La Consacrazione e la Trasfigurazione

La terza tappa del Congresso Eucaristico ci invita, nel tempo di Quaresima, a riflettere su come possiamo rendere le nostre liturgie più partecipate.

Nell’intenzione del Concilio Vaticano II e della riforma liturgica che ne è seguita c’era in primo luogo, sicuramente, la volontà di affermare che la liturgia è partecipata e celebrata bene quando ne comprendiamo il significato profondo, lo gustiamo e viviamo i vari momenti della celebrazione eucaristica accompagnando con il nostro corpo e il nostro spirito il significato simbolico dei gesti che compiamo.

L’invito del vescovo, quindi, rappresenta una preziosissima opportunità per riscoprire la ricchezza della nostra liturgia.

In questa seconda domenica di Quaresima, nella quale ci guida il Vangelo della Trasfigurazione, vorrei partire da alcune riflessioni sul momento della Consacrazione, a cui seguirà una seconda parte, sempre su questo momento fondamentale della messa, domenica prossima.

Analogamente a quanto succede nella Trasfigurazione, nella Consacrazione noi vediamo nei segni del pane e del vino il corpo glorioso del Signore, così come i discepoli videro nel corpo umano di Gesù la manifestazione della sua gloria.

Mentre abbiamo la sensazione che la Consacrazione sia quasi un momento magico, in cui grazie all’unione di una formula e di un gesto accade qualcosa di incredibile (e in visibile agli occhi), il vero significato della liturgia eucaristica è che la Consacrazione non è affatto un momento a sé, ma è connessa a tutta la grande preghiera eucaristica che inizia dopo il Santo, anticipata dal Prefazio che dice qual è il motivo specifico della preghiera di ringraziamento di quella celebrazione.

Il momento che ci riporta all’Ultima Cena di Gesù e che ci mette alla sua presenza non sono solo le parole della Consacrazione, ma tutta la lunga preghiera memoriale che introduce la Consacrazione stessa e che la segue. A questa preghiera, l’assemblea si unisce dopo il rendimento di grazie finale: “Per Cristo, con Cristo e in Cristo” con la risposta importantissima dell’ “Amen” che è come il sigillo di un notaio, l’autentica sul fatto che quella preghiera sale dal popolo che celebra al Padre; mentre noi, a quel punto, siamo quasi assonnati o distratti e si risponde “Amen” come riprendendosi da un torpore che ci ha presi per il fatto che in quella lunga parte aveva fatto tutto il prete, ma adesso bisogna destarsi perché “finalmente” tocca anche a noi con il Padre nostro. Niente di più sbagliato, ovviamente.

La Consacrazione è uno dei momenti più importanti della celebrazione, e viene accompagnato con due gesti che ne sottolineano la solennità – il suono delle campanelle e il gesto di inginocchiarsi – ma non bisogna per questo pensare che sia una cosa a parte. È proprio come il cuore pulsante della liturgia, insieme alla proclamazione del Vangelo: ma sappiamo che il cuore dà energia vitale all’organismo eppure sarebbe insignificante senza il corpo che lo circonda.

Don Davide




Tempo di ricominciare

Ogni Quaresima ci rimettiamo al seguito del Signore Gesù. Ogni Quaresima ripartiamo, chiedendo la grazia di seguirlo nella faticosa salita della via crucis, fino al monte della sua croce. Ogni quaresima ripartiamo dal racconto della sua vita offerta, così come hanno fatto i discepoli quando hanno tramandato le prime memorie di Gesù, e rinnoviamo anche noi il desiderio di essere suoi amici.

Ricominciare, spesso, è un sogno. La vita non concede quasi mai di ricominciare, ossia di esaudire il desiderio di riprendere le cose che abbiamo fatto, e correggere gli errori e magari farle meglio. Possiamo andare avanti; ogni tanto abbiamo l’occasione di fare delle svolte, e di cominciare qualcosa di nuovo, ed è la cosa più simile alla possibilità di “ricominciare”.

La grazia di ricominciare ci è concessa solo dentro a quel mistero di salvezza, che è l’anno liturgico con i suoi ritmi, che occupa il tempo e lo ricrea, rinnovandolo. Non è che tornano indietro le lancette dell’orologio, o azzeriamo i calendari, o resettiamo le agende dei nostri telefonini. Ricominciare è una grazia spirituale: è l’irruzione dell’amore di Dio nella nostra vita, che – attraverso la forza creatrice del suo perdono – ci rifà nuovi.

Con il Mercoledì delle Ceneri, noi abbiamo il dono di ricominciare il nostro cammino dietro e accanto a Gesù, per l’ennesima volta nella nostra vita e senza che il Signore ce lo faccia pesare. Forse qualcuno aveva iniziato con grande spinta e si è un po’ stancato; forse qualcuno, dopo un periodo di grande fervore, è stato ferito da tante delusioni e avversità e ha perso la speranza; forse ci ritenevamo bravi, e ci siamo scoperti peccatori.

