Messa 25 aprile

INTRODUZIONE ALLA MESSA 

Celebriamo questa messa per ringraziare del dono del Vangelo, per la fine della guerra e la Liberazione del nostro paese e per la pace. 

Lo facciamo in pieno spirito di partecipazione alla Festa del nostro Paese, e anche alla festa molto sentita che si svolge qui nel nostro quartiere. 

Lo facciamo, soprattutto, in comunione con la Chiesa di Bologna e con la Chiesa italiana attraverso il Cardinale Arcivescovo Matteo Zuppi, che in questo giorno è presso la diocesi di Alba a celebrare nella messa il ricordo di padre Giuseppe Girotti, domenicano, inserito tra i martiri del nostro tempo nell’elenco della Comunità di Sant’Egidio. 

Il 25 aprile 2020 il nostro vescovo ha dichiarato nel suo discorso: 

“Il 25 aprile è una ricorrenza che ha corso il rischio di essere vissuta come una festa di parte, a volte retorica; al contrario, non dobbiamo dimenticare che è la festa di tutti e celebra i valori fondanti del nostro Paese. Dobbiamo essere grati, infatti, a quella generazione che ha vissuto la guerra e combattuto per la Liberazione, perché ci ha regalato la Costituzione e 75 anni di pace. (…) 

Lo spirito della Costituzione è un regalo sofferto e dolorosissimo, ma che ci consegna una visione dello Stato e della politica in grado di unire persone e pensieri anche molto diversi tra loro. Questa è un’eredità preziosissima che è per tutti, questo comune sentire, capace di unire idealità diverse per il bene del nostro Paese e di superare le parti è ciò che ci unisce e rappresenta un’enorme ricchezza perché in grado di dire e dare ancora moltissimo. 

Gli appuntamenti della città degli uomini sono quelli che uniscono tutti. (…) Ricorrenze come la fine della guerra e la Liberazione dell’Italia e dell’Europa dal nazifascismo sono davvero importanti, perché tutti vi si possono riconoscere. (…) 

Credo che il mondo cattolico debba fare uno sforzo perché, dal Vangelo e dalla sua pratica, scaturisca una cultura che spieghi la realtà in cui viviamo e sappia accrescere una conoscenza e una comprensione più profonde e umane del reale. L’odio e il razzismo, che altro non sono che forme di paganesimo emergono quando il cattolicesimo è più debole.”. 

In questo contesto, ricordiamo anche l’Azione Cattolica nazionale che nella giornata di oggi è stata a Roma a incontrare il papa, e soprattutto gli aderenti della nostra parrocchia, un bel gruppo numeroso di giovani che sono andati, e che nei prossimi giorni faranno qualche giorno di ritiro a Spello. 

Preghiamo insieme a loro e anche per loro, perché come abbiamo ascoltato dalle parole del Cardinale, l’impegno cristiano e cattolico plasmi una cultura davvero buona ed evangelica. 

Con queste considerazioni iniziali, chiediamo perdono per tutte le volte che non abbiamo assunto o rispettato la nostra responsabilità di cristiani nel mondo. 

 

OMELIA

C’è un forte invito alla vigilanza in queste letture, come se non si potesse celebrare la festa di un evangelista senza essere attenti, sobri. Non c’è vangelo dove non si resiste, saldi nella fede, al leone ruggente che vuole divorare le vite. Non c’è possibilità di annunciare il vangelo della vita e del bene se non si sorveglia sulla possibilità che il male prenda piede e dilaghi e divori tutto.

Come sappiamo bene, a Bologna c’è un luogo simbolo del martirio di preti, dei religiosi e delle religiose e delle comunità che erano con loro, a Marzabotto – Montesole. Da molti decenni, ormai, quel luogo è stato riconquistato alla pace, alla preghiera e alla riconciliazione, in una parola al Vangelo, per opera dei monaci e delle monache di don Giuseppe Dossetti e per volontà della Chiesa di Bologna.

La festa liturgica di un evangelista, la festa civile della Liberazione e l’esempio della nostra storia locale ci insegnano che, perché non si ripetano più simili orrori, bisogna vigilare da lontano, perché il leone ruggente, il nemico, il Diavolo, sempre va in giro cercando chi divorare, ed è un attimo che si ceda sul discernimento evangelico.

Penso alla fatica della vigilanza, quando sorgevano il messianismo nazista e le promesse fasciste. La difficoltà di fare discernimento, la fatica di capire dove stava il giusto e lo sbagliato, i gangli del potere, il sacrificio di prendere posizione.

Oggi ricordiamo tante persone divorate dalla furia di quel leone, ma possiamo ricordare ad esempio i giovani della Rosa Bianca, che avevano la lucidità di chiamare Hitler “il Diavolo” e “Satana” nei loro volantini, quando tutti lo acclamavano come condottiero, o alla cosiddetta Chiesa Confessante, che rifiutò gli accomodamenti col potere e nel suo memorabile manifesto dichiarò che di Messia e Salvatore c’era solo Gesù Cristo, il Crocifisso Risorto.

Pensando alla vigilanza, oggi che l’Azione Cattolica italiana è stata in udienza da Papa Francesco, voglio ricordare Tina Anselmi: convinta iscritta all’Azione Cattolica, antifascista per scelta, membra della Resistenza in seguito ad essere stata costretta ad assistere a un rastrellamento, staffetta partigiana, impegnata attivamente perché dopo la Liberazione non ci fossero regolamenti di conti, fiera credente, prima donna Ministra della Repubblica. Nel suo secondo incarico come Ministra, quando era Ministra della Sanità, fu approvata la Legge Istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale. La vigilanza su questo tesoro nazionale che tutto il mondo ci invidia è un modo per evitare che il leone ruggente si insinui, ad esempio nella discriminazione tra la salute dei poveri e quella dei ricchi.

Dunque, si festeggia la Liberazione per vigilare affinché gli orrori delle dittature del passato non si ripetano. E i cristiani sanno che non possono annunciare il Vangelo se non impegnandosi molto perché anche gli orrori delle molte dittature di oggi cessino immediatamente.

Agiamo sapendo che Dio resiste ai superbi (1Pt 5,6), come recita la prima lettura, facendo eco alle parole di Maria nel Magnificat: “Ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili” (Lc 1,51-52).

Oggi, in Italia, ricordiamo il rovesciamento del potere nazista e fascista, e la vittoria di chi ha creduto nella possibilità di superare quella situazione: la guerra, l’usurpazione e l’orrore. Sembrava una lotta troppo umile, fatta di sacrifici militari, di nascondigli e staffette in bicicletta ma alla fine ha avuto la meglio.

Purtroppo sappiamo che non è stato tutto condotto nel bene. Ci sono stati altri crimini, vendette, regolamenti di conti. C’è stato chi si è approfittato dei vuoti di potere e della mancanza di controllo per dare sfogo a una violenza altrettanto crudele e ingiusta. Per questo bisogna vigilare sempre, ed evitare che si ripetano le condizioni per simili disastri strutturali, che poi sono faticosissimi da ricucire nel bene, nell’ordine e nella giustizia.

La Repubblica che ne è uscita e la nostra Costituzione repubblicana sono antifasciste e fondate sull’antifascismo.

Dossetti, che ho ricordato prima, ammoniva che “fascismo è ogni forma di potere che usurpa, discrimina e priva della libertà”. Esiste un fascismo di destra e lo abbiamo tristemente conosciuto. Ma esistono anche un fascismo di sinistra, un fascismo delle idee, un fascismo ecclesiastico, religioso e valoriale. E ancora, un fascismo delle parole, un fascismo degli atteggiamenti e un fascismo nello stile della convivenza.

Purtroppo ci sono ancora tantissimi di questi fascismi qui e in giro per il mondo e tutti questi fascismi generano violenza e rovina.

Per tutti questi fratelli sparsi nel mondo, Gesù ci invita ad annunciare il Vangelo. “Proclamare il vangelo ad ogni creatura” (Mc 16,15) non significa principalmente fare catechesi o proselitismo. Significa offrire soprattutto con l’esempio un messaggio e uno stile che è un’incudine contro tutte le logiche mondane: la privazione della libertà, il potere, la ricchezza, la violenza, la discriminazione, l’egoismo, la mancanza di rispetto e la negazione della convivenza. “Proclamare il vangelo” significa agire attivamente perché trionfi la pace e perché tutte le passioni e le croci del mondo, cioè le torture e le morti procurate, siano definitivamente sconfitte.

Gesù parla di segni chiari, che distinguono chi agisce nel suo nome dai falsi profeti: scacciare i demone del potere e i suoi inganni, che potrebbero sedurre tutti, anche ciascuno di noi, perché non ne siamo immuni; parlare una lingua non violenta (pensate quanto fascismo c’è nelle nostre parole); anticipare i morsi del Serpente con la vigilanza, come si diceva prima e, infine, permette ai cristiani e alla Chiesa, quando sono stati contaminati da qualcuno di questi veleni, di avere l’antidoto nella conversione.

