Conoscere il cuore

Cosa c’è nel nostro cuore?
È una risposta difficilissima da dare, perché spesso amiamo rappresentarci meglio di quello che siamo o tendiamo ad essere più severi del dovuto.
Inoltre, per capire cosa ha il potere di rimanere saldo, di esserci, anche di fronte alle difficoltà e ai momenti in cui non tutto viene naturale, abbiamo bisogno di metterci alla prova. Come uno sciatore che verifica le sue abilità quando la pista diventa più ripida o uno studente che voglia concentrarsi in mezzo alla confusione.
Vivere una pandemia è stata ed è tuttora sicuramente una prova, non voluta da Dio, non da leggere con qualche strana interpretazione. Ma durante l’epidemia abbiamo avuto modo di verificare cosa c’era nel nostro cuore.
Chi erano le persone che ci mancavano di più? A chi vogliamo più bene? Quali sono le nostre priorità? Siamo abbastanza forti da tenere il timone delle nostre giornate o ci abbandoniamo allo scorrere casuale del tempo? Che rapporto abbiamo con la malattia e la morte? Ci teniamo al Signore? Siamo riusciti a ritagliare un po’ di tempo per l’incontro con Gesù, oppure abbiamo scoperto che “non abbiamo tempo” è una scusa per mascherare che non ci teniamo abbastanza?
Tutte queste domande appartengono alla riflessione del Deuteronomio, nella prima lettura: il tempo della prova ci svela, prima di tutto a noi stessi.
In questa meditazione si dice a un certo punto: “Non dimenticare il Signore”. La sapienza biblica è – come sempre – meravigliosa. Non si dice qui: “Metti il Signore al primo posto!” oppure: “Ti devi dedicare solo al Signore!”. Più saggiamente si dice: “Non dimenticare!”, ossia: “Tra le altre cose che fanno parte della vita, tu non trascurare di dare il posto giusto al Signore…”
Sul modello dell’Esodo viene riletta ogni esperienza umana: è lui che ci libera dalle schiavitù, molte anche quelle che ci auto imponiamo. È lui che ci aiuta ad attraversare momenti di deserto, di solitudine e di spavento, come ad esempio la quarantena. È sempre lui che in un mondo dove i serpenti e gli scorpioni non mancano guida i passi per non essere avvelenati a morte. È ancora lui che nelle solitudini che proviamo quando il senso delle cose si dissolve, ci disseta con una prospettiva, una speranza. È lui, infine, che è in grado di sondare il nostro cuore a delle profondità che nessuna parola umana può raggiungere e fare sgorgare l’acqua “dalla roccia durissima”: ossia, guarire ciò che sembra irraggiungibile, irrigare ciò che è sempre arido, scavare la roccia impenetrabile.
In questa domenica del Corpus Domini vorrei allora proporvi una serie di domande ispirate dalle letture di questa solennità, come strumento per verificare cosa c’è nel nostro cuore. Per chi verrà alla messa, la useremo come Professione di Fede da fare insieme.

Credete nel primato della Parola di Dio,
da ascoltare, leggere, meditare e pregare frequentemente,
personalmente e nell’assemblea liturgica,
che ha il potere di toccare le parti più profonde di noi e di irrigare il nostro cuore?

Credete nell’Eucaristia,
come comunione reale al sangue delle vittime,
condivisione delle sorti di tutti gli uomini, specialmente i più poveri e affaticati,
e custodia dell’unico corpo che abbiamo tutti insieme: il nostro pianeta?

Credete che Gesù è il lievito della nostra vita,
colui che ci fa crescere come uomini e come donne
e ci chiama ad essere suoi testimoni nel mondo,
e che il modo migliore di impastarci con lui
è di prendere parte attivamente alla celebrazione eucaristica?

Questa è la nostra riposta di fede all’ascolto della tua parola, Signore.
Crediamo in te, Signore Gesù
e con te, desideriamo tendere verso la pienezza di vita. Amen.




Il trono della misericordia

Ma alla Santissima Trinità, eterna in se stessa, perfetta senza il bisogno di altro, intimità, relazione e comunione al suo interno, traboccante di amore per la Creazione all’esterno… può interessare qualcosa dei nostri problemi con la pandemia?