Coraggio!

È tempo di ricominciare!

Abbiamo la possibilità di rimetterci in cammino. Cosa c’è di più bello che riconoscere con umiltà che abbiamo sbagliato, che abbiamo bisogno di essere ricreati, ma che desideriamo vivere e incontrare il suo amore?

Le Ceneri sono il segno di questo ricominciamento, un segno di conversione, ma nell’amore e con gioia. Possiamo forse ricordare le ceneri della Fenice, che risorge dai propri resti. Ma vorrei dire ancora di più: le Ceneri, che usiamo per l’austero e sobrio rito all’inizio della Quaresima, sono quelle degli ulivi benedetti dell’anno precedenti: un simbolo di pace e di gioia, che preannuncia il mistero pasquale. È bello pensare che nella potenza del perdono di Dio, le ceneri che accettiamo sul capo siano un segno che deriva da un grandissimo gesto d’amore –  il Signore che guarda alla nostra miseria – e che preannunciano il nostro ricominciamento nella luce graziosa del mistero pasquale.

Don Davide




Pastorale di guarigione

Il prossimo sabato, memoria della B.V. di Lourdes, si celebra la Giornata mondiale del malato. È un segno della dedizione che la chiesa desidera avere nei confronti di tutte le persone sofferenti, nel corpo ma anche nell’anima, in comunione con il Santuario di Lourdes, dove la cura dei malati è uno dei carismi più importanti.

Si è soliti definire questa attenzione come “pastorale degli ammalati”, che è un settore molto importante della vita concreta della chiesa; ma tale definizione ha due limiti: sottolinea l’aspetto negativo e definisce dei confini troppo rigidi, come se fosse un ambito che riguarda solo chi si dedica ai malati in modo diretto. Per esempio: la cosiddetta “pastorale degli ammalati” non dovrebbe riguardare anche il catechismo, o i gruppi dei ragazzi? Non dovrebbe sensibilizzare gli adulti della parrocchia?

Bisognerebbe piuttosto parlare di “pastorale di guarigione”, perché evidenzierebbe che lo scopo è quello di dare conforto e speranza e, attraverso la vicinanza concreta, percorre vie possibili di benessere. Sono molte, infatti, le guarigioni possibili. Nella fede, noi sappiamo che insieme alla medicina è possibile la guarigione del corpo, per la quale si prega devotamente e si celebrano benedizioni e sacramenti, in modo particolare il Sacramento dell’Unzione degli Infermi. Ma c’è anche la guarigione dello spirito, laddove un’esperienza di sofferenza e di conforto porta a una conversione, al desiderio di cambiare vita, al rianimarsi della fede e della speranza. C’è anche la guarigione dell’anima, che permette alle persone di portare la propria malattia con enorme dignità e di farne, anche nel logoramento del corpo, un cammino di vita. Tutto questo è possibile solo se ci sono degli uomini e delle donne che sanno esprimere attenzione, aiuto concreto, vicinanza continuativa, amicizia, intercessione nella preghiera.

Così il termine “pastorale di guarigione” mette in moto tutti. Sabato prossimo alle 16, celebreremo il Sacramento dell’Unzione degli Infermi. E ciascuno di noi, immediatamente, pensa se ne ha bisogno oppure no, e di conseguenza valuta se venire alla celebrazione oppure no. Ma chi non ha un amico malato per cui pregare? Chi non ha un parente per cui è preoccupato, da affidare alla cura particolare del Signore e all’intercessione di Maria? Chi non ha delle cose in cui guarire? Ecco: scopriamo di essere tutti coinvolti.

Sarebbe bello, quindi, che la Giornata del malato, diventasse una “Giornata di tutti”, perché cogliamo che va al cuore dell’azione pastorale della chiesa.

Tanto è vero che, ancora più appropriatamente, si dovrebbe parlare di “pastorale del Regno”, perché Gesù associa all’irruzione del Regno di Dio, prima di tutto la sua presenza, ma subito dopo la cura e la guarigione dei malati. È il primo modo in cui l’amore del Padre, che tutto vince, si manifesta nel mondo e incomincia a guarire. È davvero impressionante, in quest’ottica, rileggere la testimonianza che Gesù dà di se stesso a Giovanni Battista: «Riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti resuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo» (Mt 11,6). Non dice: organizziamo una bella festa con il catechismo, o un buon pranzo parrocchiale; ma dice: i malati sono guariti.

