Gesù insegna anche oggi

«Entrato di sabato nella sinagoga, Gesù insegnava» (Mc 1,21).

L’esperienza di Israele di ritrovarsi nel giorno del riposo ad ascoltare la Parola di Dio e l’insegnamento dei maestri, è slittata per i cristiani al primo giorno dopo il sabato, quello della resurrezione, il primo giorno della Nuova Creazione.

In questa domenica, vorrei cogliere proprio un’analogia tra questo entrare di Gesù nella sinagoga e quello che accade dopo, in giorno di sabato, e quello che potrebbe accadere nell’entrare nostro, di domenica, nell’assemblea liturgica per la celebrazione eucaristica.

Gesù, in questa scena iniziale della predicazione del vangelo carica di simboli e di significati, viene descritto come il Messia che porta a compimento il Sabato, cioè la bontà della Creazione. Dio, infatti, nel racconto della Creazione, aveva creato il mondo in sei giorni, sigillando la sua opera con una sentenza che era anche una benedizione: «vide che era cosa molto buona» (Gn 1,31). E il settimo giorno, aveva perfezionato il suo operato concedendo a se stesso e al mondo di riposare in questa bontà.

Ora – in questo episodio – c’è qualcosa che non va: c’è un uomo posseduto da uno spirito «impuro». Attenzione: non è necessariamente un “indemoniato” come lo intendiamo noi. Il vangelo ci parla di «impuro», cioè di qualcosa che nulla può avere a che fare con la sinagoga, un luogo sacro, e soprattutto con il Sabato, che è il “sacro” per eccellenza.

Tuttavia, lo «spirito impuro» che si è impadronito di quel pover’uomo, se ne sta zitto e beato in sinagoga tra gli altri, senza che nessuno si accorga di quella presenza illegittima. È solo quando Gesù entra e comincia ad insegnare che si scatena, comincia a saltare sulla sedia, non può più starsene tranquillo, perché la parola di Dio giunge con un’autorevolezza ripristinata, nella voce del Maestro.

La parola di Dio, che risuona finalmente senza limitazioni attraverso Gesù, vuole ricostituire la Creazione nella sua bontà, e dunque non c’è più spazio per gli spiriti «impuri», per le cose che non corrispondono alla santità di Dio. Tutto questo è celato nella semplice affermazione che «Gesù, entrato di sabato nella sinagoga, insegnava […] e uno spirito impuro cominciò a gridare…» (Mc 1,21.23).

Il paragone che vorrei proporre, forse un po’ azzardato, è semplicemente questo. Noi veniamo da un lungo periodo, quasi un anno, in cui un virus impuro – qualcosa che non corrisponde per nulla alla bontà della Creazione di Dio – ha trattenuto molti di noi dalla partecipazione alla messa. Questo virus si è annidato tra di noi, ha instillato la paura, ci ha appesantito, ci ha spinto alla rassegnazione. In più, abbiamo sentito tante parole logore, tanto “berciare” poco autorevole, che invece di dare coraggio, speranza e direzione, hanno creato confusione e ci lasciano disorientati.

La parola di Dio e la celebrazione liturgica, invece, hanno il potere di scavare nel nostro spirito e di andare a stanare tutti gli spiriti impuri che vorrebbero nascondersi ed opprimerci, cercando di non farsi scoprire.

Non vorrei essere frainteso. La mia non è solo un’esortazione interessata a serrare le fila e ritornare a messa; certamente è anche un incoraggiamento in quel senso, ma è molto di più. È la considerazione che proprio questo tempo potrebbe essere l’occasione inaspettata per riscoprire la forza di quello che accade nella messa festiva, il motivo principale per cui noi celebriamo la domenica. Non è certamente per timbrare il cartellino di un precetto e meno che mai per metterci la coscienza a posto. Il punto cruciale è avere un appuntamento con una parola che ha il potere di ricostituirci nel bene, di mettere a posto quello che non va, anche quello che facciamo fatica a percepire.

Certo, direte voi, l’autorevolezza di noi poveri preti che facciamo l’omelia non è la stessa di Gesù che insegna, e avete ragione. Ma l’insegnamento di Gesù, nella messa, avviene in modo molto più ampio. La sua parola viene proclamata al di là di chi la commenta. La sua voce risuona nelle preghiere liturgiche. È lui stesso che ci raduna, ci costituisce in unità e si offre a Dio Padre mostrandoci l’esempio.

Insomma, quando accediamo all’assemblea liturgica, di domenica, è Gesù stesso che insegna e non permette più a nessuno dei nostri spiriti impuri di stare tranquilli, e così ricrea in noi il bene, ci fa ottenere quella pace del cuore che tanto desideriamo e ci fa riposare.

Don Davide




A scuola

Sono esattamente sei anni che siamo insieme nella nostra parrocchia.

Voi c’eravate anche prima, io sono arrivato come un neofita che doveva imparare tutto, uno che andava all’asilo dei parroci, insomma. Adesso mi sento uno scolaretto che ha comprato l’astuccio nuovo, il diario per i compiti e lo zainetto ed è finalmente pronto per iniziare la scuola.