La risposta è certamente sì, ma l’idea è che la formulazione del dogma della Santissima Trinità sia un po’ fuorviante. Verrebbe da pensare che una realtà così immensa, sublime e infinitamente oltre ogni dimensione creaturale, sia anche inevitabilmente lontana da noi.

Forse, come un re buono che si chinasse con favore sull’ultimo dei suoi sudditi, potremmo pensare che Dio possa avere compassione di noi, ma appunto in un contesto di infinita distanza che è colmata solo dalla sua compassione. Quanto a noi, la Trinità rimarrebbe totalmente inaccessibile, come quel suddito che non oserebbe alzare lo sguardo al suo re.

Invece, dovremmo pensare che la Santissima Trinità è un grande racconto del Dio vicino.

Per entrare nella storia, e non guardarla solo con benevolenza dall’alto, Dio ho toccato il cuore di alcuni uomini liberi e si è messo in rapporto con un popolo concreto. Ne ha accettato tutte le contraddizioni per educarlo; si è sporcato i piedi su molte rotte, ha camminato con lui, lo ha ripreso infinite volte, fino a che non fosse preparato uno spazio totalmente umano, nel grembo non di un’icona di santità, ma una ragazza vera come tutte le altre ragazze di Nazaret.

Come se il re avesse fatto scambio con l’ultimo dei servi in cucina per condividerne la fatica e conoscerne l’impegno, in Gesù, Dio non si è lavato le mani come Pilato, ma se le è sporcate con le piaghe degli uomini e persino con le loro miserie. E mentre si sporcava le mani, lavava i piedi di coloro a cui veniva in soccorso, perché fosse chiaro a tutti che Dio era al lavoro per permettere a loro di riposare. Eppure, le mani di Dio sono mani trasfigurate: conservano i segni delle piaghe, ma sono mani pulitissime e belle… ci hanno insegnato a impastare la farina, ad accarezzare una pecora intimorita o un leone ammansito, sono le mani che fasciano, che benedicono, che abbracciano, che promettono e che indicano traguardi.

Per essere in noi ad ogni respiro, poi, Dio si è fatto Spirito. Delicatissimo, ma indispensabile. Nascosto quando stiamo bene; evidente quando è più freddo. Quando c’è un inno alla vita nelle nostre esistenze è sempre lo Spirito di Dio che si fa vicinissimo e che guida il futuro.

La Santissima Trinità è la storia di Dio con noi, la storia della sua opera con l’uomo, nelle ore del giorno, in attesa di potersi riposare insieme nell’abbraccio l’uno dell’altra. Un esito di intimità, non di distanza, che possiamo custodire nella memoria e nel cuore con queste magnifiche parole del Talmud:

Dodici sono le ore del giorno:
nelle prime tre il Santo,
benedetto egli sia, si dedica alla Torah;
nelle seconde tre giudica tutto il mondo
e quando vede che questo meriterebbe la distruzione,
si alza dal trono del Giudizio
e siede su quello della Misericordia.

Don Davide




Pentecoste

È una Pentecoste molto particolare quella che ci apprestiamo a celebrare, perché piena di contrasti e per questo intensa nel richiamo allo Spirito. 

Il respiro è il grande imputato dell’epidemia: è una malattia che si trasmette per via aerea e colpisce a sua volta le vie respiratorie. Invece, lo Spirito è il respiro che dà la vita.  

Il presidio più sicuro è la mascherina, che però a sua volta affatica il respiro ed appare quasi un bavaglio, copre parte del volto. Invece lo Spirito è l’energia della vita, che ha fatto parlare i discepoli – divenuti apostoli – con coraggio e a viso scoperto. 

Siamo ingabbiati in tanti protocolli, che peraltro ci aiutano a lavorare e ad avere una vita quasi normale. Invece, lo Spirito è libertà. 

Vale la pena rileggere San Paolo: “Il Signore è lo Spirito e dove c’è lo Spirito del Signore, c’è libertà. E noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore.” (2Cor 3,17-18) 

 Lo Spirito Santo è proprio questo scarto tra il mondo come è e il mondo come viene trasformato da Dio. Lo Spirito è questo surplus, una forza che non ci appartiene, la Creazione Nuova di Dio che ci viene data realmente, ma in dono.  

