Misericordiate

“Sia benedetto Dio, per la sua misericordia!” (1Pt 1,3)

Questa esclamazione della seconda lettura si intona perfettamente con il senso dei giorni di grande festa che viviamo.

È grande festa perché è la Domenica in Albis, la Domenica della Misericordia – appunto – che si celebra ancora con tutta la solennità di Pasqua.

È grande festa perché abbiamo le Prime Comunioni dei bimbi – ben 48! – e il Battesimo di quattro bimbi.

In questo periodo abbiamo celebrato abbondantemente la misericordia, sia attraverso il sacramento della Riconciliazione, sia nelle traboccanti liturgie del Triduo Santo.

Ricevendo grande conforto, ho incontrato tante persone in sincera ricerca della verità sulla propria vita e autentiche nella loro richiesta di perdono ricevuto e di riconciliazione data, anche quando quest’ultima è particolarmente difficile.

Gesù risorto, in mezzo ai suoi, consegna un mandato molto preciso: “A chi rimetterete i peccati saranno rimessi, a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi.” (Gv 20,23)

In altre parole: se non «misericordiate» voi, chi lo farà?

Se non testimoniate voi la compassione e la tenerezza di Dio, come potrà essere conosciuto?

Tutti questi bambini che fanno la Comunione e le loro famiglie, e i pupetti e le pupette che ricevono il Battesimo ci inteneriscono.

Abbiamo un compito preciso: testimoniare a loro, come chiesa e comunità parrocchiale, la bontà di Dio, la sua guida sicura, l’amore concreto di Gesù, il calore interiore dello Spirito Santo. Da questa meraviglia verranno educati.

Siamo certi che cresceranno orgogliosi e grati di essere figli e figlie di Dio.

E che questa compassionevole benevolenza della misericordia, che ricostruisce la fiducia nella vita, raggiunga ogni persona che conosciamo e si allarghi al mondo intero.

Troppi dolori e troppe atrocità, nascondono il vero volto di Dio.

Gesù risorto, che sta in mezzo a noi augurando e affidandoci pace e misericordia, vuole che tutti lo possano incontrare.

Don Davide




Com’era quel giorno?

Chissà com’era il mattino del giorno di Pasqua, nei pressi del sepolcro di Gesù, poco fuori Gerusalemme.

Mi sono sempre chiesto se c’erano dei segnali, ai quali le donne non avevano prestato attenzione, o che non erano in grado di percepire a causa del turbamento che ancora agitava il loro animo.

C’era forse un silenzio surreale – quasi meravigliato – oppure gli uccellini volavano più festosi del solito e le rondini facevano le loro evoluzioni tra il porticato del Tempio?

Le persone che si svegliarono presto percepirono qualcosa di diverso? L’aria era frizzante o lieve?

Ci fu almeno un soldato rapito da un presagio di pace o un sacerdote ammansito dalla dolcezza del pentimento?

E l’alba com’era? Rossa come il fuoco, rosa come i fori di pesco, gialla come un campo di girasoli o azzurra come lo specchio del Mare di Galilea circondato dai colli?

Infine, la pietra rotolata era luminosa od oscura? La luce entrava nel sepolcro aperto, oppure usciva da esso un bagliore più chiaro del giorno, come l’acqua dolce quando si mescola con quella salata nell’estuario di un fiume?

A queste mie curiosità non c’è risposta.

In quel misterioso tempo intermedio, una cesura è avvenuta nella storia del mondo, il sepolcro è diventato una porta d’accesso tra l’uomo e il divino, una frattura nella crosta dura dell’esistenza, attraverso la quale Dio è entrato nel tempo.

Credo che tutto annunciasse la resurrezione, pur essendo tutto perfettamente uguale agli altri giorni.

Era una vibrazione improvvisa, inattesa, come un colore fuori dallo spettro visivo, come una melodia oltre il nostro campo uditivo.

Una sorpresa, che da allora in poi chiede di essere riconosciuta attraverso la fede.

È un senso spirituale, che si aggiunge ai nostri cinque sensi e che non è solo un sesto senso, ma una facoltà che va allenata, riconoscendo le ferite che diventano feritoie, come le piaghe di Gesù, e le porte chiuse che vengono aperte, ogni volta che l’amore trova un pertugio.