La cosiddetta “pastorale degli ammalati” (per intenderci) è un modo, anzi IL modo di essere cooperatori del Regno di Dio, e di testimoniare quella promessa di vita, che il Signore ci ha fatto, quando non ci sarà più affanno e sarà tersa ogni lacrima dai nostri occhi.

 Don Davide




La politica di Dio

Viene da chiedersi: “C’è qualcosa di meno sapiente delle Beatitudini?”. Potremmo mai dire, noi: “Beati coloro che piangono?”. Cosa ci risponderebbe chi piange veramente?

Non dovremmo forse dire, come già successe ai tempi di Malachia: “Dobbiamo invece proclamare beati i superbi, che pur facendo il male, si moltiplicano e, pur insultando Dio, restano impuniti.” (Mal 3,15).

Sì, sfida posta dalle Beatitudini è uno sport estremo. Potremmo essere anche tentati di pensare che Gesù ha calcato la mano, ha voluto iniziare la sua predicazione col botto, in modo che tutti gli dessero attenzione, come fanno gli ammaliatori e i potenti. Ma qui, Gesù non ha voluto fare il bravo oratore, e usare la retorica. Certo, Gesù era anche un ottimo oratore, ma inaugurando la sua predicazione con le Beatitudini ha voluto andare al succo delle cose.

Gesù aveva appena chiamato i primi quattro discepoli, due coppie di fratelli, dichiarando così – in modo simbolico – di dare inizio a un nuovo corso delle relazioni tra gli uomini (non più come Caino e Abele o Esau e Giacobbe), di volere inaugurare una nuova tappa della storia della salvezza (Giacobbe era il padre di Israele, così nuovi discepoli saranno “pescatori di uomini”) e di volere percorrere, insieme a chi vorrà seguirlo, un cammino di libertà e di amore (“lasciarono il padre”).

Ora le Beatitudini sono la prima cosa che impariamo al seguito del Maestro. Il mondo deve cambiare.

Non so davvero come sia possibile che la Chiesa, in alcuni periodi della storia, si sia assestata sull’ordine costituito, ma il Vangelo dice che finché ci saranno poveri, afflitti, emarginati, cercatori di pace, persone che non cedono alle seduzioni perverse, donne e uomini miti e umili, costruttivi… deve essere all’opera una forza di cambiamento. Quel futuro espresso da Gesù: “saranno” evoca molto intensamente la forma ebraica dei Dieci Comandamenti, che potrebbe essere meglio tradotta con un verbo futuro: “Non avrai altro Dio; santificherai le feste; non ucciderai ecc. ecc.”. Il vangelo è scritto in greco, non in ebraico, ma abbiamo sufficienti ragioni per dire che un autore ebreo come Matteo scriveva in greco ma pensava in ebraico, e quindi ha fatto echeggiare nel ricordo delle Beatitudini la forma imperativa, vincolante. Il “comandamento” inteso nel senso migliore del termine. L’indicazione della via. “Se qualcuno è afflitto, dovrà essere consolato. Se qualcuno cerca la giustizia e la pace dovrà essere saziato… Chi è puro di cuore, non può essere che non veda Dio…”

Ecco qual è la sapienza delle Beatitudini: è una sapienza politica. Esse sono un manifesto politico, sono la “campagna elettorale” di Gesù. Che infatti non è andata a finire tanto bene. Sì, perché noi rischiamo di fare come nel simpatico film di Ficarra e Picone, L’ora legale. Tutti diciamo di desiderare il cambiamento, ma poi dimostriamo di non volerlo veramente. Perché il cambiamento ci impegna. E mentre noi pensiamo che torni a nostro vantaggio, subito capiamo che deve andare anche a vantaggio degli altri, e allora le cose cominciano a starci strette.

Ma Gesù è abituato a mantenere le sue promesse elettorali, ancorché scomode, e vuole che “i suoi” facciano altrettanto. Quindi, questo popolo “umile e povero” (Sof 3,12) di cui parla il profeta nella prima lettura si deve rimboccare le mani e mettersi al lavoro, perché le Beatitudini sono la politica di Dio.

Don Davide




Una pastorale “alla spina”

Un omaggio

La recente morte del grande sociologo Z. Bauman, padre dell’idea della società liquida, mi spinge a evocare alcuni caratteri di una pastorale “liquida”, che si potevano intuire uno o due decenni fa, e di cui oggi forse conviene prendere atto.

Due esperienze

È di questi giorni la notizia che il vescovo di Modena ha acceso una nuova febbre del sabato sera, con l’iniziativa Voi dunque pregate così: molti giovani si radunano in una parrocchia della diocesi in un clima di preghiera e di riflessione non troppo strutturato, alla fine del quale il vescovo risponde informalmente alle domande che la serata ha suscitato ai ragazzi.