Lo Spirito Santo è la riserva, mai consunta, contro tutte le forze di morte.  

Possiamo, appunto, essere preoccupati del respiro volatile che gira nell’aria, essere costretti a coprirci la bocca e parte del volto, irrigidirci nei protocolli: nondimeno, lo Spirito del Signore ci fa respirare a pieni polmoni, ci permette di essere noi stessi e di parlare liberamente con gli amici, ci tiene liberi, anche se fossimo in prigione. 

Non è un invito a trasgredire le regole di prudenza, ma la consapevolezza, che la rivoluzione radicale inizia nel nostro spirito, abitato dallo Spirito di Dio.  

Anche in questo caso possiamo riascoltare le parole di San Paolo, che interpreta perfettamente questa “riserva spirituale” che ci fa vivere: “Siamo tribolati, ma non schiacciati; siamo sconvolti, ma non disperati; perseguitati, ma non abbandonati; feriti, ma non uccisi (…) siamo afflitti, ma sempre lieti; poveri, facciamo ricchi molti; sembriamo gente che non ha nulla e invece possiamo tutto!” (2Cor 4,8-9; 6,9-10) 

PentecosteQuesto vuole dire che non dobbiamo mai abbatterci o sentirci sconfitti: può darsi che siamo tristi, per qualsiasi ragione, ma possiamo tornare ad essere felici; potremmo avere fatto un grave errore, ma non c’è niente di irrimediabile; potrebbe accadere che ci sentiamo in difetto, o che siamo sopraffatti da qualcosa di negativo o dalla nostra debolezza, ma questa situazione non dice la verità della nostra esistenza. 

C’è di più. Questo di più di bene, di amore, di capacità e di dignità ce lo svela lo Spirito che viene ad abitare in noi e, se dovesse mancare qualcosa, lui – con la nostra apertura interiore – è in grado di crearlo e di trasformarci. 

 E anche nel cammino della Chiesa valgono le parole di San Paolo. Abbiamo vissuto una grande tribolazione, insieme a tutti, la vita cristiana è affaticata, disattesa. Le nostre comunità riescono a creare poco coinvolgimento. I giovani spariscono o sono già spariti. 

Ma continua ad esserci una riserva di cuori e di volontà al servizio di Dio, impegnati nella trasmissione della fede, col fuoco della carità per chi è nel bisogno. 

Immagino lo Spirito, in questo giorno di Pentecoste, come nel primo istante della Creazione. Mentre tutto è nel caos, lo Spirito torna a mettere ordine nelle cose e a preparare una comunità che, fraterna in ogni parte del mondo, esprima la lode di Dio.  

Don Davide




Avrete forza dallo Spirito Santo

“Finalmente, Signore! È questo il tempo in cui rimetti a posto le cose? In cui si torna a messa senza mascherina, il catechismo riprende con migliaia di bambini, facciamo l’ER e i campi… ci abbracciamo e ci baciamo!”

“Ma, veramente… – obietta il Signore – io non ho detto questo!

Delusione dei discepoli. “Cavoli, ci avevamo sperato!” esclamano schioccando le dita.

“Quello che vi posso dire – dice il Risorto – è che vi sarà data la forza: sì avrete forza dallo Spirito Santo che vi sosterrà e vi aiuterà ad essere miei discepoli e testimoni anche in questa situazione che continua ad essere complicata.”

Ho riadattato questo dialogo tra i discepoli e Gesù, prima della sua ascensione, immaginandolo contemporaneo.

È un giorno di festa, questo, e strano, perché torniamo a celebrare insieme la Pasqua della settimana dopo quasi tre mesi. Non ci rendiamo mai abbastanza conto di cosa questo abbia significato e di cosa comporterà per il futuro. Basti pensare che dal tempo delle persecuzioni in poi, non era mai accaduto che non si potesse celebrate l’Eucaristia insieme.

È inutile fare finta di niente. Le nostre comunità ne escono e ne usciranno ferite. Al di là della retorica di una certa resilienza, questo fatto avrà conseguenze sulla vita della chiesa nei prossimi anni.