Celebriamo la Pasqua con la consapevolezza di questa sorpresa, che può sempre raggiungere la nostra vita, mentre ci chiede di allenare la fiducia che ci permette di accoglierla.

Don Davide




Il privilegio di Dio

Tu sei magnifico e onnipotente, Signore. Nella tua dimora regale, seduto sul trono di gloria, come ogni sovrano, chissà quanti privilegi hai!

Eppure, sei sceso ad abitare in mezzo a noi e non hai scelto un hotel a 5 stelle, ma il retro di un’abitazione, e anche i cherubini e i serafini – che di solito popolano il tuo palazzo – non hanno disdegnato, come te, la compagnia di qualche animale: un asino, un bue – chissà – forse anche due conigli, una capretta, qualche gallina e tre pecorelle.

L’apostolo Paolo ha preso pezzi di una canzone orale del tempo e ne ha composto un inno, su questo viaggio che hai compiuto, Gesù, dall’alto al basso e poi di nuovo verso l’alto, in un livello intermedio tra la terra il cielo, quello della croce. Noi l’abbiamo un po’ ammansita questa meditazione, ma potremmo renderla così: “Pur essendo Dio, non ritenne un privilegio essere Dio, ma svuotò se stesso” (Fil 2,6-7).

Cosa si può pensare di più atroce della situazione degli uomini e donne che vengono venduti, ancora oggi, in molte parti del mondo?

La fine del tuo viaggio – di questa discesa dal trono del cielo, al pagliericcio della terra, fino al giaciglio della croce a mezz’aria – inizia proprio così: sei venduto, per farti morire. Come gli schiavi, come le vittime dei trafficanti di organi, come i giovani e inesperti soldati mandati al macello da chi ha le ville con la piscina.

Qual è dunque il privilegio di Dio?

Qual è il tuo privilegio, Gesù?

Che cosa ritieni degno, tu, dell’esistenza di Dio?

Per rispondere a questa domanda, i narratori del tuo ultimo tratto sulle nostre strade, elencano una serie di situazioni vertiginose.

Sentirsi ingiustamente motivo di scandalo, solo per essere stato testimone di un Dio libero, mite e amorevole; fare parte dei rinnegati, i dissidenti dalla loro patria, gli omosessuali dalle loro famiglie, gli inefficienti dalla società dei consumi, i malati e gli anziani lasciati soli, chi si sente cacciato e rifiutato dagli affetti più cari.

Inoltre, il privilegio che scegli per te è, Gesù, condividere la sorte di quelli che vengono bullizzati, sostituirti ai prigionieri e ai carcerati, giungere perfino ad affiancarti nel dolore di chi viene torturato.

Infine, fermare il braccio di chi usa la violenza nel nome Dio.

Tutto questo è il privilegio di cui ti fregi, proprio perché sei Dio.

Ed ora, camminare di nuovo in quello che era il Paradiso Terrestre deturpato dal peccato, senza più fare paura agli esseri umani, anzi, facendoti vicino ad ogni uomo e ogni donna soli, che soffrono in terra, in mare e in ogni luogo, per consolarli come una madre che prende in braccio il suo bambino, per alleviare il dolore, perché nessuno abbia più paura del buio e degli orchi.

Il privilegio che rivendichi, Gesù, è entrare in tutte le sofferenze e coccolarle d’amore.

Ma il privilegio di Dio è anche sedere a tavola con gli amici, benedire il pasto e i doni della terra, scoprire – meraviglia inattesa – che ci sono fratelli e sorelle sconosciuti, pronti ad asciugarti il sangue e il sudore dal volto, disposti ad aiutarti a portare la croce.

Alla fine di questa contemplazione, ti preghiamo Signore Gesù – noi che siamo guardinghi e prudenti, e magari un po’ timorosi – insegnaci ad essere “invidiosi” dei tuoi privilegi, anzi a “morire di invidia” per te, nella Settimana Santa.

Don Davide




La medicina del mondo

All’inizio del racconto evangelico di questa domenica, per cinque volte in sei versetti, si dice che Lazzaro era malato.

