La chiamata del buon pastore

La Chiesa dedica questa Domenica, IV dopo Pasqua, alla “Giornata di preghiera per le vocazioni”.

La figura che emerge dalle letture odierne è quella del buon (o bel) Pastore, già presente nei graffiti e negli affreschi delle Catacombe, effigiato con sulle spalle l’agnello più giovane o più debole del suo gregge.

Questa immagine è stata efficacemente ripresa da Papa Francesco, che ha sottolineato come il vero pastore si riconosce dall’odore del gregge che guida distinguendosi dal mercenario che non sta con le sue pecore, quindi non le conosce. Nel momento del pericolo, infatti, le abbandona al lupo, che le “rapisce e le disperde”. Non a caso i due verbi, nella Scrittura, sono usati per descrivere l’agire di Satana o Diavolo ( da “dia-ballo” = separo).

Il vero pastore non fugge, rimane ed è pronto a dare la vita per il gregge, che gli è stato affidato come, fuor di parabola, ha fatto Gesù per i suoi e per tutti noi.

In questo brano il verbo “conoscere” (che sappiamo avere addirittura un significato di intimità nuziale: “Adamo conobbe Eva”; Maria: “Non conosco uomo . . .”) è citato ben quattro volte e la conoscenza avviene attraverso la “voce“ del Pastore che unisce il gregge e lo porta in salvo.

Nelle letture di questi giorni, soprattutto nei Vangeli, si è spesso usato il Verbo “dimorare, rimanere”: noi in Lui, Egli in noi. E’ il verbo del Battesimo di Gesù quando si dice che lo Spirito “si ferma, rimane” su Gesù che dal Padre è chiamato “il diletto”.

La prima lettera di Giovanni, seconda lettura, inizia con un “carissimi” che letteralmente significa “diletti”, la stessa parola usata dal Padre nei confronti del Figlio sempre durante il Battesimo nel Giordano.

Il testo afferma che “fin d’ora siamo figli di Dio” e fratelli di Gesù che ancora vediamo come in uno specchio (1 Cor 13,12) mentre “quando si sarà manifestato lo vedremo così come Egli è”.

L’immagine che Pietro, negli Atti, mostra agli abitanti di Gerusalemme e ad ognuno di noi è quella di un uomo infermo, di un “ecce homo”, risanato nel nome di Gesù Cristo il Nazareno “che voi avete crocifisso e che Dio ha risuscitato dai morti”.

Gesù rivive ed opera negli apostoli che hanno incontrato, guardato con amore e preso per mano quell’uomo, lo hanno “toccato” come faceva Gesù che agiva con “viscere di misericordia” come il prossimo giubileo invita ogni cristiano a fare.

Il cristiano non è uno a cui è andato bene o deve andare bene tutto, ma è uno che “vi sta innanzi risanato”.

Anche per noi non c’è altro modo di essere salvati che essere guardati, toccati dall’amore.

Il Salmo ripete, per due volte, “il suo amore è per sempre” ed “eterna è la sua misericordia” come ripeteremo con Papa Francesco nell’anno del giubileo straordinario: “Gesù Cristo è il volto della misericordia del Padre”.

Don Davide




La concretezza della resurrezione

Nella lettura di questa III Domenica di Pasqua riecheggia ancora l’eco delle ultime parole di Gesù sulla Croce: “Perdona loro … !”. Infatti, la grandiosa “omelia” di Pietro si rivolge a coloro che avevano invocato la condanna di Gesù e, invece di maledirli per il loro misfatto, li invita ad una conversione perdonando il loro peccato, come aveva fatto Gesù sulla Croce. Il discorso di Pietro fu pronunciato sotto al portico di Salomone, verso le tre del pomeriggio, dopo la guarigione di uno storpio presso la porta del tempio detta “Bella” dove questi chiedeva l’elemosina. All’inizio del capitolo seguente sappiamo che “molti di quelli che avevano ascoltato il discorso credettero e il numero degli uomini raggiunse circa i cinquemila”.

Nella scia della prima lettura anche il brano di Giovanni ribadisce che è possibile tornare sempre a Gesù, anche se abbiamo peccato. La nostra conversione non dipende innanzitutto da una nostra iniziativa, per quanto virtuosa, ma dall’accoglimento da parte nostra della sua persona.