Il grande impianto della chiesa in occidente, che già scricchiolava in molti modi, è parso crollare da un giorno all’altro insieme a quello del mondo.

Tutto chiuso.

E anche adesso che qualcosa sta riaprendo… Come faremo? Le assemblee, le feste, gli incontri, gli abbracci, la vita insieme… Che ne sarà?

Spirito“Tranquilli! – siamo tentati di dire noi, come i discepoli – Ecco è passato! È questo il tempo in cui il Signore ricostituirà il suo regno!”. Il suo regno, che in realtà è il nostro regno, il nostro modo di pensare, sono le sicurezze dei discepoli.

Ma Gesù ci dice: “Tranquilli sì, non perché sarete confermati nelle vostre certezze rassicuranti, ma perché se scegliete di aprirvi allo Spirito, allora scoprirete orizzonti più ampi. Io intanto vin garantisco di esservi vicino, di stare con voi, anche di consolarvi, quando ne avrete bisogno. Per il resto, forse, bisogna accettare che appaiano altre urgenze, altri bisogni su cui riedificare la chiesa e ricostruire la nostra pastorale.”

Oggi abbiamo ripreso o riprenderemo a celebrare la Domenica insieme. Considerato questo sconquassamento, ho sentito l’esigenza di intervenire in modo vistoso sulla liturgia, soprattutto perché i testi possano esprimere il vissuto. Questo non è stato un tradimento della sublimità liturgica, ma lo sforzo di prendere sul serio la presenza concreta del popolo nella celebrazione. Come dirò anche a messa, per adesso vorrei esservi vicino e dirvi una parola affettuosa e di incoraggiamento, come fanno un papà o una mamma, semplicemente, dopo che i figli hanno passato un brutto spavento.

Il peggio magari è alle spalle, ma c’è come un’ombra lunga di quell’inquietudine, e quindi il bisogno di sentirsi garantiti in uno spazio dove si possa tornare sereni.

Don Davide




La fede e la vita

Concludiamo, con questa domenica, l’itinerario pasquale prima delle due grandi feste che chiudono questo tempo di grazia: l’Ascensione (domenica 24 maggio) e Pentecoste (domenica 31 maggio).

I testi della liturgia si aprono con il diacono Filippo che predica la parola di Dio e le folle che ci vengono descritte come unanimi nell’ascolto, perché vedono i segni che accompagnano l’annuncio di Filippo.

Sostiamo su questi due particolari: la coerenza persuasiva di Filippo e le folle unanimi.

Filippo era un uomo noto e stimato, per questo era stato scelto come diacono per il servizio alle mense. Tuttavia, il racconto degli Atti ce lo mostra tutto dedito all’annuncio del vangelo. Proprio per la “coerenza” che lo caratterizza, non abbiamo alcun motivo per pensare che non si sia dedicato al servizio di carità. Anzi, dobbiamo credere che proprio quel servizio fa parte dei “segni” che tutti vedono e ammirano e da esso viene – quasi come forza intrinseca – la necessità di annunciare Gesù.

Questo discorso di Filippo, il suo stile, mette tutti d’accordo. È la migliore concretizzazione dell’invito nella seconda lettura ad essere pronti a rendere ragione della speranza cristiana, con uno stile inoppugnabile.

Domani riprenderanno le messe. Abbiamo vissuto tutta la Quaresima e quasi tutto il tempo di Pasqua senza la celebrazione dell’Eucaristia, ma non senza vivere e testimoniare la nostra fede in molti modi. Ritornare a messa domani (lunedì 18) non può certo essere un “riprendere da dove ci eravamo lasciati”, come se nulla fosse successo.

A me sembra che proprio questa lezione che impariamo dall’esempio di Filippo ci possa aiutare. Tornare a messa è la conseguenza delle nostre azioni, coerenti con la nostra fede. In questo tempo ci abbiamo messo tutta la carità possibile, non da soli e insieme a tanti altri fratelli e sorelle. Ma questo avere partecipato alla crisi del mondo ci fa sentire ancora più l’urgenza di ascoltare la Parola di Dio insieme, di esprimere il frutto della terra, della vite e del nostro lavoro, di annunciare la Pasqua del Signore finché egli venga. La fede che ha sempre i piedi ben piantati nella vita e la vita che sbocca spontaneamente nell’espressione della fede sono per noi due poli inscindibili. Fede e vita, vita e fede. Sempre insieme o accanto a tutti gli uomini e le donne che desiderano considerarsi fratelli e sorelle, o amici. Il collante di tutto è l’amore.