Più di ogni altra cosa, quindi, rimane vero che noi annunziamo Cristo crocifisso, vera sapienza di Dio. Quando guardiamo al Crocifisso, capiamo che – se lo amiamo – possiamo solo metterci accanto a tutti i crocifissi della storia, che sono suoi fratelli e sorelle, per annunciare a loro la resurrezione e a tutti (gli altri e noi stessi) la possibilità di conversione e di redenzione.

 

PREGHIERE DEI FEDELI

Lettore: Preghiamo insieme dicendo: ASCOLTACI, SIGNORE GESÙ. 

  1. Per la Chiesa, perché sia testimone autentica della resurrezione di Gesù, soprattutto operando concretamente per il riscatto delle vite oppresse e proponendo la conversione e la riconciliazione dei cuori. Preghiamo.
  2. Perché noi siamo artefici di pace, con gesti coraggiosi e costruttivi, nelle scelte e nelle parole, nell’impegno sociale, civile e politico e nella solidarietà. Preghiamo. 
  3. Perché apprezziamo il dono della libertà, sappiamo custodirlo, condividerlo e consegnarlo alle nuove generazioni, senza tradirlo con le superficialità e le ideologie. Preghiamo. 
  4. Per tutti coloro che portiamo nella preghiera, per la Diocesi di Venezia che celebra il suo patrono, per chi si è affidato alla nostra preghiera, per chi soffre e chi vogliamo ricordare con affetto: perché tutti possano sentire il conforto dello Spirito e la speranza che viene dal Vangelo. Preghiamo. 

Don Davide: Ricordiamo ora alcuni sacerdoti, a nome di tutti, martiri della violenza nazifascista, con una breve nota biografica: 

Lettore: 

Don Giovanni Minzoni 

Coraggioso, dialogante, diede vita a progetti per i poveri, anziani, giovani e favorì il cooperativismo. Invece di trasformare i bambini della parrocchia in balilla scelse di farne gruppo scout, quando questi insieme a tutte le associazioni venivano chiuse dalle leggi fasciste. Per questi e altri motivi venne in odio ai fascisti e fu ucciso a bastonate il 23 agosto 1923 dagli squadristi agli ordini della milizia di Italo Balbo. 

Don Giuseppe Bernardi e don Mario Ghibaudo 

Furono tra le vittime della prima strage nazifascista in Italia, a Boves. Si adoperarono per la salvezza del paese. Negoziarono con successo la restituzione di due soldati tedeschi catturati da partigiani, ma ciò non servì a salvare il paese che venne incendiato. Anche loro vennero entrambi trucidati e bruciati. Morirono il 19 settembre 1943. 

 Don Giuseppe Beotti 

Aiutò ebrei, partigiani, soldati e feriti a mettersi in salvo e pagò col sangue la decisione di non abbandonare i suoi parrocchiani ai rastrellamenti nazifascisti. Morì il 20 luglio 1944 fucilato facendosi il segno della croce e stringendo il breviario in mano. 

 Padre Giuseppe Girotti 

Padre Giuseppe Girotti venne arrestato da un repubblichino che fingendosi un partigiano gli chiese aiuto. Da tempo aveva iniziato a nascondere e medicare i partigiani e ad aiutare gli ebrei a fuggire. Caduto nella trappola, venne poi consegnato ai nazisti inviato a Dachau. Consumato dal freddo, sporcizia e tifo, fu portato in infermeria e ucciso da un’iniezione di benzina il primo aprile 1945. 

 Padre Placido Cortese 

Padre Placido Cortese fu torturato per giorni interi. Nonostante le atroci torture non rivelò mai i nomi di ex soldati, partigiani, ebrei che aveva aiutato. Morì il 15 novembre 1944 per l’esasperazione dei suoi aguzzini che decisero infine di ucciderlo sparandogli. 

 Don Giuseppe Borea 

Partigiano della Divisione “Val d’Arda” fu catturato dai fascisti e condannato a morte. Davanti al plotone di esecuzione rifiutò sedia e benda e gridò “Offro la mia vita per la pace e la grandezza della Patria”, poi, toltosi il mantello, gridò: “Viva Gesù, Viva Maria, Viva l’Italia.” Colpito da otto pallottole, don Borea fu finito con un colpo alla nuca. 

Tra i tanti, ricordiamo ancora 

  • Don Francesco Delnevo 
  • Don Natale Monticello 
  • Don Pasquino Borghi 
  • Don Giuseppe Morosini 
  • Don Mario Pappagallo 
  • Don Giuseppe Rossi 
  • Don Ernesto Camurati.  

Sono quasi 400 i sacerdoti diocesani e religiosi torturati e uccisi di cui ricordiamo oggi il sacrificio e il martirio. 

Ricordiamo anche i presbiteri che, scampati alla fucilazione, hanno potuto raccontare la loro esperienza partigiana nella Resistenza, testimoniando i valori che campeggiano nella Costituzione repubblicana: 

  • Don Primo Mazzolari 
  • Don Angelo Cocconelli 
  • Don Giulio Malaguti 

Per tutti loro preghiamo. Ascoltaci, Signore Gesù! 

Don Davide




Omelia Veglia di Pasqua

In questi giorni, la liturgia del Triduo ci ha fatto meditare sul dono della comunità e sulla grazia della verità. 

C’è un terzo dono che ci porta la celebrazione della Veglia Pasquale: il dono della vita. 

Tutti noi siamo qui a celebrare la Pasqua, perché osiamo sperare nella resurrezione. 

Da questo punto di vista siamo più audaci delle donne, che vanno al sepolcro con la sola speranza che qualcuno ne apra l’ingresso, per ungere il cadavere di Gesù. 

Loro non riescono nemmeno a immaginare che Gesù sia risorto, noi invece siamo qui per essere confermati in questa fiducia. 

Non si tratta di crearci una nostra consolazione dai mali del mondo e dalla paura della morte.  

Non vogliamo illuderci e non siamo illusi. 

La resurrezione non è una cosa che ci siamo inventati noi. 

C’è un segnale indicatore molto forte: una pietra rotolata sulla sua guida. 

Ci sono delle pietre che rotolano dal sepolcro.  

Io l’ho visto quest’anno, preparando i 21 catecumeni adulti che hanno chiesto il Battesimo, con le loro testimonianze. Lo sperimento tutte le volte che vado ad accompagnare il weekend di Retrouvaille, quando confesso, quando vedo la grazia sconfiggere il peccato. Lo sento quando l’amore si spande nel mondo come un profumo intenso o quando la gentilezza e la gratuità rischiarano l’ombra di tante difficoltà. 

Ma questo non basta. Rotolare via la pietra è solo il primo passo. 

Poi bisogna vivere. Ritornare sui passi di Gesù, perché ci istruisca di nuovo nel vangelo. Sì, perché il Vangelo noi non lo impariamo in un raro momento di slancio spirituale, ma lo apprendiamo nella vita quotidiana, nella vita di tutti i giorni. 

In realtà, siamo immersi nel Vangelo e nell’amore di Dio, che ne è come il condensato concreto, anche se spesso siamo distratti e non lo vediamo, oppure lo diamo per scontato. 

Ieri abbiamo ascoltato alla fine del racconto della Passione questa affermazione: “Chi ha visto ne dà testimonianza” (Gv 19,35). Permettetemi perciò di applicare un metodo della spiritualità ebraica ai testi che abbiamo ascoltato, e di raccogliere in un piccolo midrash – uno scenario interpretativo – la testimonianza di tre “testimoni oculari” della vita: l’angelo dell’accampamento, la pietra del sepolcro, il giovane. 

L’angelo 

Io ho ricevuto il comando per la strategia di battaglia dal generale degli eserciti celesti. Mi sono mosso per bloccare l’esercito degli Egiziani. Non pensate alla guerra con la vostra sensibilità, io ho compiuto un’azione per separare gli oppressi dagli oppressori, per ostacolare chi fa il male e favorire le vittime. In questo io sono testimone della vita: che il Dio delle schiere schiera la sua forza perché ci sia un argine a tutti gli eserciti della morte. Purtroppo non è una cosa da prendere alla leggera. È una vera battaglia e io la combatto perché gli eserciti delle guerre sprofondino nel caos e risulti salva la vita dei popoli.  

La pietra 

Il mondo che conoscevo è andato sottosopra, quando ho sentito qualcosa che mi spingeva. Non era la solita forza di un uomo o di una leva. Questa volta era lieve, come se io fossi una piuma. Non ho potuto vedere quel che accadeva, ma so che di solito la luce entra attraverso la porta quando è aperta, invece in quel momento uscì. Fu un’eclissi al contrario. Sentii aria fresca che mi accarezzava, come se non avessi più dovuto accogliere la morte. In questo io sono testimone della vita: che ci sono forze, spesso lievi, come la fiducia o una carezza, che muovono macigni bloccati e che nessuna presenza mortifera è autorizzata ad avvelenare il mondo. 