Chi ha la fortuna di conoscerlo, potrebbe pensare che il gradimento di questa iniziativa sia dovuto anche alle qualità umane e spirituali di don Erio (come si fa chiamare lui), il che è senz’altro vero, ma dobbiamo comunque cogliere gli spunti pastorali che vengono da questa esperienza. Il confronto con un appuntamento significativo della diocesi di Bologna può confermarci in alcune direttrici.

In anni passati, si ricorda non senza nostalgia una cattedrale stracolma di giovani il sabato sera, per le veglie di avvento e quaresima, in un appuntamento che, fino a qualche anno fa, è stato memoria collettiva.

La ricetta non era molto diversa. Si veniva a pregare insieme, si diceva qualche salmo (ma non l’Ufficio delle Letture), si imparava qualche canto bello e, dopo, si ascoltava l’omelia di qualche prete della diocesi, sempre diverso, dotato del dono della predicazione. Alla fine capitava che i giovani si intrattenessero anche a lungo per scambiare due chiacchiere, prima di continuare la serata in un locale o al cinema.

Ricordo il me quindicenne che si organizzava con gli amici e gli educatori del gruppo per partecipare a questo rito collettivo. Erano i miei primi approcci ad un’esperienza ecclesiale che non fosse solo quella della parrocchia.

In seguito, le cose cambiarono e non fortuitamente. La linea divenne che si doveva pregare con l’Ufficio vigiliare, si cominciò a riportare i canti nei ranghi di un presunto direttorio e la predicazione fu affidata solo ai vescovi (titolare e ausiliari) della diocesi. A questo seguì il micidiale spegnimento delle luci, per impedire che i giovani sostassero in chiesa dopo la preghiera. Infine, accanto a qualche strafalcione predicativo che avrebbe meritato una sommossa, arrivarono le sgridate, perché non si doveva venire alla veglia con l’intenzione o la scusa di andare al pub dopo.

Così la cattedrale si svuotò di giovani. Poi si svuotò e basta. Si scese in cripta. E chi scrive, adesso, non sa più se continui ad esserci qualcosa di simile.

Da questo racconto e confronto tra le due esperienze, raccolgo due spunti pastorali, più un terzo che lascerò per una prossima riflessione.

1. L’informalità

Questo tratto contraddistingue l’esperienza del mondo giovanile. Se un educatore di parrocchia lasciasse decidere ai ragazzi del suo gruppo come disporsi, vedrebbe che i ragazzi non si metterebbero sulle sedie in cerchio, ma seduti sul tavolo con le gambe a penzoloni, o sulla sedia con lo schienale davanti o in molte altre soluzioni che solo loro riescono a immaginare. Per avere una riprova, basta osservare alcuni adolescenti che studiano (o dicono di farlo) sdraiati per terra, con i piedi sul divano, il pc sulla pancia, il telefono a portata di mano e almeno tre applicazioni social aperte contemporaneamente.

Di recente, ascoltavo divertito il racconto di una difesa di Dottorato, dove, a dispetto della candidata e dei professori elegantissimi, gli altri colleghi dottorandi erano sbracati ai limiti dell’inverosimile.

Nelle biblioteche più moderne delle università si nota che le sale studio hanno sempre di più lo stile di un locale informale, con divanetti, tavolini, poltroncine. Niente di paragonabile alla sala della famosa scena del film Centochiodi.[1]

Se tutto ciò sia opportuno non è mia intenzione stabilirlo. Però si osserva questa tendenza e vale la pena di prenderne atto. La Chiesa salvaguarda l’educazione alla forma in molti altri modi, non ultimo la liturgia; forse si può avere il coraggio di offrire contesti informali, tanto per la preghiera quanto per la pastorale, dove i giovani possano sentirsi a loro agio in quello che cercano. In qualche università americana si parla di Theology on Tap, di teologia alla spina. L’immagine rende l’idea.

2. La qualità affettiva

In un momento pastorale, i giovani cercano senz’altro anche la percezione di stare bene; in genere, è uno stare bene con l’altro/gli altri. Non dovremmo disprezzare questo fatto, perché è in gioco la ricerca di senso, magari declinata in forme post-moderne. Si tratta soprattutto di poter vivere qualcosa che è degno di essere vissuto qui e ora, a confronto con tutte le altre cose belle che adesso potrebbero essere vissute altrove, con la certezza che, se questo tempo non è vissuto vantaggiosamente, è tempo sprecato. Quindi, oltre alla dimensione delle relazioni, c’è la ricerca di qualcosa che piaccia, che faccia stare bene, che dia la sensazione che la vita è vissuta.