L’amore che per noi cristiani ha la forma concreta dei sentieri che Gesù ci indica. In essi noi riconosciamo di non essere orfani di indicazioni, al contrario, riscopriamo di avere un Padre amorevole e buono, un papà con cui abbiamo un ottimo rapporto, che ci indica le vie della vita.

Don Davide

fede e vita




Molti posti

Nella “casa del Padre” – dice Gesù – c’è un sacco di posto, che bello! Lì non ci sarà distanziamento fisico che tenga: ci staremo tutti, senza problemi! Ma… poi… ci sarà il “fisico” in cielo? A quanto pare sì, un fisico trasfigurato, ma reale: quello di Gesù che, risorto, mangiava con i suoi discepoli sulle sponde del lago.

StadioLo hanno chiamato (lo abbiamo tutti chiamato) “distanziamento sociale” e anche solo questa piccola nota dovrebbe renderci avveduti della crisi in cui siamo sprofondati! Macché distanziamento sociale! Il distanziamento è stato solo fisico e guai a chi vorrebbe latentemente proporre – quasi come un messaggio subliminale – la frammentazione della società. Il nome più antico del Diavolo, ci insegna Gesù, è Divisore e Menzognero.

Nella “casa del Padre” niente distanza, di nessun tipo! Anzi, dove è Gesù, lì saremo anche noi, come se ci tenesse in braccio, come sue pecorelle.

In questi giorni, questa consapevolezza è la base su cui risuona l’invito di Gesù a “non essere turbati”. Ce ne sarebbero parecchie di ragioni per essere turbati, almeno per me: in primis l’idea di tornare a celebrare la messa, che è fatta di carne e di sangue, in una distanza fisica forzata.

Ma voglio dare credito alla parola di Gesù, non voglio che il mio cuore sia turbato. Desidero avere fede in Dio e fiducia in Gesù, che “nella casa del Padre” c’è posto e la possibilità di essere vicini per tutti. E so che la “casa del Padre” non sarà solo il Cielo, il Paradiso, ma è già oggi quell’edificio spirituale costruito dai legami d’affetto, dalla comunione di intenti, dalla stessa partecipazione alle fatiche di tanti fratelli e sorelle nella fede e non solo, di tanti uomini e donne di buona volontà.

Non sappiamo davvero quale sia la strada: non lo sappiamo per la nostra pastorale, non lo sappiamo riguardo al convivere sociale, non lo sappiamo ancora negli aspetti sanitari.

Il Vangelo ancora una volta ci conferma che non è un problema drammatico essere disorientati e non individuare la meta lontana. Possiamo pensare a Gesù, guardare il suo volto, fare riferimento a lui. Possiamo chiederci: cosa farebbe Gesù qui al mio posto? Quale passo muoverebbe lui, in questo cammino così urgente che devo percorrere? Che scelta percorrerebbe lui, con la sua mitezza, il suo amore, la sua saggezza?

Dobbiamo ancorarci con una certa dose di umiltà e di immediatezza alla sua parola, proprio alla parola di Gesù viva che risuona in quella scritta del Vangelo ed è per questo che vorrei, nei prossimi mesi, suscitare dei piccoli gruppi informali che si trovino a leggere il vangelo per qualche minuto, nei cortili della parrocchia o delle case, per lasciarci guidare da lui. Torneremo su questa possibilità.