Non è falsa modestia e la percepisco come un’immagine bella: se penso a come sono cambiato e quanto ho imparato in diciassette anni che sono prete e sei che sono parroco, vedo nitidamente che – se il Signore mi darà giorni – ci sarà ancora tantissimo da imparare.

Non so esattamente quali siano gli strumenti di oggi, ma ricordando i libri di testo che c’erano quando andavo a scuola io a sei anni, associo i giovani ai sussidiari di una volta (testi agili, pieni di sorprese e tutti da scoprire), gli adulti ai grossi dizionari in cui trovavi tutto (e guai a dimenticarli!) e, infine, i maestri a quei preti alla don Valeriano, o in generale a quei saggi da cui puoi imparare ogni cosa.

E poi sento che, quando “esco da scuola” c’è la Parola di Dio: il vigile gentile, ma anche un po’ severo, che aiuta i bambini ad “attraversare la strada” per “tornare a casa”.

“Chi ha orecchi per intendere, intenda!” avrebbe detto Gesù, che però sapeva raccontare le parabole meglio di me.

Quello che voglio dire è che vivo questo tempo realmente con la percezione di essere davanti al mistero delle persone; invece, in una presunzione benevola e allo stesso tempo ingenua, in anni passati avevo pensato che la pastorale potesse essere una scienza esatta, che con determinati strumenti e un metodo potesse ottenere precisi obiettivi. Ma non è così.

Questa sì è la prima lezione che posso dire di avere imparato, come la prima lettera dell’alfabeto, quando si disegnava la A su un foglio insieme a un’ape cicciotta e colorata!

La pastorale è l’atteggiamento del pastore – di tutti i pastori – che mette ogni cura per stare in presenza della vita delle persone: vita che è piena di meraviglie e di tempeste, sempre sacra e nel fascio di luce dell’amore di Dio. Si tratta di essere vigilanti, come insegna il Vangelo di questa Prima Domenica d’Avvento, per cogliere quegli istanti incantevoli in cui l’esistenza degli uomini e delle donne che hai avuto il dono di incontrare si manifesta nella sua essenza, come una trasfigurazione: quando si giunge a un momento di verità; quando arriva una chiarificazione; quando il desiderio di bene diventa riconoscibile e la scelta di amare un atteggiamento concreto; quando – ancora – ci si apre qui sulla terra al mistero di Dio. L’elenco potrebbe essere lungo. In quegli istanti il pastore si fa come un vaso, accoglie, raccoglie, custodisce, incoraggia, benedice e restituisce nella lode al Signore.

Ho la grazia di festeggiare la memoria di questo inizio con voi, tutti gli anni, nella Prima Domenica d’Avvento.

Nella prima lettura, c’è una meditazione sulla storia del popolo di Israele, da cui si leva un grido accorato e quasi incontrollato: “Oh, se tu squarciassi i cieli e scendessi!”. C’è bisogno di questo incontro con Dio, che sta nel registro delle sorprese! Poi Paolo, nella seconda lettura, ringrazia per l’esperienza cristiana dei Corinti, esperienza tutt’altro che perfetta, eppure l’apostolo si ferma sulla soglia della contemplazione di quello che sta accadendo a quei cristiani, delle molte trasformazioni in atto. Infinte, nel vangelo, l’invito ad essere vigilanti, a cogliere la traccia improvvisa della presenza di Dio.

Sapete, io sono uno che ha sempre avuto una certa predilezione per gli inizi ufficiali, per quegli appuntamenti o tappe che scandiscono in modo preciso un percorso. In questi mesi di pandemia, ho capito che una delle cose più belle che ho è l’appuntamento di celebrare le feste con la comunità. Ancora di più dopo la Pasqua di quest’anno, in cui non ci siamo potuti incontrare, marco questo nuovo inizio con il grande desiderio di celebrare questo Natale con voi.

Don Davide




Sono qui accanto a te

La pratica dell’Amore

In questa domenica le letture rinnovano le prime declinazioni pratiche dell’amore. Nascono banalmente da una provocazione a cui ci hanno abituato i farisei in queste ultime domeniche: «Qual è il comandamento massimo?» gli chiede un dottore della legge. Gesù non si sottrae alla domanda e richiama lo Shemà’, la preghiera più ripetuta in Israele: il Signore è uno, lui solo ama con tutto te stesso. Poi integra questo comandamento dicendo anche il come, perché non rimanga solo uno slogan, cui tanto siamo ormai abituati. Similmente, ama te stesso e così gli altri. Ama Dio, allo stesso modo, ama te stesso e, così, anche gli altri.

Sono qui accanto a te

Dice Dio, parafrasando la prima lettura: io ti amo quando ti senti forestiero nel mondo e nelle tue giornate, quando ti senti orfano, quando ti senti maltrattato dagli eventi. Ti amo in modo gratuito, senza interessi e così sei ricco abbastanza. Usa la stessa misura verso chi ti è accanto: questo è il massimo per te e per chi ti è vicino. Amati senza giudizio e con generosità. Sii grato per ciò che ricevi e allo stesso modo relazionati con chi incontri. Questo è il massimo che è difficile inserirlo nella categoria dei comandi poiché trabocca di solo amore. L’esercizio è teoricamente semplice: ricevo da Dio che mi colma di grazia eccedente che straripa al mondo.