Il Vangelo infine sottolinea la “corporeità” di Colui che i discepoli avevano creduto un fantasma. Egli li invita a guadare e toccare i segni della Passione nelle sue mani e nei suoi piedi, e chiede loro qualcosa da mangiare: pesce arrostito che “prese e mangiò davanti a loro”.

Certamente il suo è un corpo trasfigurato e rimane il mistero della sua resurrezione, ma in noi rimane la speranza di non essere destinati a restare polvere e la comprensione dell’importanza e del valore del nostro corpo, già qui e ora, vivendo la verità della fede e sperimentando l’amore, il bene, il perdono. Non c’è opposizione tra corpo e anima, carne e spirito, l’uomo è da considerarsi un’unità avviata all’incontro con una Persona realmente vivente.

Quindi, la nostra preghiera è ben espressa dal Salmo responsoriale, che ci invita continuamente ad invocare “la luce del tuo volto”, la luce del Risorto che ci indica la strada e con le sue parole ci fa “ardere il cuore” come ai discepoli di Emmaus, annunciando a tutti quella Pace che solo Lui può donare.

(Commento a cura di Gilberto Turchi)




Incontrare il Risorto

Nel clima della Pasqua traspare la condivisione della comunità cristiana. L’incontro con Gesù risorto stringe i discepoli in una nuova esperienza di comunione e di vicinanza. Il Signore Risorto che effonde il potere di riconciliare sui suoi discepoli, agisce anche perché tutte le tensioni si stemperino e si possa ritrovare la pace e l’unità.

La vita morale cristiana, infatti, non si configura come un cammino di perfezione o di miglioramento, ma come una conseguenza dell’amore di Dio, il frutto di quest’esperienza. L’amore di Dio ci è donato gratuitamente. Non siamo noi che con il nostro impegno lo guadagniamo. Però, possiamo cercare di non disperderlo, di non buttarlo via, custodendo la vita da figli che è stata generata in noi.

C’è un altro modo di stare in questa esperienza di grazia: la partecipazione ai sacramenti della Chiesa. In essi, facciamo l’amore invisibile di Dio che passa per canali molto concreti e, mentre opera misteriosamente in noi, ci fa anche sentire la vicinanza di qualche fratello e sorella, perché nessun sacramento si celebra senza la partecipazione della comunità cristiana.

Questa medesima esperienza concreta è quella che fanno i discepoli riuniti nel Cenacolo. Essi vedono/incontrano Gesù Risorto. È un incontro reale, ma anche vissuto con fede. Gesù non si “impone” alla vista, ma chiede di essere riconosciuto dai nostri “organi spirituali”. Quando Gesù si fa vedere ai suoi, Tommaso non è presente. Questa coincidenza lo ha fatto passare alla storia come il più dubbioso tra tutti i discepoli, ma non è vero. Tommaso chiede solo di fare la medesima esperienza che hanno fatto gli altri discepoli: vederlo e incontrarlo. È importante capire che in questo incontro, Tommaso non mette in atto ciò che si era proposto di fare. Di fronte a Gesù che si rende disponibile a farsi toccare, Tommaso risponde con la professione di fede: «Mio Signore e mio Dio».

In questo modo, il vangelo non vuole fare altro che dirci che quel modo di fare esperienza di Gesù risorto, è lo stesso che possiamo e dobbiamo fare anche noi. Non desiderando di vedere Gesù, ma ascoltando la sua parola. Allora egli si farà riconoscere, in un’esperienza però che è sempre guidata dalla fede.

Don Davide




Come dire: “Gesù è risorto”?

C’è un contrasto significativo tra la resurrezione di Gesù e la vicenda di dolore e di morte che lo ha portato alla croce. Lo stesso contrasto si ripete tra l’annuncio festoso della resurrezione, e un mondo profondamente segnato dalla violenza, dall’ingiustizia e dalla morte.

Noi diciamo: “Gesù è risorto, rallegriamoci!”, perché viviamo in pace, perché il giorno di Pasqua ci troveremo con amici e parenti, perché festeggeremo con serenità.