Ora, desidero consegnarvi queste righe bellissime, scritte da San Giovanni Crisostomo, che mettendo insieme la certezza di essere chiesa anche “in pochi”, l’unione spirituale che varca i numeri esigui a cui siamo costretti, il tesoro della Parola di Dio e –

– la presenza accanto a noi del Risorto, compendia tutti i motivi per cui non dobbiamo davvero lasciarci turbare:

“Non senti il Signore che dice: «Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro»? (Mt 18, 20). E non sarà presente là dove si trova un popolo così numeroso, unito dai vincoli della carità? Mi appoggio forse sulle mie forze? No, perché ho il suo pegno, ho con me la sua parola: questa è il mio bastone, la mia sicurezza, il mio porto tranquillo. Anche se tutto il mondo è sconvolto, ho tra le mani la sua Scrittura, leggo la sua parola. Essa è la mia sicurezza e la mia difesa. Egli dice: «Io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo» (Mt 28, 20)”.

Don Davide




Rinascere dell’alto

“Ripartire” o “essere rigenerati”?

Si parla ovunque di “ripartenza” dopo i mesi di chiusura totale a causa della fase acuta della pandemia. All’inizio dell’emergenza sanitaria, nel silenzio surreale delle città e con ritmi improvvisamente lentissimi (eccetto che per il personale sanitario e tutti coloro che tenevano aperte le attività emergenziali), si vagheggiava un “ritorno” diverso, più umano, più rispettoso degli affetti, di uno stile di vita sano e della natura. Si facevano propositi e proclami e si esprimeva il desiderio che questa esperienza, nonostante il dramma e attraverso esso, ci cambiasse.

Ora, vicino al traguardo, prevale solo la frenesia della ripartenza. Comprensibilmente, per la grave situazione lavorativa ed economica che il fermo ha comportato. Nonostante siano apparsi lunghissimi, tre mesi sono troppo pochi per permettere un reale ripensamento e una riorganizzazione dei nostri stili di vita. Pare che il mondo “economico” difficilmente possa fare diverso.

Questo linguaggio della “ripartenza” circola anche a livello ecclesiale: si riparte con le messe e ci si organizza per ripartire come si può con qualche attività pastorale. Una tale assunzione acritica manifesta il rischio dell’appiattimento della Chiesa sulla dimensione secolarizzata dell’esistenza. Sembra che il nostro problema sia quello di un certo attivismo, la preoccupazione di fare, spesso ammantata dalle migliori intenzioni, ma come un soggetto tra gli altri nel palcoscenico del mondo.

Ma come è possibile immaginare di “ripartire” dopo tre mesi che non celebriamo la messa con il popolo, e che abbiamo saltato le celebrazioni di Pasqua, come se potessimo riprendere semplicemente dal punto in cui eravamo rimasti?

La liturgia del tempo di Pasqua insiste su un altro tipo di linguaggio: quello di “rinascere dall’alto” nel famoso dialogo di Nicodemo, autorevole membro del sinedrio, e Gesù (Gv 3,1-21). Il colloquio avviene “di notte” (Gv 3,2), che è un simbolo eloquente della pandemia. Durante questa notte, Gesù dice senza mezzi termini che bisogna “rinascere dall’alto” (Gv 3,3), essere rigenerati dalla riscoperta di un’esistenza cristiana autentica. Quest’esperienza spirituale è l’unica che può dare una chiave di lettura non secolarizzata, non appiattita sulle dinamiche mondane e non preoccupata di scimmiottare la frenesia del fare.

Gesù afferma che chi vive nella disponibilità a farsi rigenerare spiritualmente viene verso la luce, come se ritornasse in superficie dopo essere sprofondato nelle acque della notte, e in questo modo le sue opere saranno luminose, piene di senso ed efficaci.

Certo, dobbiamo ripartire, ma soprattutto con la docilità di farci rigenerare dallo Spirito. Perché l’esperienza che tutti abbiamo vissuto è stata troppo assurda e dolorosa per non capire che non basta la buona volontà umana, ma che abbiamo bisogno di rinascere dall’alto. Senza questo, la nostra ripartenza sarebbe troppo ferita e claudicante. Se invece accogliamo il dono di Dio, allora potremo vivere da risorti, trasfigurati come Gesù le cui ferite restano, ma non fanno più male.

Don Davide




Natale è vicino…

Natale è vicinissimo.

Raccogliamo qualche breve indicazione per vivere bene e spiritualmente la festa.