Nessuno si salva da solo

Il mondo ha bisogno di cristiani così. Ad esempio, l’ultimo rapporto Caritas del 17 ottobre u.s., ‘Gli anticorpi della solidarietà’, ci parla, tra l’altro, di “nuovi poveri” con un’incidenza che passa dal 31 al 45% tra quelli che si rivolgono alla Caritas. Ci sono anche circa 62mila volontari che cercano di amare se stessi amando queste persone, in cui amano Dio.

Non siamo poi così lontani se guardiamo alle carezze che offriamo in casa, agli sguardi sorridenti che regaliamo per strada, dietro le nostre mascherine, ai pensieri/preghiere che pronunciamo per gli altri. Se Dio è così per noi, possiamo esserlo anche noi per gli altri.

Essere coerenti ci rende certi della testimonianza

Nella seconda lettura san Paolo ci dice proprio questo: abbiamo seguito l’esempio del Signore e noi possiamo diventare modelli per la nostra comunità di questo nuovo modo; la nostra comunità stessa diventa modello di accoglienza dello straniero nei prossimi giorni. Si diffonde con l’esempio oltre le parole.

Fatti amare da Dio e ama i tuoi fratelli, come sei e come puoi.

Francesco Paolo e Anna Maria




Il catechismo, la parrocchia e la pandemia

Riprende il catechismo

Mercoledì riprende il catechismo, interrotto alla fine di febbraio per l’esplodere della pandemia. Dobbiamo ringraziare tantissimo i catechisti, che in questi mesi hanno fatto un enorme lavoro, sia per tenere comunque i contatti con i bambini e le famiglie, sia per ripensare una forma possibile anche nel corso dell’emergenza sanitaria.

Questo lavoro è progettato anche in vista del futuro del catechismo: una proposta più adeguata alla condivisione dell’esperienza della fede ai nostri giorni.

80 bambini… e i genitori?

I bambini iscritti al catechismo di 3-4-5° elementare sono 80. Il percorso per quelli di 2° è stato pensato diversamente, anche in questo caso nello sforzo di migliorare l’incontro di queste famiglie con la comunità.

80 è un numero grandissimo per le forze della nostra parrocchia. I catechisti fanno tutto il possibile per permettere che il catechismo si svolga e funzioni, tuttavia c’è bisogno che tutta la comunità si senta coinvolta e responsabile.

Sento il bisogno di richiamare soprattutto i genitori di questi 80 bambini. È necessario che qualcuno si senta interpellato a dare la propria disponibilità per fare il catechista. Non può essere sempre e solo un problema degli altri, che si prendono l’impegno di “tenere mio/a figlio/a”. Ciascuno genitore si deve chiedere: “E io? Perché non io?”.

Senza questa disponibilità reale dei genitori, che devono sentirsi partecipi, di quest’impresa (e non solo fruitori o spettatori), non è detto che si riesca a continuare il catechismo per tutto l’anno.

Condizione indispensabile

La condizione indispensabile, per me parroco, è che ci siano almeno 10 catechisti e 10 aiutanti, per fare si che i gruppi siano composti da non più di 8 bimbi ciascuno.

Se questa condizione non si verifica per mancanza di disponibilità, saremo costretti a sospendere il catechismo. I catechisti fanno tutto il possibile, ma non è ammissibile che tutto il peso gravi su di loro.

E la comunità?

Anche la comunità deve sostenere il catechismo, e non soltanto moralmente, oppure dicendo: “se c’è bisogno di qualcosa chiedete”. Ancora di meno c’è bisogno di dare dei consigli, o fare delle osservazioni e delle critiche, senza conoscere l’impegno dei catechisti e senza impegnarsi quotidianamente (come fanno loro) in questa che è una vera e propria “impresa”. Bisogna rimboccarsi le maniche e garantire un vero aiuto, che semplifichi e non complichi.

Magari non ci si pensa, ma fare catechismo in questa condizione significa pensare attività che non richiedano il contatto, giochi divertenti ma distanziati, studiare come gestire il materiale che non può passare di mano in mano ecc… Significa anche acquistare il materiale igienizzante per ogni spazio utilizzato, sanificare tutte le aule (ben 10!) prima e dopo l’incontro, sanificare la chiesa prima e dopo il ritrovo (perché a seguire c’è la messa), riordinare gli spazi se ci sono state altre attività in parrocchia.

Comunicare la fede

Si dice spesso che la cartina di tornasole della qualità di una comunità è proprio la presenza e il rapporto con i bimbi. L’impegno con cui la nostra comunità inizia il catechismo vorrebbe essere testimonianza di questa passione di comunicare la fede, che inizia dai bimbi e non finisce più.

Don Davide




Padre Marella e una lettera per i ragazzi

«Perché andare a cercare altri santi, quando ne abbiamo uno qui a Bologna?» diceva sempre mio nonno, quando gli proponevano dei pellegrinaggi da qualche parte.