Il giovane 

Non so come io sia arrivato qui, ma so perché ora mi ritrovo qui. Fuori dal tempo e dallo spazio, ero seduto con il capo di Gesù sulle gambe. L’ho accarezzato, come una madre col suo bambino, fino a che ha aperto gli occhi e ha ricominciato a respirare. Il suo sguardo e il soffio della sua vita hanno rinvigorito il mio corpo e reso i miei lineamenti distesi e morbidi. In questo io sono testimone della vita: prima di uscire lui mi ha ringraziato. “Vado a ricominciare tutto” ha detto, “perché tutto possa ricominciare, in tutte le vite. Per questo tu sarai sempre giovane, perché è l’età in cui si inizia”. 

Rendo, allora, anch’io la mia semplice testimonianza al Vangelo e, con esso, alla Vita. 

L’incontro con il Vangelo e il dono della vita mi fanno provare un intenso sentimento di gratitudine e un’emozione fiduciosa di affidamento e di responsabilità. 

Per me, se la vita fosse una sinfonia, sarebbe qualcosa di armonioso, risolto e disteso, con degli intermezzi in maggiore e delle strofe dissonanti, che trasmettono energia e sorpresa. Se fosse musica contemporanea, sarebbe un misto di tutti i generi, dal pop al rock peso, con le barre rap, degli stacchi acustici e indi, e delle improvvisazioni di jazz. 

Se fosse un paesaggio, sarebbe forse un panorama di montagna, con i suoi contrasti tra il verde dei boschi e le rocce maestose, e il cielo che ammanta di pace una valle; oppure il sorgere del sole all’alba, sul mare. 

Nelle persone, per me la vita si esprime nel sorriso dei ragazzi e delle ragazze, nell’affetto di un bimbo, nella premura di una mamma, nella tenerezza di un papà, nella complicità di due sposi e nell’affabilità degli anziani. 

Alla vita penso quando vedo l’albero in fiore di fronte alla mia finestra, in mezzo a tanto cemento, quando una giovane mi racconta che va a fare volontariato, quando scopro che i legami creati sono variopinti e ricchi, e si rigenerano nel tempo come gli alberi a primavera. 

La vita mi insegna il vangelo quando le persone fanno dei sacrifici per amore, dove ci sono le pazienze, la resilienza, la tenacia di non disperarsi e di affidarsi alla provvidenza. 

Il vangelo mi insegna la vita dove c’è impegno per la giustizia, costruzione della pace, cura delle ferite, perdono, superamento tenace di tutte le discriminazioni. 

(Pausa) 

Io ho proposto un piccolo esempio, a servizio della liturgia. Ma tutti dobbiamo chiederci: come rendo testimonianza al Vangelo della Resurrezione? Credo che la cosa più importante sia non cercare lontano. Forse, un giorno, il Signore ci condurrà lontano, ma per adesso si tratta di prendere consapevolezza che siamo già qui, ora, immersi nella Vita.   

 Don Davide




Omelia Venerdì Santo

Nella prima scena di questo racconto, si fronteggiano Gesù e Giuda. Sono amici, anche se Giuda non è rimasto nel cenacolo fino ad ascoltare le parole di Gesù: “Non vi chiamo più servi, ma amici”. Gesù lo aveva voluto personalmente tra quegli amici che erano destinati per primi a conoscere l’amore di Dio per il mondo, gli aveva lavato i piedi e gli aveva offerto il suo affetto, perché si allontanasse dal suo proposito e si affidasse all’amore. 

Ma, nel momento in cui aveva accolto quel boccone e aveva deciso di andarsene, Giuda era sprofondato nella notte, in balia di Satana. 

Il loro incontro al Getsemani è impressionante. È un posto che Giuda conosce, perché era un luogo di preghiera condiviso. Com’è possibile che si sia tramutato in uno spazio di lacerazione così profonda? 

Gesù è lì con i discepoli. Giuda arriva con il suo seguito. Non è un assalto, ma uno schieramento di due fronti opposti: Gesù davanti ai suoi, Giuda con i soldati e le guardie. 

Dallo scambio che segue, pare che Giuda non riconosca Gesù: Gesù è lì davanti ai suoi occhi, con tutta la loro storia condivisa e chiede: “Chi cercate?” e Giuda parla di lui in terza persona: “Gesù il Nazareno”. 

Come è stato lo scambio di sguardi tra Giuda e Gesù? 

La passione degli uomini e delle donne inizia quando uno non riconosce più l’altro, con il quale ha condiviso una storia insieme e una speranza di bene per il futuro. 

Le croci del mondo cominciano ad essere piantate quando in una coppia che ha deciso un progetto di vita insieme non ci si riconosce più, si diventa avversari e nemici; quando due popoli che parlano una lingua simile come i russi e gli ucraini, o che vivono da decenni nella stessa terra come gli ebrei e i palestinesi, cominciano vedere nell’altro nient’altro che un nemico; quando un essere umano non riconosce più un essere umano, con la stessa dignità e lo stesso bisogno di essere rispettato e amato; quando fra amici si litiga e non ci si riconcilia più, dimenticando tutto ciò che di bene c’è stato. 

Si tratta di non riconoscere la verità sulla nostra vita, sugli incontri che abbiamo fatto e le relazioni che abbiamo costruito. 

Che cos’è la verità? Chiede Pilato a Gesù, ma poi non si ferma ad ascoltare la risposta.  

Che cos’è la verità? È una domanda che sta letteralmente al centro di questo racconto e avrebbe potuto segnare una svolta. Pilato sa che Gesù è senza colpa. Per tre volte lo dice di fronte agli accusatori e per altrettante volte cerca di liberare Gesù, ma alla fine volta lo sguardo dall’altra parte.  

Questo accecamento di fronte alla verità delle cose stordisce tutti quelli che hanno a che fare con Gesù e non si lasciano illuminare dalla luce che potrebbe riportali a se stessi:  

  • Pietro, che nega platealmente di conoscerlo; 
  • i suoi accusatori, che possono voler uccidere ingiustamente un uomo con il consenso dell’Impero, ma non si vogliono contaminare calpestando il cortile del governatore; 
  • i capi dei sacerdoti – la classe dirigente, il governo del popolo – che proclamano di avere come unico re l’Imperatore di Roma. Questa affermazione è un tale infarto teologico, che tutte le Scritture di Israele potrebbero bruciare al sentirla. 

Tutte le croci e la passione del mondo sono simboleggiate nella passione e croce di Gesù, proprio in questo stare di fronte alla realtà, riconoscere la verità… e fare finta di niente. È una obliterazione totale della coscienza e del senso della propria esistenza. 

Di fronte a questo scenario Gesù svela a sua madre e al discepolo la verità della loro esistenza, così che lo stesso discepolo possa finalmente dare testimonianza della verità. 

Qual è, dunque, la nostra verità? È generare ed essere generati. È essere madre e figli e riconoscere la Chiesa, madre e discepola, come lo spazio di comunione dove possiamo rispondere alla nostra vocazione.  

Credo che sia importantissimo sentire questo dovere di generare, ma allo stesso tempo di lasciarsi generare; di proporre un esempio e di lasciarsi educare; di insegnare e di apprendere; di guidare e farsi condurre; di trasmettere vita e accettare che la vita si riceve sempre in dono dagli altri. 

È così che ogni discepolo rende una testimonianza vera dell’amore di Gesù e della rivelazione di Dio. In tutta quella confusione e allontanamento dalla verità di se stessi, il cuore aperto del Crocifisso ci riporta alla possibilità di affermare che questa è la verità, non un’altra: l’amore incondizionato di Dio riversato senza misura su ogni uomo e su ogni donna. 

Fra poco faremo il rito dell’adorazione e, per chi vuole, del bacio della croce. Al termine della processione e del canto vorrei poi lasciare uno momento di silenzio per stare davanti alla croce e chiedere al Signore di aiutarci a fare verità in stessi. 

Che Gesù possa illuminare i nostri sentimenti, rischiarare i pensieri, aiutarci a riconoscere chi siamo, cosa abbiamo costruito, quali sono i nostri desideri profondi. 

Che la sua croce ci aiuti a riconoscere le nostre paure e ad affrontarle, e ad apprezzare il senso della nostra vita e la nostra vocazione. 

Non basteranno questi pochi minuti, ma potrebbero essere un inizio verso un contatto sempre più vero con noi stessi 

C’è un’ultima verità, da scoprire. Gesù viene deposto in un giardino, in una tomba in cui nessuno era stato ancora deposto. Una tomba nuova, che non aveva ancora conosciuto la morte.  

Il giardino richiama il dono della Creazione. Gesù viene deposto in un giardino, in una tomba vergine che rispedirà la morte al mittente, perché sia chiaro a tutti che, in verità, non c’è proprio più posto per la morte in questo giardino. 