Ma come dimenticare tutti coloro che celebrano questo annuncio: “Il Signore è risorto! La morte è stata sconfitta!”, in una situazione dove tutto contrasta con queste affermazioni? E senza andare lontano, come fare sì che la parola “Pasqua” sia vera anche per chi in questo giorno se ne dovrà stare solo, per chi non avrà una tavola riccamente imbandita, per chi sperimenterà l’angoscia, la disperazione o il lutto?

Quando noi cristiani interpretiamo la Pasqua, non possiamo trascurare che questo evento viene annunciato dalla Chiesa a dispetto di tante circostanze avverse. Come fare sì che il nostro annuncio non si svuoti, non sia vano o insignificante?

La Pasqua è, anzitutto, una speranza. Un’iniezione di fiducia al mondo.

Poi la Pasqua è anche una meta. Procediamo di resurrezione in resurrezione, per dare una direzione alla nostra vita, per imparare ad amare, per correggere gli errori e l’inesperienza del passato. Il Signore, con la sua resurrezione, ci accompagna e ci dà un senso, fino a quando potremo fare Pasqua con la nostra stessa vita.

Infine, la resurrezione di Gesù è una benedizione per tutti quelli che accettano di affrontare il faticoso cammino della vita con fiducia, allargando il cuore e alleggerendo il peso, affinché la gioia dello Spirito possa animare realmente una nuova vita.

Don Davide




La notte più beata di tutte le altre notti

La Veglia di Pasqua è la messa di Pasqua per eccellenza. È la “madre di tutte le veglie” da antichissima tradizione. Si chiama “veglia” non perché sia qualcosa di aggiunto alla messa, ma perché si celebra di notte, dopo il tramonto del sole, all’inizio del “terzo giorno” (secondo il conteggio all’ebraica) dalla morte in croce di Gesù.

Celebriamo di notte quasi per intercettare il mistero più grande della storia del cosmo, ossia quando è successo che Gesù abbia spaccato le catene della morte e cosa sia successo realmente. La liturgia lo dice perfettamente nell’Annuncio Pasquale: «O notte veramente beata, tu sola hai meritato di conoscere il tempo e l’ora in Cristo è risorto dai morti!».

Così la Veglia di Pasqua inizia con la luce che dissipa le tenebre: la prima parte della veglia è infatti la LITURGIA DEL FUOCO. Questo fuoco è il simbolo dello Spirito Santo che opera la resurrezione di Gesù: è il mistero dell’amore di Dio che brucia, ma non consuma, come il roveto ardente di Mose (Es 3). Il Cero Pasquale acceso al fuoco nuovo è il segno della presenza reale di Cristo Risorto nella sua chiesa. Per questo il Cero è il protagonista assoluto di questa celebrazione: apre la processione iniziale solcando il buio, viene incensato e cantato nell’Annuncio Pasquale, sta accanto all’ambone nella lettura del Vangelo, viene usato per la benedizione del fonte battesimale e, infine, domina la scena sul presbiterio per tutto il tempo fino alla Pentecoste.

La seconda parte della veglia è la LITURGIA DELLA PAROLA, dove attraverso un ascolto prolungato e pacato dei grandi eventi della storia della salvezza, noi vediamo preannunciato il mistero della resurrezione di Cristo e veniamo preparati ad accogliere questo grande annuncio, che esplode nel salmo alleluiatico e nella proclamazione del Vangelo.

La terza parte della veglia è la LITURGIA BATTESIMALE, O LITURGIA DELL’ACQUA, nella quale celebriamo il momento che ci ha resi partecipi della resurrezione di Gesù, cioè il Battesimo.

La quarta parte della veglia è la LITURGIA EUCARISTICA, nella quale riviviamo tutto il mistero del Crocifisso – Risorto, offerto per la nostra salvezza, vivo e presente nella sua Chiesa e nell’Eucaristia.

Il senso di queste quattro tappe è un progressivo inserimento dei credenti nella grazia della resurrezione. Dapprima la resurrezione viene rivissuta nel suo “evento” (liturgia del fuoco); poi viene annunciata alla chiesa (liturgia della parola); quindi si ricorda che la realtà della resurrezione coinvolge i credenti mediante il Battesimo (liturgia battesimale); infine viene celebrata e riattualizzata in forma rituale (liturgia eucaristica).

