei legami. 

Non solo restate a casa”, anche nella sua versione #iorestoacasaQuesto restare può essere interpretato più che altro come un tornareCerto, ci siamo sempre stati a casa, ma non con quella sfumatura di intensificazione che è data dal restare e dalla consapevolezza di non avere alternative. 

Le autorità ci hanno portato piano piano ad accettare di stare a casa e non senza qualche resistenza; proprio perché “starci” significava, in realtà, tornarci stabilmente, in modo fisso, creando una consuetudine che non lo era affatto. Gli stessi governanti hanno avuto bisogno – come noi tutti – di focalizzare la necessità di fermarsi davvero. Quindi, tornare a casa anche nel senso di intraprendere quel cammino a ritroso dalla nostra dispersione al luogo domestico, alla permanenza prolungata, a una obbligata riduzione del nostro efficientismo, alla riscoperta del tempo. Per alcuni (chi vive insieme o in famiglia) è tempo di legami strettissimi; per altri (chi vive individualmente) è tempo di grande solitudine. Non dimentichiamoci che “restare a casa” ha tutta la consistenza anche di queste sfide non facili, talvolta difficilissime.  

Tornare a casa è sempre anche metafora di salvezza, come per il figliol prodigo, come per il tanto agognato Giardino di Eden, che aspetta un ritorno e che, paradossalmente, alla fine della Bibbia viene trasformato in una città, una città aperta, dove tutti si possono incontrare senza paura. Tornare a casa è la fine dell’esilio della nostra dimensione spirituale, contemporaneamente è la promessa/premessa della vittoria contro l’emergenza sanitaria, uscita dal nostro spaesamento e prospettiva di un avvenire sereno e pieno di incontri. 

Questa parola nessuno la dice, eppure stiamo assistendo a un evento epocale e fino a solo pochi giorni fa inimmaginabile, il fatto – cioè  che le comunità religiose di tutta la nazione sospendano i loro riti. Non solo i cristiani, ma tutti. Qui, però, parliamo di noi, della consapevolezza di noi cristiani. 

Le campane che si fanno vicine a un popolo che non può muoversi; le candele spente; le chiese vuote. La messa non partecipata. Le preghiere, però, niente affatto mute. 

Chi l’avrebbe detto che ne avremmo sentito la mancanza? Ecco, dirci: “sono cristiana, sono cristiano” ci deve richiamare alla consistenza della nostra fede, a che cosa è importante e decisivo, a cosa ci caratterizza. Proprio questo silenzio grida alla nostra coscienza e consapevolezza. Ci fa compiere una specie di salto evolutivo sulla comprensione dei nostri gesti religiosi e nella qualità della nostra fede.  

Di questi giorni dirsi: “sono cristiana, sono cristiano” ha tutto un altro sapore: ha il sapore amaro di una mancanza difficile; ha il sapore dolce di una sete che sa dov’è la sorgente. 




Sotto le ceneri l’incendio

Dalle Ceneri alla Veglia di Pasqua

«Non può essersi spento / o languire troppo a lungo / sotto le ceneri l’incendio. / Siamo qui per ravvivarne / col nostro alito le braci, / che duri e si propaghi, / controfuoco alla vampa / devastatrice del mondo.» (M. Luzi)

Bernardo Gianni, monaco olivetano, abate di S. Miniato al Monte (FI), cita questa poesia all’inizio della sua predicazione degli esercizi spirituali al Papa, nel 2019.

Si parla di un fuoco, come di braci, che non può rimanere ancora soffocato sotto la cenere. È il fuoco dello Spirito e di un risveglio della fede. La cenere è prodotta dalla “vampa devastatrice del mondo”, che sia il clima di un pianeta che sta bruciando a causa del nostro peccato ecologico, o la follia delle guerre e dell’odio, o del nostro peccato che ci allontana dall’amore di Dio.