Don Davide




Omelia Giovedì Santo

La cena pasquale degli ebrei aveva assunto un valore rituale importantissimo. Era celebrata come la fonte di vita per tutta la comunità di Israele. L’inizio da cui derivava l’esperienza di appartenere al Signore e la libertà di essere popolo, che potrebbero essere due aspetti significativi anche per noi, tradotti nel modo seguente: che cosa significa essere cristiani? Che cosa significa essere chiesa?  

Nella cena pasquale l’aspetto rituale è fortissimo: l’agnello non deve avanzare fino al mattino e se uno mangiasse il lievito dovrebbe essere escluso dalla comunità, perché in quella notte il passaggio del Signore è avvenuto prima del mattino e il popolo di Israele parti dall’Egitto in gran fretta, prima che il pane fosse lievitato. 

Tutto deve essere racchiuso in quella notte. 

Come abbiamo sentito dalla II lettura, anche per i cristiani è rimasta questa impronta rituale fortissima: Gesù ha detto le parole di quella che sarebbe diventata la Cena del Signore – l’Eucaristia – nella cena pasquale. 

La comunità di Giovanni e, con essa, il redattore del IV vangelo – riflettendo molti decenni dopo su cosa distingua la vita cristiana dal mondo – ricordano che in un contesto rituale molto importante, quello della cena pasquale, Gesù ha compiuto un’azione totalmente irrituale: un servizio che doveva essere compiuto prima di prendere cibo, appena entrati in casa, perché era la soglia di passaggio tra l’impurità e la purità.  

Quindi nel solenne rito della Pasqua assistiamo a questo impressionante atto di Gesù, che sintetizza l’insegnamento del Maestro e Signore: lavare i piedi.  

Lavare i piedi: gesto ospitale per eccellenza (che vuol dire: ti accolgo e sei il benvenuto nella mia casa) e gesto di servizio nel ruolo del servo, anche se sei il padrone di casa. 

Questo fanno i cristiani come segno distintivo della loro fede e opera sorgiva del loro essere chiesa e comunità. 

Pietro, invece, esprime perfettamente la logica del mondo: “Io sono un servo fedele al suo capo”. Ma è esattamente l’opposto che conta: il capo vuole insegnare a servire, non se ne fa nulla di qualcuno che dica: “Io darò la mia vita per te”. È lui che ha dato la vita per noi una volta per tutti, e noi dobbiamo darla per i fratelli e le sorelle. 

Molto diversamente dai capi e dai potenti del mondo, Gesù non ha bisogno di sottoposti, ma di amore-posti. Gesù non vuole schiavi, ma persone libere e fraterne. 

Mentre si consuma la terza guerra mondiale a pezzi, sperando che i pezzi non si congiungano, ma anzi diminuiscano, e che i focolai si spengano, sento la grande responsabilità di essere una comunità cristiana autentica ed originale nel vivere la fede, il servizio fraterno e l’amicizia reciproca. 

Di fronte ai poveri, all’individualismo, alla solitudine e all’indifferenza, sento il bisogno di essere una comunità cristiana che fa spazio nella propria casa, insegna lo stile di lavarsi i piedi e di servirsi, invece di sopraffarsi. 

Qualche giorno fa, è stato celebrato qui in questa chiesa il funerale di Pilar, una ragazza di 22 anni, non della nostra parrocchia, morta di anoressia. Al cospetto delle sofferenze dei giovani (e delle loro famiglie e amici), e pensando alla vitalità esplosiva che potrebbero esprimere e alla loro capacità di fare nuovo il mondo, sento il dovere di stare vicini, di essere una comunità cristiana affettuosa, un cenacolo dove si dicono e si vivono le cose più vere e dove si può aprire il cuore all’amore e a un’incoraggiante promessa di vita.  

 Fra poco ripeteremo il gesto della lavanda dei piedi. Dobbiamo ricordarci che io lavo i piedi a te, mentre a me li ha già lavati Gesù. Coloro che si lasciano lavare i piedi da Gesù la smettono di pensare a quello che possono fare per lui, accettano il grande dono di imparare l’amore, e che sia lui il modello di cui abbiamo bisogno. 

“Lo capirai dopo” dice Gesù a Pietro. Questi sono i giorni di ricevere l’esempio da Gesù e di dare amore alla comunità. Nell’Eucaristia, noi celebriamo continuamente questa sorgente zampillante che permette la vita nostra, della comunità cristiana e anche del mondo intero, se accettiamo questo insegnamento di deporre le vesti e di lavare i piedi nel ruolo del servo. 

 Che cos’è dunque l’eucaristia? È la scuola dove impariamo l’amore. 

Che cosa significa celebrare? Significa allenarsi a servire. 

Come si vive da cristiani? Accogliendo l’altro nella casa che edifichiamo insieme, la chiesa, e scoprendo la bellezza della nostra vita che serve. 

Don Davide




Omelia domenica 12 marzo 2023

LA SAMARITANA

Dunque, anche tu sei stanco, Gesù.

Ci sentiamo rincuorati, noi che quando siamo affaticati per il viaggio, rischiamo sempre di sentirci in difetto, perché ci viene il dubbio di condurre male la nostra vita e l’anelito ad essere perfetti è la tentazione più insidiosa.

È insidiosa perché ci schiaccia, o al contrario, perché rifiutiamo il nostro impegno e sprechiamo i doni che abbiamo, o ci lasciamo andare e ci buttiamo via.

È una sete che conosciamo bene, quando nell’ora più calda della vita siamo spossati, quando il viaggio troppo lungo comincia a privarci delle nostre forze, della lucidità nel pensiero e della fluidità dei movimenti. Si vorrebbe avere un pozzo, presso cui sostare, ma spesso in quei casi, prevale la solitudine.

È una sete che conosciamo bene quando riceviamo il dono dell’empatia, così che le guerre non sono più lontane, la morte per naufragio non è più solo “degli altri”, e i problemi economici diventano anche nostri.

È una sete che conosciamo bene anche per cose meno drammatiche, ma che hanno spessore per chi le vive, come la scuola quando si fa troppo pesante per i ragazzi, come di fronte all’ultimo esame di un lungo ciclo di studi, come la delusione per quel traguardo che non abbiamo raggiunto.

Perciò, siccome la conosciamo bene anche noi questa sete, vogliamo darti da bere Gesù.

Desidero confortarti con la mia presenza accanto a te, ti vorrei consolare. Mi prendo cura di te, Signore Gesù.

Ti prego, ti adoro, ti faccio compagnia, ti dico che ti voglio bene, ti servo nei miei fratelli e sorelle, voglio collaborare al tuo regno. Essere una sorgente di Spirito come una fonte d’acqua.

Ma…

…qualcosa non mi torna.

Tu mi hai chiesto da bere, e ora dici che mi disseti?!

Come fai a dissetarmi, Gesù?!

Come raggiungi il mio bisogno profondo, il desiderio dei giovani e quello di chi ha bisogno di te?

Come si fa a non avere più la sete che è arsura, e invece a risvegliare la sete bella che è voglia di vivere, di amare e di servire?

Come si fa a vincere quell’istinto di placare la sete con amori maldestri, con relazioni tossiche e gettandoci in braccio agli idoli, che non hanno il potere di saziare anelito alcuno?

Come si fa a non avere più sete mai?

Voglio quest’acqua!

Rivelati a me, Signore Gesù.

Parlami.

Accedi alla mia vita.

Ho grande desiderio di incontrarti.

Mi parli!

Fai verità, dici.

Pronuncia il vero sulla tua vita: cosa stai vivendo, cosa provi, qual è il motivo reale, cosa desideri?

Cosa ti fa male? Chiamalo per nome.

Cosa ti fa bene? Chiedimelo.

Permetti alla verità di aprire il tuo Spirito, e lascia entrare per quella porta l’amore.

È difficile credere, Signore!

È difficile; non è il caso di nasconderselo.

Ma io, il Salvatore che mi rivelo a te, ho già piantato da lungo tempo un seme che sta portando frutto. L’ho fatto ogni volta che hai sperimentato l’amore.

E anche se tu dormi o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Sono io che irrigo il terreno. Accetta la mia acqua e tu produrrai spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il frutto pieno nella spiga.

Guarda! È già il tempo della mietitura.

Don Davide




I luoghi vivi

Mi è stato chiesto di scrivere l’omelia della Veglia di Pasqua. Ho trascritto gli appunti che avevo, nel modo meno schematico possibile, consapevole che rimane un testo che avrebbe ancora bisogno di molte rifiniture.

Introduzione. Il fuoco.

La Veglia di Pasqua inizia con il fuoco dello Spirito, come simbolo di un nuovo vigore e di una luce calda e piena di energia nella notte e, nella liturgia, non si sa se prepari la resurrezione di Gesù (perché serve per accendere il Cero Pasquale) o ne sia il frutto (perché è il segno che rinnova tutto), ma divampa!