Non c’è niente di più efficace per “fare” Pasqua – ben al di là delle nostre disposizioni e dei nostri buoni propositi – che partecipare alle celebrazioni del Triduo Santo, nelle quali, la grazia di Cristo che tutto vince ci raggiunge e ci salva, aiutandoci a compiere tutti i “passaggi” (= le pasque) che siamo chiamati a fare.

Don Davide




La Croce – Gli infermi e il Sabato Santo

In molte tradizioni liturgiche, specialmente in quella Cattolica Romana, all’interno della celebrazione del Venerdì Santo si fa anche la Comunione, vista come momento in cui accogliamo devotamente il Signore, unendoci alla sua morte attraverso la presenza di Gesù nell’Eucarestia in stato di vittima. Personalmente, non sono convintissimo di questa interpretazione, perché la Comunione è sempre legata alla celebrazione integrale dell’Eucaristia, in quanto trova in tutto lo sviluppo della celebrazione il suo senso pieno. Anche quando viene portata ai malati fuori dalla messa, è sempre legata alla celebrazione domenicale di tutta la comunità. Pertanto non mi sembra perfettamente coerente con il ritmo “diverso” del Triduo Pasquale; inoltre, penso che viviamo meglio il significato del Triduo stesso, se cogliamo il ponte tra la celebrazione del Giovedì e quella della Veglia Pasquale, attraverso la sosta nella contemplazione della Croce e la pausa silenziosa di fronte al sepolcro. In questo modo, siamo spinti ad attendere trepidanti la portata della celebrazione della Grande Veglia Pasquale, come una esplosione di grazia che ci raggiunge.

Dalla Celebrazione della Passione del Signore, per tutto il Sabato Santo, in chiesa troneggia la Croce. In questo lasso di tempo, i fedeli devoti che vengono a pregare sono invitati a fare la genuflessione davanti alla Croce, proprio perché essa è il segno concreto della morte di Gesù che contempliamo e meditiamo.

Il Sabato Santo è un giorno di silenzio, in cui tutta la chiesa sosta, quasi trattenendo il fiato.

In questo giorno non c’è alcuna celebrazione, solo la preghiera comunitaria della Liturgia delle Ore, nella quale si medita il significato misterioso della permanenza di Gesù negli inferi (ATTENZIONE: NON nell’Inferno!). L’Inferno è un concetto cristiano, mentre nel Sabato Santo si considera la discesa di Gesù in quello che in ebraico veniva chiamato lo “Sheol”, il “Luogo delle ombre”, il luogo dei morti, dove Gesù scende a riscattare tutti dai vincoli della morte. L’efficacia di Gesù, prima ancora che morale, è interpretata come oggettiva: Gesù scende nel luogo dove stanno i morti a sciogliere le catene della morte per ridonare la vita, questa è la grande idea di tutta la tradizione cristiana fin dall’inizio, sia in oriente che in occidente.

In questo silenzio, in questo buio che è rappresentato dal buio totale (anche in chiesa) che fa da contesto all’inizio della Veglia Pasquale, una luce squarcia le tenebre: è la luce realmente significata nella Cero Pasquale che viene acceso al fuoco nuovo, è la luce della Resurrezione di Cristo.

Don Davide




Venerdì Santo

La messa del Giovedì Santo finisce con l’adorazione del SS.mo Sacramento nell’altare della reposizione, che è metafora dell’inizio della passione di Gesù nel Gestemani, in cui i cristiani provano a vegliare con lui nell’ora della prova.

Così siamo introdotti al clima del Venerdì Santo, giorno in cui contempliamo attoniti la morte del Figlio di Dio, ma soprattutto adoriamo stupiti il dono d’amore che ha trasformato persino la Croce in un segno di vita. La Croce, infatti, sta al centro della celebrazione di questo giorno.

L’altare principale della chiesa viene completamente spogliato (già dopo la messa del Giovedì), perché l’altare nella liturgia è il simbolo di Cristo e così, in questo giorno, diventa il simbolo di Cristo morto, al punto che – all’inizio della Celebrazione della Passione di Gesù – ci si prostra in adorazione davanti all’altare spoglio.