Parlava di padre Marella, e questa frase in casa nostra è passata da una generazione all’altra: prima l’ha imparata mia mamma, fin da quando era piccolina, di conseguenza anche i miei fratelli e io.

Per mio nonno padre Marella era un tale santo che quasi esauriva tutta la ricerca di modelli da imitare: come se non ci fosse bisogno di altro. E non c’era volta che mia nonna passasse all’angolo di via degli Orefici, senza mettere un’offerta nel famoso cappello. Anche dopo, quando padre Marella non c’era più e c’erano i suoi successori; al punto che persino a me – che sono nato 18 anni dopo la sua morte – sembra di averlo conosciuto, perché ripetevo quel gesto con la mia nonna.

Ma padre Marella non era solo il prete stravagante, fermo per ore a chiedere l’elemosina col suo cappello in quel cantuccio del Quadrilatero bolognese, come lo ritrae la sua foto più celebre. Quell’uomo era anche un esperto di diritto, un pedagogista e un filosofo.

Quando scoprii che padre Marella era stato un filosofo e professore del Liceo Minghetti rimasi esterrefatto. Quel vecchietto barbuto che sembrava un mendicante era, in realtà, una mente sopraffina e un visionario della pedagogia. «Ma allora, perché faceva il mendicante?!». Fu così che imparai che non chiedeva l’elemosina per sé, ma scuoteva la coscienza dei bolognesi, ed era amico dei poveri e un padre per i ragazzi e i giovani di Bologna. Lo ha sempre fatto nel nome di Gesù.

Questa scoperta che ha attraversato le generazioni di famiglia, mi ha spinto a scrivere un pensiero proprio a voi, ragazzi e giovani.

Padre Marella, infatti, ha per così dire iniziato la sua carriera da santo proprio attraverso l’educazione dei ragazzi e dei giovani. Era un antesignano e un profeta. Credeva fermamente nella formazione della coscienza, nel suo primato e – di conseguenza – nella libertà personale, quando ancora prevaleva l’idea che i giovani dovessero solo obbedire. Pensate cosa avrebbe potuto rappresentare questo – se fosse stato preso ancora più sul serio – di fronte ai drammi della Prima e della Seconda Guerra Mondiale! Per rimanere fedele a questi principi che insegnava e testimoniava ha accettato di pagare di persona, ingiustamente, per sedici anni.

Cosa voglio dirvi, allora, in questo giorno in cui lui viene proclamato esempio di vita cristiana nella piazza della nostra città? Che la beatificazione di padre Marella non è solo una roba per gli anziani che l’hanno conosciuto. Non è una cosa come le tante che non vi riguardano.

La giornata di oggi è come una stele issata in mezzo a Piazza Maggiore che vi ricorda questi tre passaggi fondamentali per la vostra esistenza.

1)La vostra coscienza è la cosa più preziosa che avete. Questa misteriosa sensibilità di sintesi tra le esperienze, quello che capiamo e quello che sentiamo che si chiama appunto “coscienza” va formata: va nutrita ogni giorno come il vostro organismo, va allenata con metodo come i vostri muscoli, bisogna cercare la perfezione come nelle vostre storie Instagram o nei video di Tik Tok che vogliono più follower.

2)La coscienza ben formata – non quella che si fa imbambolare da qualunque imbecille – ha un primato che nessuno le può togliere. È la via per essere padroni della vostra vita. Non è vero che siamo per forza condizionati; è vero, piuttosto, che pochi si curano di avere una coscienza forte e ben formata, capace di decidere e di orientare consapevolmente la propria esistenza.

3)Non c’è cosa più preziosa, per Dio e per ogni persona seria, che uomini e donne liberi. Ma la libertà, quella vera, quella di amare, di servire, di rendere gli altri migliori mentre allo stesso tempo si edifica il proprio cammino, è ancora una volta frutto di un grande lavoro su se stessi, sulla propria coscienza e sui propri comportamenti.

Ricapitolando, il giorno di padre Marella vi riconsegna queste tre cose: la coscienza, la formazione, la libertà. Abbiatene cura. Coltivare la fede cristiana vi aiuterà a farlo.

E se non credete che quel vecchio mendicante col cappello in mano fosse davvero così e avesse la grande cura per i ragazzi di cui vi ho parlato… beh, chiedetelo a uno di loro.

Uno di quelli che padre Marella ha cresciuto, che ha accompagnato nei passi importanti della vita e che è diventato anche suo vero amico lo conoscete: è don Valeriano.

Con amicizia,

d. Davide




L’anomala normalità

Della compassione come via

L’insegnamento di Gesù, nel vangelo di questa domenica, ruota attorno al tema della compassione. “Il padrone ebbe compassione del servo” e, al termine del racconto, chiede allo stesso servo: “non dovevi anche tu avere compassione del tuo compagno?”.