Questo vigore, che Dio immette nella storia e con cui rinnova il mondo, è espresso nella potenza con cui Dio ha liberato il suo popolo dalla schiavitù (I lettura: Es 14), nella tenerezza che Dio esprime al suo popolo (II lettura: Is 54), nella forza con cui trasforma continuamente il nostro cuore indurito, lo intenerisce e ci rende più capaci di amare (III lettura: Ez 36), infine, nella vita nuova che ci fa vivere, anche quando meno ce l’aspettiamo (Epistola).

Sono convinto che se noi pensiamo al punto in cui siamo arrivati adesso nella vita, scopriremmo con meraviglia tanti traguardi, tante cose buone che ci troviamo a vivere, magari continuamente nascosti o offuscati dalle fatiche e dalle cose che non vanno, che però non devono coprire tutta la prospettiva.

Ma, in concreto, che cosa significa tutto questo per noi?

Il Vangelo ci fa ascoltare la domanda dei testimoni della resurrezione alle donne: “Perché cercate tra i morti colui che è vivo?” (Lc 24,5).

Ci chiediamo: che cosa è vivo? Che cosa trasmette vita?

Che cosa, quindi, da vita alla Chiesa? Che cosa dobbiamo praticare, lasciando indietro quello che non dobbiamo più cercare?

Seguendo il racconto del Vangelo possiamo raccogliere tre indicazioni.

Primo. La tenerezza.

Le donne vanno al sepolcro, non perché sono animate dalla fede nella resurrezione, ma perché sono mosse dalla tenerezza: vogliono compiere un gesto buono nei confronti del Maestro. Non possono fare più niente per lui, ma hanno ancora affetto, e lo vogliono esprimere con l’azione di sciogliere le bende e ungere il suo cadavere, come segno di rispetto ai morti. È un gesto e un pensiero che ci riempie il cuore di tenerezza.

Paradossalmente, questa tenerezza è in grado di riscattare anche le dimensioni abitate dalla morte. I testimoni dicono che non bisogna cercare tra i morti, ma loro – andando a compiere un gesto tenero per un defunto – scoprono la via della vita.

Poco prima della Quaresima abbiamo celebrato il funerale di una bimba. In quel momento drammatico possiamo raccogliere tutte le fatiche della vita e gli orrori che si consumano, anche nelle guerre presenti, che si esprimono nella loro forma più acuta, ingiusta, dolorosa e radicale nella morte di una piccolissima bimba. Oggi pomeriggio, nel silenzio del Sabato Santo, i suoi genitori sono venuti a dire una preghiera per lei.

Una delle profezie più intense della resurrezione, nel profeta Isaia, recita così: “Non ci sarà più un bimbo che viva solo pochi giorni; né un uomo che dei suoi anni non giunga alla pienezza” (Is 65,20).

Mi tengo queste attese e queste speranze nel cuore.

Vedo, però, che in qualche modo misterioso, quando tu esprimi tenerezza, una vicinanza sincera, amicizia, lì c’è il Signore risorto che si fa raggiungere e si svela.

Secondo. Alleanza.

Nel Vangelo di Luca, per esprimere la passione, morte e resurrezione di Gesù, si usa di continuo il campo semantico del “dovere”: bisogna, bisognava, doveva… I testimoni richiamano le parole di Gesù quando era ancora in Galilea “e diceva: Bisogna che il Figlio dell’uomo sia consegnato…” (Lc 24,7).

È uno dei concetti più difficili del Nuovo Testamento e del mistero della vita di Gesù, ma sicuramente esprime il fatto che Dio, attraverso Gesù, si impegna con l’umanità. Non difende la sua libertà assoluta, si prende un impegno per salvarlo, per liberarlo dal peccato e dalla violenza che lo attanaglia, si condiziona, anche a costo di morire in croce.

Questo esempio di Dio, ci dice che l’Alleanza, allearsi, è un luogo della vita

Io mi impegno con te. Mi lego. Tu sei una cosa che mi riguarda. Ci tengo, non cambio alla prima fatica, lavoro sul nostro legame. Se serve, chiedo scusa e lo faccio prontamente.

Ho voglia di lavorare con te, pensare con te, costruire con te.

Per creare un’alleanza vera, secondo la testimonianza del Vangelo, ci vuole sacrificio, questa parola obsoleta e rifiutata, ma che è legata alla consegna che Gesù fa di se stesso. E insieme al sacrificio ci vuole condivisione: le donne che andarono al sepolcro, secondo il racconto di Luca, erano molte e compirono quella piccola spedizione insieme.

Terzo. Mediazione.

È opinione condivisa che la nostra è l’epoca delle non mediazioni, quella che non solo le ha rifiutate, ma abbattute. C’è un fondo di verità, in questo, ma adesso ci si scopre ad andare a cercare altre mediazioni, diverse da quelle precedenti, nuove, ma utili e necessarie.

Possiamo accedere a qualunque notizia, ma se ti vuoi informare decentemente, ti affidi ad un aggregatore, a un giornale o a una rivista di cui ti fidi, che faccia un po’ di mediazione dello scibile, per te. Puoi ascoltare tutta la musica che vuoi, ma utilizzi le playlist per conoscere quella più di tendenza, in mezzo alla vastità di tutto quello che è disponibile. Si potrebbero fare tanti altri esempi.

L’idea di una mediazione è fondamentale perché nel Vangelo di Luca, per comprendere la resurrezione ci vuole sempre una mediazione: dei testimoni al sepolcro (Lc 24,1-7), del pellegrino misterioso (Lc 24,13-35) o del Risorto stesso, che palesato, spiega ai suoi discepoli il mistero della resurrezione (Lc 24,36ss.).

Mi sembra che questo valga soprattutto per la responsabilità degli adulti nei riguardi dei ragazzi e dei giovani.

Per comprendere la vita, ci vuole qualcuno che medi l’esperienza, che sia capace di darne un’interpretazione significativa, che ti restituisca il vissuto e poi che sappia ad un certo punto sparire, farsi da parte, sottrarsi.

I testimoni della resurrezione nel Vangelo di questa notte spariscono dalla scena e dalla narrazione senza che nemmeno ce ne accorgiamo. Il pellegrino misterioso scompare dalla vista dei discepoli non appena lo hanno riconosciuto. Il Signore risorto ascende al cielo.

Questa è davvero l’opera decisiva: la capacità di offrire una mediazione, per comprendere la vita, e poi lasciare sgombro il campo di gioco.

Conclusione. “Porrò il mio spirito” (Ez 36,27)

Il profeta Ezechiele, nella lettura che porta il percorso dell’Antico Testamento fin sulla soglia del Nuovo, parla di un’effusione dello Spirito nell’intimo di ogni essere umano, come gli inizi di una Creazione Nuova (cf. Gn 1,2).

È solo l’inizio, dunque.

Al sepolcro noi abbiamo gli attrezzi del mestiere di vivere, come si diceva una volta andiamo a imparare a bottega.

Nella celebrazione di questa Pasqua, allora, possiamo tenere una preghiera nel cuore che suona così:

Su di lui, su di lei si posi lo Spirito del Signore.

Su questi miei fratelli e sorelle, su queste mie amiche ed amici si posi lo Spirito del Signore.

Sulla mia famiglia, su mia moglie, mio marito, su questo mio figlio e questa mia figlia si posi lo Spirito del Signore.

Su questa comunità posa, Signore, il tuo Spirito.

 

Don Davide




Omelia per i bimbi del 24-01-2021

TESTIMONIANZA DI ZEBEDEO

Quando Gesù chiamò i miei figli Giacomo e Giovanni, capii che era giunto un momento decisivo anche della mia vita.

Conoscevo quel Maestro particolare; era da qualche giorno che insegnava lungo le coste del Lago e lo faceva in modo diverso da tutti gli altri: era più autorevole e più convincente, e le cose che diceva si capivano bene, come se facessero parte della nostra vita. E poi nelle sue parole c’era una dolcezza, come se parlasse con affetto a persone a cui voleva bene, e quando lo ascoltavi provavi un senso di urgenza e di pace allo stesso tempo.

Avevo voluto molto bene ai miei figli e avevo insegnato loro tutto quello che sapevo, soprattutto il mestiere di pescatore. Ormai, erano molto più bravi di me.

Ma sapevo che quel lavoro gli stava stretto. Erano sempre stati irrequieti, con un’energia che sembrava che dovessero spaccare il mondo e certamente quei piccoli villaggi sulle sponde del Lago non erano abbastanza per loro.

Pensate che una volta si erano conquistati il soprannome di Figli del Tuono.

Il giorno che Gesù li chiamò, li avevo visti particolarmente spenti. Stavano aggiustando le reti, ma si vedeva che erano tristi, annoiati e con poca motivazione.

Così fui contento che fosse proprio Gesù a chiamarli. La sua voce risuonò come un tuono: “Ehi, voi due, venite dietro di me!” Notai che c’erano già Andrea e Simone al seguito: sembravano due pulcini spaventati dietro a Gesù, eppure erano due omoni, con le mani indurite dal tanto lavoro.