È come il bombardamento di una guerra spirituale, al quale bisogna opporre una contraerea. “L’alito” della poesia è metafora del soffio vitale. Siamo chiamati a suscitare questo fuoco nuovo con la nostra vita, ma tutti sappiamo che non basta soffiare sulle braci per arrossarle. Perché si rigeneri il fuoco ci vuole altra legna: dobbiamo portare ancora qualcosa della nostra esistenza, altri cuori che ardano.

In questi pochi versi, così, il poeta disegna l’itinerario quaresimale: dalle Ceneri al fuoco nuovo della Veglia Pasquale, pronto ad ardere con l’offerta della nostra vita, ravvivata dallo Spirito.




Commemorazione dei fedeli defunti

Celebrare l’Eucaristia per ricordare i risorti.

La Commemorazione dei fedeli defunti ci aiuta a ricordare la comunione che si stabilisce nella celebrazione dell’Eucaristia. È un legame spirituale più grande di quello che si crea fra chi celebra: il memoriale dell’Ultima Cena, infatti, ci porta al sacrificio di Gesù, all’offerta della sua vita per vincere la morte in favore della vita di tutti. 

È un legame, quindi, che si stende come un manto benevolo su tutta la linea del tempo, che va ad abbracciare tutti i defunti con cui entriamo in comunione, perché sono convocati alla stessa tavola, vivi anch’essi, perché già partecipi pienamente del trionfo di Cristo sulla morte. 

Per questo, da sempre, la Chiesa celebra l’Eucaristia in memoria dei defunti. Nelle catacombe romane ci sono rimasti dei simboli commoventi di questa fede: il pane e il vino disegnati sulle tombe dei cristiani dei primi secoli, insieme alla figura di un giovane, effigie del Risorto. 

Per ricordare i propri defunti, quindi, il modo migliore per significato e più corrispondente all’autenticità della fede cristiana è quello di dedicare l’intenzione di una messa alla memoria dei propri cari. È molto più di una tradizione ereditata dai nostri nonni, che i giovani guardano con certo sospetto e distacco. 

Questa pratica esprimere la nostra fede in Gesù e nel mistero pasquale che celebriamo nell’Eucaristia. 

La messa NON si paga, e la richiesta di intenzione in una messa è GRATIS. Grazie a un’antica e devota tradizione, tuttavia, i fedeli colgono normalmente questa occasione per fare un’offerta per la manutenzione della chiesa e per la vita della parrocchia. Essa non è un compenso per la celebrazione della messa, ma si configura come un’occasione per assumersi la responsabilità della nostra chiesa che vogliamo integra e bella e della nostra comunità che vogliamo attiva e viva. 




La Croce di San Valentino

Segno di fede e devozione.

La Croce di San Valentino è un segno di fede e di devozione molto speciale, legato alla chiesa santuario di S. Valentino della Grada.

Gesù ci invita a prendere su di noi il suo giogo (Mt 11,28-30) come il Cireneo (Mt 27,32), ma in realtà non siamo noi ad aiutare lui, è lui che sostiene noi. Il giogo, portato così assieme con lui, diventa leggero e noi troviamo sorprendentemente consolazione e riposo. È l’esperienza della grazia.

La Croce di San Valentino è il segno di questa grazia. È una croce con un unico asse verticale, ma due assi orizzontali, a indicare che la nostra croce è unita a quella di Gesù.

È la grazia che ha provato prima di tutto il sacerdote Valentino, nella sofferenza del martirio. Affidandoci alla sua intercessione, siamo sempre aiutati a trovare in Gesù coraggio, consolazione e sollievo.

Signore Gesù,
unisci la mia croce alla tua
affinché anche la mia sofferenza
sia trasfigurata,
come quella di San Valentino,
in un’offerta d’amore a te
per la salvezza del mondo
e per il bene di coloro che amo.

Amen.

Calendario delle Celebrazioni nella Chiesa di S. Valentino