UNA BUONA CONFESSIONE

Fate una buona Confessione. Raccoglietevi qualche minuto in preghiera silenziosa e pensate all’arco di tempo che volete considerare, poi rispondetevi a queste domande:

  • Per quali cose/motivi voglio ringraziare il Signore in questo tempo? (Attenzione, valgono le piccole cose, come le grandi!).
  • Tenendo in mente queste cose belle, a che cosa il Signore mi chiama? (Forse a migliorare in un atteggiamento? Forse a radicarmi in qualche virtù? Forse a vivere la carità?)
  • Dov’è che non ho risposto con amore a queste chiamate? Quello che individuo, può essere oggetto della mia confessione.

SPERIMENTATE L’AMORE DI GESÙ

Sentitevi amati dalla Parola di Dio. In che senso “amati dalla Parola di Dio”, non si dovrebbe dire piuttosto “amate la Parola di Dio”? No no, vuole dire proprio così: amati dalla Parola di Dio! Prendetevi cioè, un piccolo momento di sosta prima della grande festa e… (lo so, lo so… bisogna preparare i tortellini, e l’arrosto… e il centro tavola….), dicevo: prendetevi un momento di sosta (stabilite con precisione quanto: 5 minuti, 10 o quello che volete. L’importante è che siate precisi nelle intenzioni!) e pregate su una pagina del vangelo che vi è cara. Il racconto della nascita di Gesù è perfetto per l’occasione, se volete. Non sforzatevi di capire di più, di studiare il testo, di fare una particolare meditazione. Cercate solo di soffermarvi su qualche punto in cui la parola risuona con la vostra vita, attraverso cui molto semplicemente vi sentite confortati, amati e incoraggiati ai sentimenti migliori. Lasciate che questa consolazione spirituale vi penetri e riempia tutto il vostro essere. Quando concluderete questa preghiera, scoprirete che tutto sembra avere una nuova armonia.

UN GESTO DI CARITÀ

Scegliete un gesto di carità. Quando andate a fare la spesa per le feste, potreste scegliere di fare un po’ di spesa anche per chi è povero; oppure fermarvi da una persona che chiede l’elemosina e chiedergli come si chiama, scambiare due parole e magari offrirgli la colazione condividendola con lui, oppure un buon toast caldo. Oppure potreste andare a trovare quella persona sola del vostro condominio, o fare un gesto generoso e inatteso per qualcuno. È un modo per rendere di più il nostro cuore di carne e per fare risuonare quel bellissimo consiglio che, fin dalla prima riunione degli apostoli, è rimasto come un criterio assoluto e imprescindibile: “Solo li pregammo di non dimenticarsi dei poveri.”

Buon Natale!

Don Davide




L’amicizia che ci lega nel Vangelo

Abbiamo da poco celebrato la Solennità di tutti i Santi che ci ha aiutato a ricordare che i santi sono coloro che, con la loro vita, hanno voluto dissetare la sete di Dio.

Dio aveva sete di uomini e donne che, nei primi decenni dopo la resurrezione di Gesù, testimoniassero questo evento che ha cambiato la storia del mondo. Dio aveva sete di studiosi colti che traducessero nella grande cultura dei primi secoli il messaggio cristiano. Dio aveva sete di sognatori che immaginassero e mettessero in pratica la vita evangelica nella maniera più fedele possibile. Dio ha avuto sete di profeti che nei cambiamenti del mondo avessero lo zelo per continuare ad annunciare il nome di Cristo. Dio ha avuto sete di persone che si prendessero cura dei poveri, e ha suscitato i grandi santi della carità. Ancora oggi, e sempre, Dio ha sete di uomini e donne che portino la speranza nel mondo e siano un segno dell’Amore, che abbraccia tutti.

Con questa meravigliosa schiera di santi noi viviamo in amicizia. La solennità è un modo di ricordare la comunione che ci lega.

Ora, noi vogliamo che questa celebrazione ci aiuti a vivere ancora più intensamente i legami spirituali che legano noi, chiesa in cammino nel mondo, e tutti quelli che vorremmo vicini.

È per questo che ci prepariamo a vivere la II Festa dell’Incontro, domenica 17 novembre, un momento di fraternità insieme alle tante persone a cui come parrocchia siamo vicini per sostenerle e per vivere l’amicizia.