Quando Gesù li chiamò, sentii che si realizzava anche la mia vocazione di padre, come la vocazione di ogni genitore, di ogni mamma e di ogni papà.

Sì, perché quando sei genitore ai tuoi figli insegni tutto, dai loro il meglio di te… ma poi arriva il momento in cui devono seguire la loro strada, ed è giusto che lo facciano, che loro partano e che tu rimanga lì sulla tua barca, da solo.

È difficile, ma è giusto.

La vocazione dei genitori si compie proprio quando sanno lasciare spazio ai figli, perché seguano la loro vocazione.

Giacomo e Giovanni, all’udire quella voce di tuono, si risvegliarono. I loro lineamenti si distesero e si accesero, come se fossero di fuoco. Si voltarono verso di me, facendomi un sorriso, io con la testa feci cenno di sì e loro si incamminarono verso Gesù, lasciando tutto lì sulla barca.

E io sono contento che abbiano risposto con l’entusiasmo che li caratterizzava. E sono contento che lo abbiano fatto subito. Perché un padre è felice quando i figli sono felici.

Sono i miei figli e io li amo.

 

INTERVISTA AI DISCEPOLI

Giacomo e Giovanni, raccontateci come è stato l’inizio.

Quando Gesù comparve per la prima volta e cominciò a predicare, non ci facemmo neanche caso. Non era certo il primo e non sarebbe stato l’ultimo.

I personaggi come lui iniziavano a predicare alla mattina presto, quando noi pescatori avevamo quasi finito di lavorare, dopo una notte passata a pescare. Eravamo stanchi e non avevamo certo voglia di stare lì ad ascoltare!

E poi cosa successe?

Prima che ci chiamasse, eravamo passati accanto a Gesù un paio di volte, mentre tornavamo dal lavoro. Ricordo che la prima volta che incrociai il suo sguardo, non riuscii a sostenerlo.

Così, cominciammo a fare attenzione a quello che diceva. Quando finivamo di pescare, trovavamo sempre la scusa di intrattenerci sulla barca, per ascoltare qualche insegnamento di Gesù, senza farci notare.

Ma credo che lui si fosse accorto che eravamo interessati.

Cosa avete provato?

Cavolo, noi eravamo giovani e vivevamo in un mondo legato alle tradizioni! Sembrava che non si potesse fare niente di nuovo, non era ammesso nulla ente che non fosse stato già fatto o già vissuto dai tuoi genitori, dai tuoi nonni e dai tuoi bisnonni.

Invece noi eravamo curiosi. Volevamo vedere Gerusalemme… e Atene… e magari anche Roma! Anzi, volevamo sconfiggere l’Imperatore! Sì, pensavamo di poterlo fare!

E ci siete riusciti?

Beh, quando Gesù ci chiamò pensammo che fosse la nostra grande occasione.

Ha funzionato?

In realtà, dopo abbiamo scoperto che non avevamo capito niente.

Ci disse che saremmo stati “pescatori di uomini” e noi ci lasciammo prendere dall’entusiasmo… ma, a pensarci bene, non avevamo idea di cosa volesse dire!

L’avete imparato?

Sì. Abbiamo imparato che la cosa più grande che si può fare è migliorare se stessi, allenandosi ad amare, a voler bene e a servire.

E che essere pescatori di uomini, significa che se tu ti lasci amare, dopo gli uomini si avvicinano a Dio quasi da soli.

Grazie del vostro tempo, alla prossima intervista!
Grazie a voi, arrivederci a tutti!

 

LETTERA DI GESÙ

Care bimbe, cari bimbi,

rispondo volentieri per raccontarvi cosa mi ha spinto, quel giorno a chiamare i primi discepoli… i primi di una lunga lista in cui, oggi, ci siete anche voi.

Io abitavo a Nazareth, sui monti, ed ero stato a Gerusalemme e a Betlemme… ma il Lago era il mio posto preferito. Così, quando volevo annunciare l’amore di Dio… decisi di partire da lì.

Mi sembrava il luogo adatto per sentirsi amati da Dio, come quando anche voi siete nel vostro luogo preferito. Qual è il vostro luogo preferito?

Lì incontrai tanti uomini e tante donne indaffarati. Erano giovani e meno giovani… e studiandoli, capii subito una cosa.

Tutti, ma proprio tutti, avevano nel cuore un desiderio: quello di essere amati e di amare, insieme a quello di fare qualcosa di buono.

Sono sicuro che anche voi ce l’avete! È quel sentimento che ci fa sentire la gioia, quando accade qualcosa di bello.

Allora cominciai semplicemente a dire a tutti che era vero.

E loro mi domandavano: “Che cosa è vero?!”

E io: “Che siete amati! Che Dio vi ama!”

E aggiunsi che tutti potevano farlo.

E loro mi domandavano: “Che cosa possiamo fare?!”

E io: “Potete amare anche voi! E fare tante cose buone!” E li incoraggiavo.

E vedevo che era come se si risvegliassero: avevano più energia ed erano più gioiosi.

Avete presente, bimbi, quando incontri qualcuno che capisci che può essere tuo amico? Ecco, quando vidi i primi discepoli, io provai quella sensazione. Capii che saremmo stati amici per sempre e che io non li avrei lasciati mai più.

Fu come un’ispirazione e li invitai a seguirmi e a stare con me. Loro vennero subito, non indugiarono neppure un secondo, e così facendo, mi hanno insegnato loro una cosa che io non avevo ancora imparato.

Che il momento buono per fare il bene è adesso, subito!

Iniziate dal vivere bene la giornata di oggi: fate un complimento per il pranzo buono che mangerete, mettete un po’ più di impegno del solito a fare i compiti di oggi, quando giocate inventatevi qualcosa di speciale… e andando a dormire, stasera, date un abbraccio più forte ai vostri genitori.

E anche voi scoprirete, che l’amore di Dio è vicino, vicinissimo.

Con affetto,
il vostro Gesù




Il respiro dello Spirito – Omelia di Don Davide del 31 maggio 2020

Il supplizio della croce, all’epoca dei Romani, uccideva per soffocamento, proprio come farebbe il Coronavirus, colpendo i nostri polmoni, se non fosse combattuto.

Quando ha esalato l’ultimo respiro, Gesù ha effuso il suo spirito, per fare anche di quel momento di fatica a respirare un dono. Quanto volte diciamo: “Sono così impegnato che non riesco nemmeno a respirare…”? Forse, dietro agli affanni, c’è un atto d’amore che li riscatta.

Voglio immaginare quando Gesù è tornato a respirare nel sepolcro, voglio provare a visualizzare quel primo respiro, quando i suoi polmoni si sono riempiti d’aria e il suo petto si è gonfiato e il suo corpo, come percorso da una scossa, si è trasfigurato.

Tu, Spirito Santo di Pentecoste, sei entrato dentro di lui. Tu sei il respiro, dice la parola ebraica.

In uno slancio di audacia, vorrei andare a un altro momento ancora, all’origine del cosmo e della storia, quando le particelle erano nel caos e materia e antimateria si sfidavano per il dominio e il respiro di Dio faceva le capriole come il nostro fiato d’inverno, sopra quel nulla che poteva rimanere nell’abisso.

Soffio dello Spirito

Poi c’è stato il primo respiro della Creazione. E piano piano hanno cominciato a respirare lo spazio e le stelle, il sole e i pianeti, il cielo e la terra, il mare, i fiumi, le montagne, i prati, i fiori, gli animali, l’uomo e la donna. Se ci guardiamo bene, se ascoltiamo, tutto respira.

Mi sembra che in questa Pentecoste ci sia qualcosa che ci supera immensamente. Ci siamo noi, con le sorprendenti difficoltà di questi mesi e le nostre preoccupazioni, ma poi c’è il desiderio smodato di Dio che il mondo sia investito da un respiro spirituale e che riprenda fiato, e che questa boccata d’aria pura ravvivi la nostra intelligenza, ci renda operosi nella carità e ci doni una profonda empatia con ogni essere vivente.

Tutto il contrario di quello che è accaduto nell’uccisione di George Floyd, a Minneapolis.

Quell’uomo è morto perché gli è stato premuto un ginocchio sul collo, schiacciato a terra, per 8 minuti e 53 secondi. Non è l’unica vittima innocente, ma è diventato un simbolo. Quelle immagini hanno spaventato i bimbi, indignato i ragazzi e i giovani, scatenato proteste. Quelle immagini sono la negazione di tutto ciò che è la Pentecoste. Lo Spirito fa rinsavire, ti riempie di commozione per il dolore altrui, solleva non schiaccia e, soprattutto, infrange la durezza di cuore. Non puoi fissare la sofferenza di una creatura per tanto tempo e non sentirti spezzare il cuore.