Se confrontiamo questa ricerca esperienziale ai noiosissimi incontri o alle noiosissime celebrazioni che ancora proponiamo ai giovani, e ripensiamo alla sistematica erosione degli spazi informali, amichevoli e spontanei, di tutte le nostre iniziative pastorali, capiamo quanto siamo distanti da un reale interesse per loro.[2]

Al cappellano entusiasta perché i giovani sono andati a fare per la prima volta gli esercizi spirituali, potrà capitare di sentire replicare alla domanda: “Come è andata?”, la seguente risposta: “Bene, mi sono divertito”. Il divertimento non è esattamente la categoria che associeremmo alla qualità degli esercizi spirituali – e a Pascal verrebbe un infarto –, ma la risposta, ancora una volta, rende l’idea.

Un rilancio

Come accennato, ci sarebbe un terzo elemento, che riguarda il non creare, o almeno tentare di risolvere, le opposizioni. Lo lascio così, in sospeso per un prossimo scritto, sperando di potere suscitare qualche curiosità al lettore, e augurandomi che queste riflessioni, che sono state necessariamente brevi e semplificative, possano stimolare un dialogo di reazioni e precisazioni.


[1] Si tratta dell’Aula Magna della Biblioteca Universitaria di Bologna.
[2] Questa è una delle tesi, con cui concordo, espresse nel bel libro di A. Matteo, La prima generazione incredula, Rubbettino 2010.

 

Don Davide

 

Testo scritto per SettimanaNews il 23 gennaio 2017




Battesimo di Gesù. Desiderio di comunione

Tre sono i misteri che si celebrano legati alla manifestazione di Gesù: l’adorazione dei Magi; il battesimo ricevuto da parte di Giovanni Battista al Giordano; la trasformazione dell’acqua in vino alle nozze di Cana.

In questi eventi si svela che Gesù è il Messia che chiama tutti i popoli a conoscere il Dio d’Israele; che il messia è presente, confermato e indicato da un nuovo profeta: Giovanni Battista e, infine, che Gesù dona la gioia che tutti attendiamo, nel simbolo del vino buono.

Per questo, la celebrazione del Tempo di Natale giunge fino al giorno del battesimo di Gesù, quando Gesù è ormai adulto: il bimbo che è nato, ora inizia la sua opera di salvezza rivelandosi al mondo.

In tutto questo Gesù compie un palese atto di umiltà: si mette in fila con i peccatori, lui che non lo è affatto, e anche di fronte all’obiezione di Giovanni Battista, risponde che si compia ogni giustizia.

La giustizia di cui parla Gesù è quella di una grande condivisione, di un senso di comunione che oserei dire universale, con tutti quelli che sono segnati dal peccato e che non sono dispiaciuti. Non con quelli che sono assuefatti dal potere e stanno nei palazzi dei re, e che non si sognano nemmeno di andare da Giovanni Battista, in quella regione polverosa, con tutti quei poveri disgraziati! Quelli non sono dispiaciuti, non soffrono e invece fanno soffrire! Invece Gesù si mette con tutti quelli che sono dispiaciuti, che soffrono (soprattutto per causa di chi ha più potere di loro), che hanno un desiderio autentico di cambiare, che attendono la pace del Messia e la speranza operosa di un mondo migliore.

Un atto simile a quello di Gesù lo avevamo già visto nell’inchino umile con cui i Magi adorarono il bambino Gesù. Un gesto assolutamente gratuito, di un grande nei confronti di un piccolo, e per questo un gesto veramente maestoso.

Il giorno dell’Epifania ho ricordato una frase dell’autrice Chiara Gamberale: “La speranza di un noi, in generale, nel mondo”. Un pensiero bellissimo, che esprime il clima di questi giorni, potremmo dire “il sogno di Dio”: il suo desiderio di fare una realtà affatto nuova rispetto a tutte le esperienze degli uomini, dove si possa dire con piena pace e piena verità: “noi”, senza che nessuno sia nemico, antagonista o escluso.

Ma questo sogno nasce dalla nostra volontà di metterci in questo cammino umile, come Gesù e al seguito di lui. Chiediamo la sua autenticità, la sua libertà di cuore, il suo intimo rapporto con il Padre, la sua capacità di entrare in sintonia con il cuore e il vissuto delle persone.

Ricomincia il Tempo Ordinario dell’anno liturgico e noi, con nuova fiducia e nuovo slancio, ci mettiamo nuovamente in cammino verso questo obiettivo.

 Don Davide




In piedi, costruttori di pace!

Inizia un nuovo anno, e per iniziarlo al meglio ci mettiamo tutti in marcia per la pace. In questo primo giorno dell’anno, infatti, la Chiesa celebra la Giornata Mondiale per la Pace, indetta per la prima volta da papa Paolo VI nel 1968 e la nostra città ha accolto la marcia nazionale per la pace.

Questo movimento di popolo, molto più che fisico, è simbolico. Ci è chiesto di metterci in cammino per le vie della pace attraverso la nostra vita, i nostri atteggiamenti, le nostre scelte e il nostro stile.