Bisogna ricordarsi che la liturgia del Venerdì Santo non è una messa, ma è la Celebrazione della Passione di Gesù, proprio perché il Triduo Pasquale ripercorre la morte e resurrezione di Gesù secondo un ritmo cronologico. Tre sono i momenti importanti di questa celebrazione:

  1. Il racconto della Passione di Gesù secondo Giovanni, letta alla luce delle profezie che ne illuminano il senso. Non è solo una lettura e un ascolto: è il momento in cui si accoglie l’efficacia di salvezza per la nostra vita di questo annuncio, che Gesù è morto per
  2. La preghiera universale. Alla redenzione operata da Gesù, noi associamo tutte le preghiere fondamentali per la vita della Chiesa e del mondo. È una grande preghiera di intercessione, che noi affidiamo ai “meriti” di Gesù. È anche il modello di tutte le Preghiere dei fedeli che si fanno nelle altre celebrazioni.
  3. L’adorazione e il bacio della Croce. In questo momento riconosciamo il gesto di amore di Gesù, lo facciamo attraverso un bacio, per testimoniare che crediamo che la Croce è divenuta un legno di vita e di salvezza per il mondo. È il momento apice di questa celebrazione, quando la Croce, da supplizio infame, viene trasfigurata e diventa il seme piantato da cui nascerà la vita.

Dopo questo momento solenne, l’assemblea si scioglie in silenzio, così come in silenzio si era radunata per l’inizio della Celebrazione.

Don Davide

 




La messa nella cena del signore

La Messa nella Cena del Signore, che ricorda appunto L’ultima cena di Gesù, è il grande portale del Triduo Pasquale; come il preludio di una meravigliosa sinfonia appartiene alla sinfonia stessa, anticipandone i temi principali e costituendo un’introduzione, così anche la messa del Giovedì Santo, appartiene al Triduo, ma lo anticipa in tutti i suoi temi.

È molto importante notare che il Segno della Croce che dà inizio a questa celebrazione, apre tutto il Triduo Pasquale e verrà rifatto solo alla fine della Veglia Pasquale, a indicare che in effetti è tutta una grande unica celebrazione della Pasqua.

Anche le campane suonano a festa durante il canto del Gloria, per poi tacere (una volta si diceva che venivano “legate”) fino a scatenarsi nuovamente il giorno di Pasqua.

Nella messa della Cena del Signore, la liturgia celebra ancora tutto il mistero di Gesù nell’Eucaristia («Annunciamo la tua morte – proclamiamo la tua resurrezione), ma nei tre giorni seguenti si interrompe questo ritmo misterico/sacramentale e il ritmo della liturgia viene caratterizzato – per l’unica volta nell’anno – da una scansione cronologica: Passione di Gesù (Getsemani); Morte (Venerdì Santo); permanenza nel sepolcro e discesa agli “inferi”, cioè il Regno delle Ombre, dove Gesù va a liberare tutti gli uomini dalle catene della morte (Sabato Santo); e Resurrezione (Domenica di Pasqua).

La messa del Giovedì, quindi, tiene insieme due aspetti: da una parte è molto festosa perché si ricorda il dono d’amore di Gesù e l’istituzione dell’Eucaristia (richiamando anche il significato della Messa Crismale del mattino), ma allo stesso anticipa i temi della passione di Gesù, il suo sacrificio, la morte in croce per noi.

Tutto questo è rappresentato meravigliosamente nel segno della lavanda dei piedi. Come ci dice il testo di Giovanni, in questo gesto Gesù mostra di amare i suoi fino al compimento della sua vita e di accettare di “spogliarsi delle sue vesti” (cioè morire) per compiere il suo passaggio da questo mondo al Padre (cioè risorgere).

Questo momento, nella liturgia del giovedì santo, dovrebbe catalizzare l’attenzione. Se fossimo in un teatro, dovrebbe essere sul fronte del palco, con tutte le luci spente e un potente faro che illumina la scena. Dovrebbe rapire gli occhi e, attraverso essi, il cuore.