Tu, Spirito Santo di Pentecoste, sei lo Spirito che fa respirare. Sei lo Spirito della vita.

Sento che siamo testimoni di qualcosa di misterioso che accade in questa Pentecoste, e che dobbiamo imparare qualcosa.

Caro Spirito Santo, bisogna pregarti sempre, perché tu sei il vero protagonista della preghiera, ma ogni tanto ce ne dimentichiamo. Oggi, però, vorrei dirti una preghiera speciale insieme a questa comunità radunata, e ho iniziato in modo se vuoi un po’ fanciullesco, scrivendo come a un amico, come un diario:

Caro Spirito Santo…
vorrei che tu ci insegnassi a respirare: che ogni uomo e ogni donna respirino.
Io so che noi non siamo capaci di parlare ai giovani, di coinvolgerli, di accendere il loro entusiasmo e di aiutarli ad uscire all’aria aperta piuttosto che stare davanti a uno schermo… ma mi piacerebbe che potessero respirare, ben al di là delle nostre asfissie ecclesiali e delle nostre afasie.
Ti prego affinché, come chi ha raggiunto la vetta in montagna, ciascuno di noi possa respirare gli orizzonti, riconoscere il percorso fatto e nuove destinazioni, rigenerarsi, desiderare e progettare nuove vie.
Se non oso chiedere troppo, vorrei che in questo giorno di grazia, come dono della grande effusione dello Spirito sulla Chiesa, i malati riprendano a respirare e guariscano. E chi li ama gioisca.
Vorrei che anche la Terra possa tornare a respirare dall’inquinamento che le abbiamo provocato; che possano semplicemente vivere i popoli indigeni dell’Amazzonia, oppressi troppo a lungo nel disinteresse di tutti, e che l’Amazzonia stessa ricominci a respirare, invece che soffocare tra le fiamme, provocate da uomini dal respiro corto.
Infine, Amato Spirito del Signore – radunati di nuovo nelle nostre chiese come cenacoli, spaventati, sgangherati, ma pieni di speranza – come se fosse la notte di Pasqua, come se fosse il primo giorno della Creazione, fai rivivere la tua Chiesa.

Amen.




Una dei Magi – Omelia Epifania 2019

I Magi

Il mio nome è Machedà, sono una dei Magi e questa è la mia testimonianza.

Non stupitevi che sia una donna.

Il profeta Isaia lo aveva indicato: “Tutti verranno da Saba, portando oro e incenso e proclamando le glorie del Signore.” (Is 60,6). Dal mio paese, Saba, venne la grande regina che visitò il re Salomone e io porto il suo stesso nome. Tutti conoscete Cleopatra, la regina egiziana. Tra i discepoli del Maestro ci furono molte donne, Maria di Magdala è la più conosciuta… ma c’era anche Giovanna, la moglie dell’amministratore di Erode (Antipa): in quella corte ottenebrata dal male, pare che solo una donna riuscì a trovare la via della luce.

Saba corrisponde alla zona del Corno d’Africa: le regioni dell’Etiopia, dell’Eritrea, della Somalia, ma anche dello Yemen e dell’Arabia Saudita. È un grande regno, dove neppure i Romani sono arrivati e che ancora oggi è governato da una donna: Candace.

Conosco bene il racconto che ha fatto Matteo del nostro viaggio, e non c’è nulla che contrasti con il fatto che qualcuno dei Magi fosse una donna. Non eravamo nemmeno in tre, ma “alcuni”. Non ricordo nemmeno io quanti. Si dice che i Magi vennero da Oriente, e le mie regioni, infatti, sebbene molto più a sud, rispetto a Israele risultano a est.

Incontrai gli altri quasi alla fine del viaggio. Erano stupiti anche loro che una donna si unisse alla carovana, ma non fecero obiezioni. Erano uomini immensamente saggi, illuminati nel senso più vero della parola. Che ci sia qualsiasi forma di discriminazione fra l’uomo e la donna, o mancanza di rispetto, o diseguaglianza nei ruoli, è una cosa di cui – dopo averli conosciuti e sapendo che dovrebbero ispirare generazioni e culture – non mi riesco assolutamente a spiegare.

Sembrava tutto magico nei passi che muovevamo.

Arrivati a Gerusalemme, chiedemmo dell’erede al trono. Tutti ci ammonivano, con un’ombra di paura negli occhi, di non parlare di eredi al trono, che il re non lo avrebbe tollerato e ci sconsigliavano vivamente di andare da lui. Poi fummo convocati e ricevuti.

Ricordo nitidamente il primo incontro. Era un uomo di cui tutti avevano timore, che si circondava solo di persone servili. Aveva l’animo oscuro e le mani brutte. I suoi occhi erano di serpente e la sua lingua velenosa: parlava con riverenza solo dei Romani, e solo a proposito del potere. Cercò di ingannarci e noi facemmo finta di credergli, perché avevamo avuto l’informazione che cercavamo.

Usciti da quella fortezza ci sentimmo rinascere. Il cielo grondava di stelle, ciascuno di noi era ispirato da una diversa, ma tutte si addensavano in direzione di Betlemme. Era meraviglioso. Non ho mai più visto uno spettacolo così incantevole. Provai una grandissima gioia, perché il cielo diceva che anche se c’erano persone meschine e orribili come il re Erode, il mondo rimaneva carico di promesse di bene. Io, Gaspare, Baldassarre e Melchiorre e tutti gli altri, nel frattempo, eravamo diventati amici. Venivamo da mondi diversi, guardavamo il cielo e ci sentivamo fratelli e sorelle. Questo bastava.

La luce, nel frattempo, si faceva accecante. Ci condusse a una casa e dentro trovammo un bambino. Gli altri rimasero momentaneamente interdetti: eravamo abituati alle regge e lì pareva che non ci fosse alcunché di regale. Poi io notai la sua mamma e capii subito che tutto lo splendore che cercavamo era nei gesti con cui quella giovane donna si prendeva cura di lui. Oh, non era perfetta, tutt’altro! Era impacciata, inesperta e trepidante, ma era… rapita dall’amore per lui. Se penso a quando ho imparato ad amare, penso a quando li ho visti per la prima volta.

Le rivolsi un saluto e lei ricambiò, come se ci stesse aspettando. Non aveva alcuna paura. Sembrava che il suo cuore esaminasse ogni cosa e avesse percepito che eravamo lì pieni di buone intenzioni. Il padre del bimbo ci fece accomodare, in realtà ci inginocchiammo. Sembrava una scena eclatante, ma non fu così. Ci venne totalmente spontaneo. Avevamo portato dei doni: capimmo che l’oro era adatto a quel bimbo, perché non lo avrebbe mai tenuto per sé, lo avrebbe usato bene o non lo avrebbe usato affatto. Non come Erode, o come quelli che discriminano le donne! L’incenso che offrivamo agli dei ci sembrò particolarmente adatto, perché tutto attorno aleggiava qualcosa di molto più che regale, qualcosa di divino, che non ci aspettavamo. Io, timidamente, offrii anche la mirra, la più pregiata tra i profumi d’oriente.

Ricordo ciò che accadde, come se fosse ieri. Gesù stava dormendo; quando sua madre aprì la mirra, l’odore intenso del profumo lo svegliò. Aprì gli occhi, ispirò profondamente e… sorrise. In quel risveglio, abbiamo intuito una profezia della resurrezione: fu la scintilla della nostra fede. Come ha scritto Giovanni: la vita si era fatta visibile e noi la vedemmo (1Gv 1,2).

Tornando a casa decidemmo di stare alla larga da Erode e, quasi subito, ci separammo.

Avrei voluto avere i miei amici vicini quando i messaggeri portarono la notizia che Erode aveva fatto uccidere tutti i bimbi di Betlemme. Mi sembrò di soffocare e mi chiesi perché l’esistenza dovesse avere così tanti contrasti: un re orribile e un bambino adorabile; la luce e le tenebre; la vita e la morte.

Poi un giorno, uno dei miei servi egiziani, mi parlò di una famiglia di ebrei, che vivevano nascosti in Egitto. Mossi la carovana per andare a visitarli e quando verificai che erano loro mi sentii di nuovo inondare di gioia, come quando ci guidavano gli astri. Per quattro anni feci loro visita regolarmente, diventai amica di Maria, sua madre. Lei si scherniva: una regina alla mia umile corte!? Ma la regina era lei, e io la serva.

Quando ripartirono per Israele, cominciai a desiderare sempre di più di depositare il potere e imparare a servire. Candace è mia figlia. Dopo che fu abbastanza cresciuta, lasciai a lei il trono. Anche lei è diventata cristiana, più che per la mia testimonianza, grazie a un suo servo, che fu evangelizzato da Filippo, l’apostolo (At 8,26-40). A parte noi, Magi, fu il primo a portare la fede al di fuori di Israele.