Questa domenica fa da spartiacque: iniziamo un periodo importantissimo e difficile. Domani riprendono le scuole, con le complicazioni enormi e i rischi inevitabili legati al perdurare dell’emergenza sanitaria. Tuttavia, i nostri ragazzi andranno finalmente a scuola, nel loro luogo più proprio. Era un assenza che durava dal 27 febbraio, una situazione davvero impressionante a pensarla in circostanze normali. Qualcuno ha vissuto i passaggi della fine dei cicli scolastici, che sono tra i più indimenticabili della vita, senza nemmeno potere fare una festa o salutare “in balotta” (come diciamo a Bologna) i propri amici.

Ci piacerebbe che tutti gli studenti e le studentesse sentissero una speciale vicinanza a quest’esperienza così difficile: una tenerezza per quello che è stato e come l’hanno affrontato, e quasi una commozione a vederli di nuovo varcare i cancelli dei loro istituti, in compagnia degli amici.

Anche il mondo universitario riprende con coraggio le lezioni in presenza. In generale, la fine delle vacanze estive segna inconfutabilmente un confronto con quella “normalità” che, dai mesi della quarantena nazionale, non era più stata piena: un’anomala normalità, nei mesi che ci attendono.

Ugualmente, anche la nostra parrocchia si cimenta con l’orario ordinario delle messe, che non era più stato tale dal 27 febbraio, con la ripresa del catechismo, la programmazione dei gruppi, il tentativo di fare ripartire il doposcuola, l’impegno della San Vincenzo e lo sforzo di non fermare gli aiuti della Caritas.

Vorrei che tutti avessimo uno sguardo di compassione su questi sforzi – nostri, del mondo ecclesiale, e quelli di fuori, dell’impegno della società civile – pensando che ognuno stia provando a fare il meglio che può, con la consapevolezza di sé, la maturità e l’equilibrio che è riuscito a raggiungere fino a quel punto della propria vita.

Questo atteggiamento esige che la compassione entri in circolo. Nelle istruzioni di Gesù, il rimprovero per quelli che arrestano questa circolazione della bontà è severo: “Non dovevi anche tu avere pietà del tuo compagno?”.

Non abbiamo bisogno di durezze, ma di un’umanità tenera.

Non abbiamo bisogno di convinzioni granitiche, ma di cuori aperti.

Non abbiamo bisogno di affermare noi stessi, ma di capire come possiamo fare i passi insieme.

Concretamente, credo che ci siano alcuni atteggiamenti molto pratici che possiamo tenere presenti.
1) Attenzione e delicatezza per chi si sente ancora poco sicuro rispetto alla pandemia e magari affaticato da qualche turbamento o ansia. Non bisogna sminuire affatto questi nostri fratelli e sorelle e non bisogna farli sentire in difficoltà. Occorre fare uno sforzo ulteriore di rispettare le norme sanitarie: l’utilizzo della mascherina, il rispetto della “giusta vicinanza”, il garbo e l’attenzione di mettere a proprio agio l’altro.

2) L’esercizio della comprensione. In parrocchia, a scuola, negli uffici e nei posti di lavoro… sicuramente c’è stato lo sforzo di provare ad affrontare le difficoltà. Anche dove l’organizzazione non fosse perfetta, magari c’era qualcuno che anelava al meglio. Non bisogna “farsi andare bene tutto”, ma provare ad essere radicalmente costruttivi.

3) Una sigla: ARP. Assoluta – responsabilità – personale. Cosa posso fare io? Questa domanda dovrebbe essere come una giaculatoria, o un mantra. Come posso dare una mano? Cosa posso fare io per migliorare la situazione o impedire altre difficoltà. Cosa devo fare io per tenermi centrato, in forma fisicamente e spiritualmente, per essere pronto a fare la mia parte in questa sfida che tutti stiamo vivendo?

Il padrone della parabola risponde a queste domande dicendo: “Io sono ricco e potente, una cosa posso esercitare: la compassione.” E lo fa.

Vale anche per noi.

La compassione è la nostra via.

Don Davide




Ti ho posto come sentinella

“Ti ho posto come sentinella.” (Ez 33,7)

Sento forte la suggestione di questa immagine. Il testo pensa al ruolo della sentinella nell’ambito della correzione fraterna, che è il vero tema delle letture di questa domenica.

Tuttavia, vorrei dilatare questo spunto in rapporto alle settimane e ai mesi che ci attendono. La sentinella, infatti, è colei che fa la guardia, cioè vigila che non ci sia un’effrazione e che non accada qualcosa di brutto, ma – in tutta la Scrittura – è anche colei che sta di vedetta, cioè attende l’alba.

Da domani (lunedì 7 settembre) riprenderà l’orario normale delle messe feriali e festive e della segreteria (mattina e pomeriggio) che è il segno del ritmo ordinario della vita della parrocchia e delle attività pastorali.

Significa “iniziare di nuovo” o meglio, come abbiamo scritto sul sito nei giorni subito dopo la quarantena collettiva, significa “rinascere dall’alto”, farsi rigenerare dallo Spirito. È comunque uno scatto in avanti, dopo mesi così particolari e per certi versi assurdi, che ci hanno messo alla prova, ma anche forgiato; che avremmo volentieri evitato, ma da cui abbiamo anche imparato.