Ci prepareremo, prendendo spunto dalla memoria di uno dei grandi santi della carità: San Martino. Il giorno di San Martino, cioè l’11 novembre, durante la messa delle 19, al posto dell’omelia, commenteremo il messaggio del papa per la Festa dell’Incontro, il quale messaggio sarà distribuito a tutti, la domenica precedente.

Chiediamo la grazia di vivere la santità non soltanto come impegno morale, ma come esperienza piacevole di comunione, che ci avvicina gli uni gli altri e ci aiuta a camminare verso il vangelo.

Don Davide




Celebrare i funerali, onorare i morti

Nella celebre tragedia di Sofocle, Antigone va incontro alla morte perché decide di dare sepoltura al fratello Polinice, contro il parere del re Creonte. In uno dei passaggi Antigone afferma che questa cosa è così buona e giusta che sarà valsa la pena farla e morirne.

La vicenda di Antigone ha un omologo anche nella storia di Tobia, uno dei libri della Bibbia, dove tutta la vicenda narrativa ha inizio proprio dalla decisione di Tobi (il padre di Tobia) di andare a seppellire i morti contro l’editto del re.

In entrambi i casi, i re volevano impedire la sepoltura in spregio all’umanità dei loro nemici, al contrario Antigone e Tobi risultano i grandi difensori della dignità di ogni individuo.

Fin dalle radici della nostra cultura, dunque, è iscritta nell’animo umano la consapevolezza della necessità di dare dignitosa sepoltura ai morti. È un obbligo morale che non dipende nemmeno dalle leggi esteriori; direbbe il grande filosofo Kant che è un imperativo categorico, qualcosa che decide se un atto è umano oppure no.

La scorsa estate sono andato a visitare il sacrario militare dei tedeschi al Passo della Futa. Concettualmente, è una cosa sbalorditiva. Agli inizi degli anni ’60 (quindi ad appena quindici anni dalla guerra) il governo tedesco e quello italiano trovarono un accordo, affinché la Germania potesse dare dignitosa sepoltura a tutti i propri morti in queste terre, e l’Italia, così facendo, esprimesse uno dei più grandi gesti di pace immaginabile, affermando la dignità anche del nemico, con le ferite aperte che la situazione degli ultimi anni di guerra avevano e hanno ancora lasciato.

Io vedo uno dei segnali più evidenti e gravi di declino della nostra cultura (almeno qui in Italia nell’orizzonte che riesco a prendere in considerazione) proprio nella trascuratezza con cui si affronta il tema del saluto a una persona cara defunta, della celebrazione del funerale e della sepoltura dei morti.

Ultimamente, in occasione della celebrazione dei funerali, mi è capitato più volte che qualcuno tirasse dritto sotto il portico passando tra me e il carro funebre, mentre io dicevo le preghiere di accoglienza o di congedo del defunto, disinteressandosi di quello che si stava facendo e in spregio al rispetto per il defunto stesso (e i suoi famigliari).

Il rispetto della morte, evidentemente, vale meno che deviare il proprio tragitto e allungarlo di dieci metri.

Dopo avere pazientato in un paio di occasioni, una volta mi sono permesso di chiedere a una signora di passare dall’altra parte. Questa donna mi ha risposto: “Con calma, eh! Basta dirlo!”. Ma proprio in questa risposta io ravviso il segno della rovina: non ci dovrebbe nemmeno essere il bisogno di dirlo!

Inoltre, sempre più frequentemente, in parrocchia dobbiamo registrare con grande tristezza che i parenti dei defunti non organizzano loro il funerale. Le frasi ricorrenti sono: “Facciamo una cosa veloce…” o “Diamo solo una benedizione in camera mortuaria…”

Accade anche che la parrocchia non sia avvisata nella circostanza della morte di qualche persona che è stata molto vicina alla comunità e che ha amato la chiesa.

In occasione della Commemorazione dei fedeli defunti spero che ci aiutiamo a recuperare il senso della dignità della morte e del rispetto dei defunti, e che possiamo essere un piccolo segno per invertire queste tendenze abominevoli e barbariche. Ci vuole l’impegno di tutti e una luminosa testimonianza della fede nel Signore Risorto!

Don Davide