Ora sono vecchia, vecchissima. So che Tommaso è andato nelle terre dei miei vecchi amici, e che Maria è a Efeso, con Giovanni. Giovanni mi ha mandato alcune pergamene con il suo scritto. Ho letto che Tommaso volle vedere Gesù risorto. Io non l’ho mai più visto, né da adulto, né da risorto. Ma so che è vivo e io morirò da sua discepola. E, finalmente, lo rivedrò.

Don Davide




Un figlio e un bambino – Omelia Natale 2018

Il dono di uscire da noi stessi

“Un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio.” (Is 9,5).

Dio si rende presente in mezzo a noi nei panni di un bambino, in modo che si compia il miracolo di spossessarci di noi stessi, perché quando nasce un figlio, o ti viene dato un bambino, è così: il tuo tempo non è più riservato, ti dedichi completamente e diventi responsabile di lui.

Ho visto mio fratello quando è nato il mio primo nipote – immaginatevi un uomo grande e grosso, fintamente burbero e che mai avrei pensato che si potesse calare in questo ruolo – tenere in braccio suo figlio come un papà navigato. Si dice che quando nasce un figlio si impara subito a fare la mamma e il papà; magari c’è qualche impaccio all’inizio, però sei subito attenta e ci tieni ad accudirlo. Spesso le giovani mamme e i giovani papà accettano i consigli, ma sono anche gelosi del loro modo di prendersi cura dei bimbi.

Sottolineo: è una cosa che in parte si impara, ma che soprattutto è frutto quasi immediato di questo evento dirompente che sconvolge la vita per sempre, da un momento all’altro. Prima si era autonomi e si faceva quel che si voleva. Dopo c’è un altro e ci sarà per sempre.

Allo stesso modo Dio vuole realizzare in noi la vita adulta, l’uscita dal nostro egoismo, l’arte di non preoccuparci più di noi stessi e quella sorta di gelosia per la cura di un altro.

Una mia amica qualche giorno fa mi scriveva che la vita riserva sempre dei momenti stupendi, ma la leggerezza, quella è riservata all’età giovanile. Anche se sembra una riflessione un po’ amara, in fondo è vera: perché quando diventi responsabile di una persona non puoi più essere tanto leggero. Ci sono una gioia e un lusso legati a una perdita: hai sempre quel pensiero fisso, sei completamente portato fuori da te stesso.

Dio ci fa questo regalo: aprire il cuore e vincere la preoccupazione costante di salvaguardarci e proteggerci.

E se sei responsabile di qualcuno, vuole dire che sei prezioso, vuol dire che hai un ruolo ben preciso nella storia del mondo, vuole dire che senza di te quella creatura sarà un pochino più sola, e quindi è quanto mai importante che tu ci sia, che te ne prenda cura.

(Sento già l’obiezione: quindi chi non ha nessuno, chi non ha figli o ruoli, o è solo vuol dire che non vale? Vuol dire che non conta nulla? Ovviamente non è così, ma vi chiedo di pazientare ancora un attimo. Per ora voglio insistere su un altro aspetto.)

Il dono di Dio non si realizza solo quando nasce un figlio, ma ogni volta che qualcuno ti viene dato, perché tu possa essere fratello e sorella, padre e madre, qualunque sia il rapporto di età.

Ricordo le prime volte che, da giovane educatore, portavamo i bimbi a campi estivi. La sera gli preparavamo la camomilla e gli leggevamo i libri della buona notte. Fino al giorno prima a fare gli spacconi fra amici e a considerare dei poveretti quelli che perdevano il sabato pomeriggio dietro a dei cinni o una settimana d’estate a fare i campi, e il giorno dopo sei lì, seduto sulle scale di una casa vecchia e fredda, a raccontare le storie.

Una volta sgridai due ragazze del primo anno del liceo perché le avevo trovate ancora sveglie a tarda notte, con la torcia accesa sotto le lenzuola. Avevano dovuto scegliere se venire alla due giorni o studiare latino: avevano deciso di venire al ritiro, e stavano traducendo una versione di latino con la torcia, sotto le coperte per non farsi beccare. Alla fine mi sono messo a fare la versione con loro.

Dopo otto giorni di un campo itinerante, l’ultima sera, all’una di notte una ragazza mi confida di essere anoressica. Tu vuoi solo andare a letto, hai gli occhi che ti si chiudono, ma capisci che in quel momento devi essere lì, ascoltarla tutto il tempo che serve.

Nei nomi che vengono dati a questo “bambino” riconosciamo che il suo potere è di rendere chiaro il discernimento, di strapparci fuori da noi stessi, di insegnarci una maternità e una paternità sempre più dilatate, che vanno in entrambe le direzioni… dal più vecchio al più giovane, ma anche, notatelo bene, dal più giovane al più vecchio. Sì, anche voi giovani siete padri e madri, fratelli e sorelle per chi ha più anni di voi!

L’ultimo nome è “Principe della pace”. Quando sei strappato fuori da te stesso si compie il grande miracolo: è questa la via per la pace del cuore. Quel frastuono di calzature di soldato che cessa improvvisamente e quei mantelli intrisi di sangue che vengono bruciati nel fuoco, sono il segno di una guerra che finisce soprattutto dentro noi stessi.

Due volontarie della Caritas mi hanno raccontato di un imprenditore che, candidamente, si dichiarava razzista. Aveva una posizione di lavoro aperta e loro sono andate a parlargli per un ragazzo africano. Non si sa bene come abbiano fatto a convincerlo e ora… guai a chi glielo tocca! Gli ha dato la promozione e pure l’aumento!

Anche Maria e Giuseppe – soprattutto loro! – hanno vissuto concretamente questo segno: un figlio dato, un bambino nato. Le luce che improvvisamente spezza le tenebre. Una gioia moltiplicata.

Adesso mi chiedo che cosa significhi questo evento anche per chi non sente di potere dire: “Ho avuto una gioia moltiplicata…”

Ho davanti il volto dei tanti amici e amiche che soffrono perché non hanno l’amore; le donne che desidererebbero essere madri e non lo sono perché non possono o perché è passato il tempo, e che non sopportano le feste in cui si parla di pannolini e pappine; ho in mente uomini afflitti perché non hanno le risorse per corrispondere ai bisogni della famiglia; penso agli stranieri rifiutati e ai poveri non aiutati; infine le persone tristi, che non hanno motivo di gioia, e quelli che vengono scartati, non appartengono ad alcuno e non hanno nessuno per cui sentirsi utili.

Deve essere Natale per tutti.

Ho davanti il volto di ciascuna di queste persone e non ho risposte.

Vedo però che in questa semplice famiglia di Betlemme non c’è alcuna manifestazione di superiorità, o rivendicazione, o pretesa di essere un modello. Tutte queste cose gliele abbiamo aggiunte noi, dopo. Vedo più che altro la potenza di accogliere la vita così come si manifesta. Sono andati via da casa, hanno fatto un viaggio non corto, mentre erano in quel luogo Maria dovette partorire. E poi la descrizione di un gesto semplice, immediato, quello che era possibile: hanno avvolto in fasce Gesù e lo hanno messo in un lettino di fortuna.

In questa scena, non c’è nessuna pretesa di dire: “Fate come noi!” e allo stesso tempo nessuna rivendicazione del tipo: “Mannaggia, che momento per partorire!”. C’è solo una potentissima consuetudine ad accogliere la vita come si manifesta. Senza ombra di paragone, né pretesa, né giudizio o condanna per chiunque altro.

È proprio questo stesso segno che viene indicato ai pastori. “Troverete un bimbo così” (Lc 2,12): in esso si esprime l’incredibile benevolenza di Gesù e basta.

Che cosa significa sperimentare la benevolenza?

Ho pensato a una notte di Natale di tantissimi anni fa, non so dire di preciso se a San Vigilio di Marebbe o a San Cassiano in Val Badia, ma ricordo perfettamente il momento. Eravamo a messa e il coro cantò Stille Nacht in una maniera incredibile. Avevano i corni e quei vocioni da alpini cresciuti con la grappa nel biberon. C’era un’atmosfera unica: le luci soffuse, i corni, la musica, il freddo. Aveva appena nevicato. Io ero ancora un bambino e non capivo niente, ma c’era la mia famiglia, ed era tutto così bello che mi sentii rassicurato.

Non a tutti, purtroppo, capita di sentirsi così profondamente rassicurati. Molti combattono tutta la vita contro una fiducia di fondo che è loro mancata, perché ne sono stati privati.

Ma Dio, con la nascita di Gesù bambino, vuole che ciascuno di noi si senta così intimamente rassicurato. Questa è la benevolenza di Dio.

Forse, allora, il primo passo per tutti è affidarsi a questa benevolenza che ci ristora, poi ci aiuta a fare altri passi. Insieme, ci vogliono fratelli e sorelle, amiche e amici, padri e madri che non facciano mancare la propria presenza. E spero che, come per Maria e Giuseppe, dopo alcuni rifiuti si potrà aprire una porta dove trovare pace.

Don Davide