Sappiamo che l’emergenza sanitaria non è finita, quindi rimettersi in gioco richiede un surplus di attenzione e di impegno, e anche una certa capacità di adattamento e di fare fronte a una preoccupazione latente che accompagna ogni progetto. Tuttavia non se ne può fare a meno, non tanto per questioni economiche – come tutti dicono – ma perché abbiamo bisogno di vita autentica e di comunione.

In quest’ottica l’immagine della sentinella diventa per ciascuno di noi una vocazione e un incoraggiamento.

“Io ti ho posto come sentinella” significa che ciascuno di noi è chiamato “a fare la guardia” perché non succeda qualcosa di brutto, e anche a “scrutare le prime luci del mattino” e preparare attivamente l’attesa dell’alba… quando potremo dire che l’emergenza sanitaria è finita, sperando di avere imparato tutto quello che c’era da imparare.

Dobbiamo vigilare e vegliare sui nostri fratelli e sorelle, non solo perché non si ammalino di Covid-19, ma anche perché non si ammalino d’ansia, di demotivazione, di solitudine. Allo stesso tempo dobbiamo rimboccarci le maniche, per preparare una vita più sana, non solo dalle malattie del corpo, ma anche da quelle dello spirito, che avvelenano le relazioni e la nostra fede.

Prudenza e intraprendenza sono due parole che potrebbero guidarci.

Vedo un particolare tipo di “carità fraterna” proprio in questa capacità di aiutarci gli uni gli altri e sostenerci, affinché possiamo vincere le ansie da contagio, sostenerci nel riprendere i progetti belli e le attività positive, con le attenzioni necessarie a gestire le difficoltà, ma senza paure.

Dobbiamo aiutarci, perché qualcuno ha bisogno di essere rassicurato, qualcuno ha bisogno di essere più coraggioso e qualcuno più prudente. Tutti dobbiamo avere in mente di edificare la nostra comunità, consapevoli dei limiti imposti dalla situazione, delle nostre debolezze, ma anche della chiamata all’amore che non viene mai meno.

Infatti, come scrive san Paolo nella seconda lettura: «Qualsiasi comandamento si ricapitola in questa parola: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. La carità non fa nessun male al prossimo…” (Rm 13,9-10).

Don Davide




Questione di sguardi

Possiamo solo provare a immaginare cosa abbia significato per Gesù venire a sapere dell’uccisione di Giovanni Battista ad opera del re di Israele, sebbene un re fantoccio.

Il re che disprezza e uccide i profeti, nella storia di Israele, era memoria di devastazione e rovina: era la causa dell’esilio.

In più, Gesù era legato a Giovanni non solo da affetto famigliare (erano cugini), ma anche da una singolare comprensione della propria vocazione: erano due personalità uniche, che sentivano la responsabilità di dichiarare la venuta del Regno di Dio. Avevano il carisma per farlo e la fede che li sosteneva, eppure si trovavano in mezzo a mille contraddizioni.

Ora Gesù viene a sapere che suo cugino, il suo amico, il suo mentore, il suo apripista era stato ucciso. Come dev’essere stato profondo il suo senso di solitudine e il suo sgomento?

Gesù, come diciamo noi, a questo punto avrebbe bisogno di “staccare”. Si ritira, salendo su una barca e cercando una sponda isolata, dove non ci sia molo né attracco, in modo da non potere essere raggiunto. Lo immaginiamo contemplare le sponde del lago, i monti di Galilea, col pensiero che quei luoghi saranno la culla del messaggio che ormai, inesorabilmente, sta dilagando. È partito da Nazareth, è arrivato fino a Cafarnao e ha fatto il giro delle sponde del lago, poi ha rimbombato di nuovo in Galilea, Samaria… fino in Giudea, a Gerusalemme. Gesù, sulla barca nel lago, in quel breve ritiro, contempla il seme divino che sta per nascere nel mondo.

Ma ecco: viene subito raggiunto da una grande folla e non pensa che voleva riposarsi; pensa a quanto è grande l’umanità, a quanta distonia c’è ancora con il regno di Dio annunciato: ci sono poveri, gente ammalata, oppressi e oppressori… Gesù sente la compassione proprio per questa immensa moltitudine che ancora non gode della presenza del regno di Dio, del suo amore in noi che ci converte e pian piano, quando è accolto e dato, risana tutto. Come potranno credere, costoro, all’amore di Dio se nessuno li cura? Come potranno vedere il suo regno se nessuno li ama? Ecco: “sentì compassione per loro e guarì i loro malati”.

Ma viene la sera. In quei momenti il tempo fugge ed è ora di tornare alle cose concrete. Bisogna mangiare e si sa: il cibo è lavoro, il lavoro è fatica e spesso non ce n’è per tutti.

A questo punto, fra il Maestro e i discepoli si marca una differenza. Questi sono sulla terra, Gesù sembra rapito in cielo: “Non c’è bisogno di congedarli” dice, come se vedesse l’invisibile. I suoi occhi sono fissi sul regno di Dio, che sta facendo irruzione. Nessuno lo vede, lui sì. Da quando ha visto la colomba scendere su di lui, il giorno del battesimo al Giordano, sembra avere sempre questo sguardo fisso sulle cose e sulle persone, specialmente nei momenti più delicati.