È un percorso che implica davvero un “inizio” in grande stile, perché non ci siamo mai decisi abbastanza per la pace, quindi è importante cogliere questo “inizio del tempo” (anche se profano) per provare a segnare una casella diversa sui nostri calendari.

In questi giorni leggevo sui quotidiani che ci affacciamo al 2017 con un po’ meno speranza e con un po’ più di disillusione, come se negli anni scorsi fra le primavere arabe e alcuni sogni di pace e di miglioramento ci fossimo illusi che qualcosa potesse veramente cambiare. Invece, parrebbe, torna la disillusione.

C’è qualcosa in me che resiste tenacemente a queste considerazioni. Il tempo non è un dio della mitologia, che stritola e divora e basta. Il tempo è anche percezione, il campo dei ricordi belli e brutti, è un luogo seminato di fondamenta. Su queste fondamenta io posso decidere di costruire. Posso decidere che siccome in questo campo sono state compiute cose brutte, sono state fatte le guerre, ho subito delle ferite, allora lascio la terra deserta, o costruisco un brutto edificio o lascio le cose in abbandono. Oppure posso decidere di cambiare segno, di coltivare i semi belli, di farli crescere, come è successo a Montesole. Fu fatto uno sterminio. La guerra tocco uno dei suoi punti di estrema disumanità. Oggi è un luogo simbolo di pace. Vi sorgono due monasteri, si lavora la terra, si produce cultura, si prega.

Ecco, il tempo è questo. Un potenziale consegnato nelle nostre mani. Dire che siamo pessimisti e disillusi, significa dire che ci sentiamo sconfitti in partenza. Noi, invece, vogliamo farne “il campo di Dio, l’edificio di Dio” (1Cor 3,9).

In questo primo giorno dell’anno, quasi per fecondarne il frutto, concludiamo anche l’Ottava di Natale: gli otto giorni, secondo il “tempo della resurrezione” in cui la Chiesa prolunga la celebrazione delle grandi feste. Nell’indimenticabile profezia di Isaia leggiamo: “Poiché un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio. Sulle sue spalle è il segno della sovranità, e il suo nome sarà: Principe della Pace… e la pace non avrà fine” (Is 9,5-6).

In questo tempo, che è un inizio sul calendario di una nuova opera e stagione di pace, noi siamo benedetti e accompagnati dal tempo della salvezza e dalla grazia del Re della Pace. Mi viene allora da non farvi i soliti convenzionali auguri di inizio anno, ma di usare le memorabili parole di don Tonino Bello, quando a Verona iniziò a promuovere questa sensibilità per un mondo nuovo, e che sono come una sintesi di tutto il bene e l’impegno che vi vorrei augurare: “IN PIEDI, COSTRUTTORI DI PACE!”.

Don Davide




Natale 2016. Il presepe e la carità

Lui non vorrebbe mai che io lo dicessi, ma il presepe che vedete sotto l’altare l’ha disegnato don Valeriano.
A sinistra vediamo il bue, che guarda verso di noi quasi per incoraggiarci. Nonostante la sua mole maestosa, non fa paura a nessuno, nemmeno a un piccolo uccellino che si posa sulla sua schiena. Se ne sta lì acquattato con l’occhio languido a svolgere placidamente il suo compito, non di scaldare il bambino, ma di indicarlo: «Il bue conosce il suo proprietario e l’asino la greppia del suo padrone» (Is 1,3).
Così anche l’asino sembra accorrere come se fosse in ritardo, affaticato dopo l’ultimo carico e quasi in procinto di inchinarsi con lo sguardo umile al piccolo bimbo.
Appena sullo sfondo, Giuseppe. Sta sempre un passo indietro lui, non ruberebbe mai la scena a Maria e al bambino. Da dietro, veglia su tutti: sulla sua famiglia, ma anche sugli animali. Ha troppa cura della creazione, lui che ha imparato l’arte creativa del falegname. Alle sue spalle, un germoglio, a ricordarci la stirpe regale. E la casa del re, in questa forma semplice, non è dismessa, ma al suo massimo splendore.
Infine, al centro, Maria. Il suo viso emerge dall’oscurità, è definito dalla trasparenza, dalla luce che l’attraversa (questo, a mio parere, è il piccolo grande capolavoro di don Valeriano). È come se tutto il suo essere prendesse sostanza da un’altra sorgente. Mentre ti fissi su lei cerchi il bambino e lo trovi – se guardi bene – fra le sue braccia.

Mi fermo qui, e passo a un altro presepe, diverso, molto meno “tradizionale” ed evidente.