I dodici “discepoli” a cui vengono lavati i piedi devono rappresentare tutta la comunità. In questo gesto entra una grande ricchezza di rappresentazione umana, che ci dice che nella liturgia (anche in altre liturgie) ci può essere spazio per momenti simili a questo.

Qui la comunità parrocchiale riconosce di crescere nel servizio offerto e accolto. Qui il prete trova la rappresentazione perfetta del suo ruolo all’interno della comunità: stare nel mezzo non come colui che ha potere, ma come colui che serve e che guida gli altri nel servizio. Qui tutti noi ascoltiamo il comando di Gesù che ci dice: se io che sono Maestro e Signore vi ho lavato i piedi, anche voi dovete farlo: dovete servirvi gli uni gli altri.

Il servizio reciproco è la chiave per celebrare la Pasqua.

All’inizio della messa vengono presentati a tutte le comunità parrocchiali gli olii santi, che sono stati consacrati nella Messa Crismale del mattino, in cattedrale. Sono gli olii che santificano la vita dei credenti: l’olio dei catecumeni, che li prepara alla lotta contro il male; l’olio crismale che li penetra con la forza spirituale di Cristo; l’olio degli infermi, che indica la sollecitudine di cura di Gesù e della Chiesa per tutti coloro che soffrono. Così si vuole dire che la Pasqua è la sorgente della vita cristiana, che viene accompagnata dall’unzione degli olii in tutti i momenti e le sfide della vita.

Il Triduo Pasquale è iniziato e questa liturgia, come abbiamo detto, tecnicamente non finisce, non si chiude. Essa continua nell’adorazione dell’Eucaristia, che è un richiamo a «vegliare almeno un’ora» con il Signore, nel momento in cui lui sceglie di portare sulle sue spalle il peccato del mondo e di compiere questo desiderio di amore che lui e suo Padre hanno. Una volta – non senza una grande contraddizione cronologica – questo momento di adorazione si chiamava: “I sepolcri”, mentre invece è un rimando alla veglia di preghiera di Gesù nel Getsemani. Chi lo vive desidera rafforzare il proprio spirito, per entrare con grande amore e raccoglimento, nella contemplazione della morte del Messia, il Venerdì Santo.

Don Davide




Le celebrazioni della Settimana Santa

Siamo ancora relativamente lontani da Pasqua, ma vorrei continuare a guardare alle celebrazioni di quei giorni, affinché la consapevolezza dei riti che andremo a celebrare ci aiuti a vivere tempo di Quaresima.

La Settimana Santa, chiamata Grande Settimana nella tradizione orientale, si apre con la Domenica della Passione di Gesù, più conosciuta come Domenica delle Palme. È l’unica domenica dell’anno liturgico in cui l’accento cade principalmente sulla contemplazione e la meditazione della passione e morte di Gesù, piuttosto che sulla sua resurrezione. L’idea – espressa qui in modo necessariamente semplificato – è che chi non partecipa alle celebrazioni del Triduo Pasquale, celebra la passione e morte di Gesù nella Domenica delle Palme e la sua resurrezione nella Domenica di Pasqua, in modo da vivere la celebrazione unitaria del mistero pasquale, che comprende la passione, morte e resurrezione di Gesù.

Questo, in realtà, avviene ad ogni messa: «Annunciamo la tua morte Signore, proclamiamo la tua resurrezione»; ma nelle due domeniche che includono la Settimana Santa in modo più evidente, e ancora di più nel Triduo Pasquale in cui, dopo il “Preludio” del Giovedì Santo, il ritmo della celebrazione diventa addirittura cronologico, scandendo giorno per giorno gli eventi.

Per questo, le celebrazioni della Settimana Santa hanno sempre una duplice connotazione. Da una parte sono giorni in cui si ricordano gli eventi dolorosi della passione e morte di Gesù, dall’altra sono giorni in cui celebriamo con grande entusiasmo (e persino gioia!), l’amore talmente grande e incondizionato di Gesù che ha dato la vita per noi e ci ha dato la vita attraverso la sua resurrezione.

Così la Domenica delle Palme ha sia il carattere festoso dei giorni della salvezza, sia il carattere di meditazione e di ascolto attento del racconto della Passione di Gesù, attraverso la lunga lettura dei Vangeli della Passione.