“Abbiamo una miseria!” protestano i suoi.

Gesù guarda questi cinque pani e due pesci. Li capisce i suoi discepoli, poveri. Non sono negligenti, sono solo nella medesima difficoltà in cui saranno tutti i discepoli per i secoli a venire, sempre: quelli che soffriranno perché non ci saranno cibo e acqua per tutti, cure per tutti, assistenza spirituale per tutti, abbastanza benessere per tutti; quelli che si sgomenteranno e si sentiranno in difetto perché non fanno abbastanza… Questi discepoli di ogni tempo, che siamo anche ciascuno di noi, non sanno come fare e non rimane che chiedere a ciascuno che si arrangi a fare la propria parte.

Ma Gesù… Lui vede cinque pani e due pesci… e là dove tutti noi percepiamo la mancanza, lui vive la fede nel Padre, che non fa mancare niente ai suoi figli. I re uccidono i buoni; le folle hanno bisogno; le forze sembrano non bastare per tutti, ma Gesù posa il suo sguardo sul regno di Dio che fa irruzione. Questa è la differenza fra lui e noi. E così, pronuncia la benedizione sul pasto, non per chiederne ancora, ma come se bastasse, come se ci fosse un buffet calcolato per tutti gli ospiti: “Benedetto sei tu, Signore, che provvedi il cibo alle tue creature. Tu apri la tua mano e sazi la fame di ogni vivente. Ti ringraziamo per questo cibo che ci doni, fa che possiamo mangiarlo in condivisione e donarlo anche a chi non ce l’ha. Benedetto sei tu, Signore. Noi vogliamo sempre cantare la tua lode!”.

Capite qual è la magia che si sta compiendo? Mentre tutti vedono pochissimo, quasi nulla, Gesù vede la provvidenza del Padre per tutti. Vede il segno di chi si prende cura, Dio prima di tutto, per ciascuno di noi e benedice e ringrazia. E la magia si compie. Non la magia del prestigiatore o dell’alchimista, non il miracolo dell’uomo di Dio, ma la magia della vita, la magia delle fede che dà uno sguardo nuovo sul mondo.

Questione di sguardi. Nella maniera più assoluta.

Cerchiamo di immaginarci lo sguardo di Gesù con quei cinque pani e due pesci in mano e durante la sua preghiera. Fissiamo il nostro sguardo nel suo e cerchiamo di ripeterlo.

Don Davide




Come la pioggia e la neve

Siamo in piena estate e la liturgia della Parola, in questa domenica, inizia evocando la pioggia e la neve. Sembrano immagini lontane, ma proprio nei mesi più caldi e secchi dell’anno siamo aiutati a considerare la preziosità dell’acqua che disseta la terra e del ciclo delle stagioni.

La pioggia e la neve – dice il profeta Isaia – scendono dal cielo e irrigano e fecondano la terra, perché germogli, dia il seme e poi il raccolto. È una metafora stupenda e celebre, usata sempre per indicare l’efficacia della Parola di Dio, che non torna al cielo senza avere irrigato la vita di chi raggiunge.

Oggi, però, pensando all’estate, in questo paragone vorrei cogliere la dilazione del tempo. Tra l’autunno e l’inverno che preparano la terra irrigandola e la gioia del raccolto, passa un tempo lungo, di attesa, in cui l’agricoltore può curare un po’ il campo, ma non può operare più di tanto.

Mi sembra che nella pastorale delle nostre comunità, dovremmo riscoprire e coltivare il tempo lungo. La semina della parola – come ben manifesta la parabola evangelica, che pare esprimere un aspetto complementare a quello della prima lettura – è difficile. Nonostante l’abbondanza e la generosità del seminatore, che non è uno sprovveduto, c’è una difficoltà intrinseca in questa seminagione.

Lo dico in modo provocatorio, ma ho l’impressione che nel tempo che viviamo, invece, per evitare il rischio della dispersione dei semi e del periodo lungo per vedere il frutto, preferiamo fare come l’esperimento scientifico per eccellenza di tutti i bimbi, cioé mettere il semino in un bicchiere con un po’ di cotone, per vedere il germoglio e la piantina e dire: “Wow!”. I bimbi, giustamente, ne rimangono meravigliati, ma gli adulti sanno che non si raccoglierà nulla da quella piantina… ma è come se ci rassicurasse vedere qualcosa.

Lo si fa con il catechismo, in cui ci rassicura vedere i bimbi nei quattro anni del catechismo, ma sapendo che poi – sia per loro che per le loro famiglie – rimane ben poco di quella esperienza.

Lo si fa con i ragazzi e i giovani, con i quali usiamo quasi sempre il criterio del “così vengono”, ma alla fine non insegniamo loro a pregare, la vita spirituale, il valore dei sacramenti, di avere una guida. Fare queste cose “spirituali” è difficile: è impopolare, non interessano, ci vuole tempo… mi chiedo, però, se non siano proprio questi percorsi difficili a manifestare l’efficacia di cui parla il profeta Isaia. Quando questi ragazzi saranno diventati uomini e donne, che cosa li aiuterà?