Ci sono le scorte del Banco Alimentare, le sportine ricevute alla Conad per la generosità di tanti, le offerte del cesto della Caritas, i biscotti dei bimbi, i cioccolatini del mercatino; e poi ci sono i pandori e i panettoni e le bottiglie di vino “perché anche le persone che ne hanno bisogno devono fare festa”, e le offerte nelle buste “che mi raccomando, padre, devono andare per la carità e per i poveri…”.
Non è che si voglia ostentare. «Non sappia la tua sinistra quello che fa la tua destra, dice il Signore» (Mt 6,3), ma non è questo il punto.
Non mi ero mai soffermato su questa enorme corrente tesa ad invertire la percezione di un diffuso senso di disinteresse. Non so per quale “oscuro” (è proprio il caso di dirlo) motivo, qualcuno ci vuole convincere che sia così: che la gentilezza sia persa, la gratuità smarrita, e che l’interesse e la solidarietà non stiano più di casa fra noi. Ma non è così.
Forse tutto il bene che circola grazie al Natale è molto perfettibile. Forse non è ancora tantissimo. Forse è ancora poco costante e troppo saltuario. Ma mi sono chiesto: e se non ci fosse? Se non ci fosse tutto questo concreto bene che accade, e non quello ideale, come starebbero le cose?

Sopra tutte queste braccia generose e attraversate in maniera onesta da una sorgente di luce, trovi Gesù. Basta solo cercarlo. Come nel presepe di don Valeriano.

Un affettuoso augurio di buon Natale.

Don Davide




Natale 2016 – messa della notte

LA SIRIA

Secondo la geografia del tempo, Betlemme si trovava in quella regione dell’Impero Romano chiamata Provincia di Siria, anche se non corrispondeva esattamente alla Siria di oggi.

In questo viaggio ideale nella regione di Siria, ci mettiamo in cammino insieme a Giuseppe, quasi chiedendo il permesso di unirci alla sua piccola carovana, composta di una donna incinta e, presumibilmente, di un asinello. Mentre ci avviciniamo le insegne militari si moltiplicano

GIUSEPPE

Io me lo immagino, Giuseppe, concentrato in un profondo raccoglimento. In tutto il Vangelo non dice una parola, eppure è attivo e attentissimo a tutto quello che gli succede intorno.

Credo che ripetesse le parole di Isaia: «Ogni calzatura di soldato e ogni mantello intriso di sangue saranno bruciati… Ci è dato un bambino… la pace non avrà fine» (cfr. Is 9,1-6).

Voglio fare spazio anch’io, in questa notte, a tutte le guerre. A tutti i bimbi che soffocano nella polvere delle macerie. A tutti i soldati che muoiono e uccidono. A tutte le donne e gli uomini che devono lasciare le loro case e migrare in un altro posto.

Voglio che si levi dal mio cuore un immenso desiderio di pace. Non posso andare in Siria o all’ONU a chiedere la pace, ma posso essere costruttore di pace. A partire da me, dal mio carattere, dal modo in cui mi relaziono, da come mi interesso della politica, dalle scelte che faccio, dallo stile che scelgo. Voglio porre i segni della pace nel dialogo e con le mie azioni.

Non voglio serbare rancore.

MARIA

Di Maria sappiamo invece che serbava le cose meditandole nel cuore.

Penso che alla prima vista dell’Aquila Imperiale abbia cominciato a comporre le tessere del mosaico. Lei, sposata a un uomo della famiglia di Davide; suo figlio, un discendente del re. La promessa dell’angelo e quella preghiera spontanea che le era diventata cara: «Ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili» (Lc 1,52).

Il Magnificat: un inno ribelle di pace. Contro gli stupidi che incrementano le armi nucleari, le vie della pace passano dove le persone più umili svelano una dignità regale.

È più forte un bambino che nasce di una bomba che esplode. Un bambino è vita. Una bomba è solo morte.

Loro si divertono a distruggere, io no. Vigilerò, agirò, ma non permetterò che mi turbino neanche un attimo. Io voglio solo fare crescere. Non trovo nessuna gioia più grande di questa.

GLI OSPITI

Siamo convinti che Maria e Giuseppe non abbiano trovato ospitalità. Ma proviamo a immaginare le cose diversamente: proviamo a rimanere fedeli al testo.

Il racconto ci consegna una sequenza pacata di fatti, senza alcun elemento polemico:

«Mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. / Diede alla luce il suo figlio primogenito, / lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, / perché per loro non c’era posto nell’alloggio» (Lc 2,7).