Il bel gesto della benedizione degli ulivi, con la conseguente processione, è il segno della nostra disponibilità ad accompagnare Gesù in questa settimana. L’ulivo benedetto è un gesto liturgico: indica che nella preghiera condivisa con il popolo di Dio, noi chiediamo la grazia di fare quello che nemmeno i discepoli furono capaci di fare: cioè seguire Gesù fin sotto la croce e poi essere resi partecipi della sua resurrezione. L’ulivo benedetto, quindi, non è un portafortuna, non “porta bene”, e considerarlo un talismano è un modo di profanarlo. Prenderlo al di fuori della celebrazione non conta niente: è come andare in un parco e strappare un ramoscello da un albero. L’ulivo benedetto, invece, può diventare un gesto di comunione, di riconciliazione e di pace, quando chi ha partecipato alla celebrazione ne porta un po’ a chi non ha potuto venire.

Per quanto riguarda la lettura della Passione, la liturgia prevede che ci possa essere molta partecipazione dei fedeli, e che le parti possano essere divise fra molti lettori, per riproporre l’intensità di quei momenti e la forza di quei racconti. La lettura “drammatizzata” diventa così una lettura “liturgica” e ci dice che siamo tutti invitati a entrare nello scenario di quei giorni in cui Gesù ci ha donato la vita.

Don Davide




Cenere sul capo, che si posa sul cuore

In queste domeniche di Quaresima, piuttosto che una vera e propria riflessione intonata alle letture della messa, vorremmo proporre una piccola catechesi sulla liturgia quaresimale e pasquale.

Il Mercoledì delle Ceneri abbiamo compiuto l’austero rito della cenere sul capo. È un gesto concreto, quanto mai visibile, e infatti c’è sempre una sorta di imbarazzo a tornare al posto con questo piccolo mucchietto di cenere sulla testa.

Partendo dalla realtà più concreta, il corpo, la cenere dovrebbe essere il segno di un percorso che attraversa la dimensione “esteriore” e va a toccare quella “interiore”. Come dicevano i padri della chiesa, noi agiamo sul corpo, perché lo spirito sia risanato. La cenere che abbiamo messo sul capo, si dovrebbe posare sul cuore, inteso come il centro della nostra vita interiore. Dobbiamo proprio immaginarci questo itinerario, come se la cenere fosse una sostanza strana, che “entrando” dalla testa, scende e va in realtà a toccare lo “spirito”, posandosi appunto “sul cuore”.

Il gesto delle ceneri, quindi, è un simbolo perfetto del cammino quaresimale e della liturgia pasquale. Infatti, sia il nostro percorso personale, sia la liturgia di questo periodo, sottolinea l’importanza di gesti e simbologie concrete, ma che hanno un profondo significato spirituale.

Da questa relazione immediata e significativa tra i gesti che compiamo nella liturgia e la loro realtà, si plasma la nostra vita spirituale. Dobbiamo abituarci a tenere questo modello come punto di riferimento, ben al di là delle nostre devozioni o della nostra preghiera intimista.

La liturgia, cioè la celebrazione comunitaria del mistero di Cristo e della sua grazia che agisce nel tempo, è la sorgente e il modello della nostra vita spirituale, e dovrebbe essere la fonte che la nutre di più.

Questo è possibile solo celebrando bene i gesti che facciamo, non formalmente e basta, ma cogliendone il significato e l’armonia nell’insieme della liturgia.

La cenere è segno di qualcosa che è stato consumato e che è finito, ma poteva essere usata anche per lavare, per portare via l’unto, quando non c’erano strumenti più raffinati. Noi partiamo quindi da questi due simboli di mortificazione e di purificazione, per arrivare alla grande Veglia di Pasqua, dove i segni saranno il fuoco e l’acqua.

Il fuoco – però – sarà il segno della resurrezione di Gesù, dell’amore che arde, ma che non consuma, non si consuma e invece rinnova. L’acqua invece, di quella purificazione nello Spirito che dà la vita. Per ora, portiamo nel cuore il desiderio di vivere profondamente questa “inversione” che ci attende, nella celebrazione di Pasqua, nelle prossime domeniche continueremo i passi del nostro cammino.

Don Davide