Anche la carità corre lo stesso pericolo. Sembra che sia l’unica cosa che conti nella Chiesa, agli occhi del mondo: della fede cristiana non interessa più niente, anzi, non di rado si manifesta un certo fastidio, però la Chiesa che fa tanta carità piace a tutti: “Così dovrebbe essere!” si dice. Ma cosa sostiene la carità? Tutte le persone che animano in maniera non improvvisata, costante e con sapiente dedizione la carità, sono persone che sanno precisamente il motivo per cui lo fanno: per Gesù. Gli altri ci girano attorno, ma se non ci fossero i primi, l’immenso impianto della carità nella Chiesa semplicemente crollerebbe.

seminaAllora, cosa dobbiamo fare? La semina della Parola di Dio è difficile e, diciamolo senza mezzi termini, è fuori moda. Ma pare che Gesù non abbia escluso questa eventualità, citando il profeta Isaia.

“A chi ha sarà dato, e sarà nell’abbondanza, ma a colui che non ha sarà tolto anche quello che ha.” È una delle frasi più scandalose e irritanti del Vangelo, a fronte di un certo modo di pensare in termini di aurea mediocritas. Ma quello che vuole dire Gesù, parlando della Parola di Dio, è che la Parola è legata a un desiderio e la ricchezza cristiana a un’adesione. Chi rifiuta questo tesoro, si troverà sprovvisto e non ne rimarrà nulla. Chi invece lo cerca e vi si apre, a prezzo di fatica e pazientando nel tempo lungo, non avrà nemmeno bisogno di scoprirlo, ma sarà ricolmato di ricchezza.

Don Davide




Estate 21-06-2020

Inizia l’estate e Gesù nel vangelo di oggi usa l’immagine dei passerotti, anche loro custoditi dal Padre di tutti, che è nei cieli.

Dovrebbe essere lo spunto per una sorta di mindfulness cristiana: fermarsi a guardare il volo dei passerotti. Essi volano allegri, non un gesto solenne ed estremo come quello dei rapaci, ma un movimento più semplice, dedito alla ricerca di cibo e alla libertà dell’aria. Dio si prende cura di questa loro esistenza umile.

Allo stesso modo, possiamo immaginare di fermarci con il volto rivolto verso il sole e, senza mascherina, inspirare l’aria d’estate. Ascoltare il canto degli uccelli e, quando arriverà il caldo vero, il frinire dei grilli e delle cicale. E pensare che come il Sole, così splende su di noi l’amore del Padre. È possibile che ogni tanto non si veda il Sole, che sia oscurato dalle nuvole: nondimeno, sappiamo che è la sua energia che sostiene il mondo, anche nella peggiore giornata d’inverno, e che, se per qualche ragione il Sole smettesse di emanare i suoi raggi sulla Terra, il pianeta collasserebbe all’istante. Ma, in realtà, nessuno dubita che il Sole continuerà a bruciare e a emanare il suo calore per svariati miliardi di anni.

Così è l’amore di Dio. Anche quando appare nascosto, mantiene tutto nell’esistenza. Anche se non lo vediamo è lui che continua a dar vita al nostro cuore.

La luce, il calore e i colori dell’estate ci servano a richiamare quest’energia sovrana, che è tanto vasta da abitare il globo, e tanto personale da essere premurosa per ciascuno di noi.

È grazie a questa conferma di quanto sia voluta e preziosa la nostra esistenza per Dio – conferma che ci ricorda Gesù in ogni sua parola e in ogni suo gesto – che possiamo non vivere nel buio e nel nascondimento, ma cercare di essere autentici.

Per lo stesso motivo, siamo incoraggiati a non lasciarci coinvolgere nelle trame nascoste, ma ad essere solari e limpidi, come una giornata tersa d’estate.

Infine, è il ricordo del volo dei passerotti che ci fa sentire liberi da ogni paura. Nessuno ci potrà fare del male, anche chi volesse farcelo davvero. La nostra vita è ancorata ad un’esistenza più profonda, più radicale e più libera.

Vorrei che per tutti il tempo dell’estate fosse l’occasione di coltivare un po’ questa sorgente spirituale.

Vi propongo, quando andrete al mare o in montagna, o in un viaggio nella nostra bella Italia, di sostare su qualche piccolo sguardo dove il particolare tocca l’universale: il moto delle onde, un bambino che gioca con la sabbia, la croce sulla cima di una montagna, il pascolo delle mucche, il cameriere che versa un buon vino toscano, i cipressi in contrasto su un campo di girasoli… tutto ci può confermare dell’energia dell’amore di Dio che sostiene il mondo.

Lasciamo che questa consapevolezza entri in noi e permei il nostro spirito e – come quando rimaniamo esposti al sole e ne sentiamo il calore sulle guance – cerchiamo di percepire Dio stesso che ci accarezza.

Don Davide