Proviamo a pensare che un uomo dorma sulla soglia della propria abitazione, si accorga di una donna, appoggiata al braccio del marito, il volto preoccupato, piegata dal parto imminente. “Venite, siamo in tanti… la casa è strapiena ma…”. Lui si scansa, i piccoletti occupano il suo giaciglio e si fa posto a Maria. Le donne di casa l’aiutano. Quando nasce Gesù e tutto il trambusto si calma, non c’è davvero un centimetro in più in quello spazio. Il bimbo è quieto, la mamma deve riposare, e anche gli altri. Domani si lavora! C’è lì la mangiatoia degli animali; Giuseppe, con l’occhio capace di trasfigurare le cose, la guarda e gli sembra una culla, quasi come quelle che fa lui. Ecco. Pone il bimbo lì sopra. Non ci pensa neanche che sia una cosa grandiosa. I bimbi lo vedono, gli adulti anche. In seguito ai prodigi di quella notte, lo racconteranno.

NOI

La Siria e il desiderio di pace come contesto. Giuseppe, Maria e gli ospiti come esempi di responsabilità sullo scenario del mondo.

A questo punto è come se il racconto, improvvisamente, voltasse pagina.

I messaggeri di Dio fanno capolino per dire che siamo noi a dover continuare la storia. Abbiamo la responsabilità di guidare da davanti e di vigilare da dietro questo mondo, come i pastori, certi che possiamo assolvere al nostro compito lavorando in pace.

Don Davide




Bisogno di silenzio

La scena del vangelo della solennità di Cristo Re, fa da cerniera tra l’anno appena concluso sotto il segno della misericordia e il nuovo anno liturgico, che riprende con l’invito a una maggiore attenzione alla presenza di Gesù tra noi nell’eucaristia.

Oggi contempliamo Gesù sulla croce, nell’ennesimo atto di misericordia regale, con cui si fa precedere dal suo amico ladro – nuovo amico ed ex ladro – in Paradiso. È come se il suo sguardo, dall’alto, spingesse il nostro e ci invitasse a non dimenticare questo stile di misericordia, e a portarlo ancora e sempre di più nelle nostre vite, perché l’Eucaristia è il modo di Gesù di continuare la sua incarnazione tra noi.

L’apertura del Congresso Eucaristico diocesano è un richiamo a migliorare la qualità delle nostre celebrazioni e farne una sorgente per incarnare l’amore di Gesù nelle nostre giornate.

Sono da poco stato qualche giorno in un eremo camaldolese, dove la preghiera è sobria e raccolta, e la messa estremamente essenziale. In quel contesto privilegiato, ho potuto apprezzare quanto il silenzio fecondi la celebrazione.

Con questo ricordo ancora nell’animo, fermandomi questa domenica davanti alla scena della crocifissione di Gesù, la cosa che più mi colpisce è questa situazione caotica, di grande chiasso e confusione. Le persone che gridano, i sacerdoti che lo provocano, la voce sgraziata del ladro impenitente.

Oggi guardiamo alla croce come a un trono regale, e mi sono chiesto chi mai entrerebbe nel salone del trono di un grande re, con urli e schiamazzi. Di fronte a questo contrasto sentiamo la supplica del ladro pentito elevarsi da un silenzio che, evidentemente, gli ha permesso in un ultimo istante di grazia di capire quello che stava avvenendo. Lì sorge l’atto di fede, lì sorge una preghiera di salvezza, una preghiera che guarisce.

Se dovessi esprimere qual è il senso delle nostre liturgie direi proprio questo: che da un silenzio (prima ancora intimo, che esteriore) posto di fronte a Gesù, sorga un atto di fede schietto, e si possa elevare una preghiera di salvezza che ci cura e conforta in tutti i nostri bisogni.

La gioia della vita cristiana, il senso di comunione e fraternità, l’incoraggiamento a vivere la carità risultano da quel primo e più fondamentale passaggio.

Ho notato con piacere che anche il sussidio liturgico proposto dalla CEI per vivere l’Avvento nelle nostre comunità, fa leva su questa attenzione al silenzio.

Mi propongo, allora, che le celebrazioni dell’Avvento siano uno spazio privilegiato per il silenzio, con alcuni piccoli accorgimenti liturgici che vanno nell’ordine di togliere, e di sottolineare alcune attenzioni, per poi godere della pienezza nella celebrazione del tempo di Natale. In un foglietto a parte da queste brevissime riflessioni, indico quali sono le attenzioni che vorrei provare ad avere, per ora solo per il tempo di Avvento, con il proposito di verificare su quale stile migliore possono istruirci.

Se mi si passa l’esempio, è la differenza tra entrare in vecchio negozietto stile bazar e in un moderno Apple Store. Nel negozio moderno non troverai niente di superfluo, perché possa risaltare ciò che è prezioso. Ecco, nella liturgia noi abbiamo qualcosa di molto più importante che un iPhone o qualche altro strumento. Noi abbiamo qualcosa che non è da usare, ma da godere. E dobbiamo testimoniarlo come il nostro più grande tesoro.

Don Davide