Lazzaro è figura del mondo, che è malato.

Se non si ridesta dal suo sonno, sprofonda nell’ombra della morte. Al contrario, Gesù lo richiama alla vita, perché si manifestino le opere di Dio.

L’opera di Dio è questa: richiamare alla vita il mondo.

Contrariamente al nostro corpo biologico che ha bisogno del riposo per guarire, il nostro corpo spirituale, per essere sanato, ha bisogno di ridestarsi.

La parola di Gesù è come un tuono in quest’ultima domenica, prima della Grande Settimana, la Settimana Santa: VOI togliete la pietra, e TU Lazzaro vieni fuori.

C’è un compito di tutti e una responsabilità personale.

LA PACE

Non bisogna mettere una pietra tombale sulla pace.

“Ma è già di quattro giorni!” dice Maria. “Questa guerra, queste guerre sono già durate così tanto! Ormai non ci si può fare più niente!” Ma proprio perché la guerra fa puzza bisogna togliere la pietra tombale sulla pace, e dare aria e sciogliere quelle bende da mummia che impediscono di percorrere la via della riconciliazione.

LA FEDE

“Se tu credi” (Gv 11,40) dice Gesù.

C’è bisogno di risvegliare la fede. Non è una cosa insensata, neppure di fronte alla morte, né impossibile.

Gesù, nella preghiera per Lazzaro ringrazia. Questo ringraziamento permette a Maria di “vedere le grandi opere di Dio”. Tu incomincia a ringraziare e scoprirai che la tua fede si risveglierà.

LE LACRIME

C’è troppa sofferenza nel mondo. Ci sono le atrocità, ma anche tanto dolore nascosto, calvari e croci che si ripetono sfrontatamente, per esempio la morte di un amico, un fratello. Anche Gesù piange. Le sue lacrime sono sorprendenti in questa situazione, in cui ha appena dichiarato di essere lì per la vita di Lazzaro, nonostante ciò si commuove nell’intimo.

Lasciamoci commuovere. Non abbiamo paura di essere sensibili.

Le lacrime somigliano tanto a quel lavacro di rigenerazione che è il Battesimo e preparano la Pasqua.

 

Così, il vangelo di Lazzaro è come il terzo tempo di una grande sinfonia in quattro movimenti. La samaritana (Gv 4), il cieco nato (Gv 9), Lazzaro (Gv 11) e la Settimana Santa.

La Settimana Santa è la grande medicina del mondo.

Essa ci offre l’ulivo della pace, la tenerezza dei gesti nella Cena di Gesù, la commozione di fronte alla sua morte, la fede che si accende nella notte della morte.

Allora potremo cantare con vera consapevolezza, nella notte di Pasqua: “Mandi il tuo Spirito Signore, e guarisci tutta la terra”.

Don Davide




Il cieco e noi

Quando nasciamo, abbiamo gli occhi chiusi, accecati dalla luce di un mondo nuovo. Qualche tempo dopo cominciamo a guardare, con quell’espressione buffa tipica dei neonati che spalancano gli occhi e li richiudono, e poi iniziano a osservare chissà cosa e chissà dove, fino a che rivolgiamo alla mamma un sorriso, rapiti da quell’amore primordiale.

La cecità nel vangelo di oggi, non è né una condizione fisica, né una condizione morale, ma uno spazio vuoto, dove si possano rivelare le meraviglie di Dio. È la “terra informe e deserta, e l’abisso tenebroso” del mondo prima della Creazione (Gn 1,2). È l’essere umano prima che venisse posto in lui “un alito di vita” (cf. Gn 2,7). Siamo noi, prima della Creazione nuova del nostro Battesimo.

È come se Gesù dicesse: “Sia la luce!” (Gn 1,3), ma anche: “Ricevi il Battesimo!”, perché “lo Spirito di Dio aleggia sulle acque” (cf. Gn 1,3).

Il cieco guarito testimonia un fatto. “Una cosa so: prima ero cieco e ora ci vedo” (Gv 9,25).

Come con la donna samaritana, quando Gesù le dice: “Sono io che ti parlo” (Gv 4,26), anche questo incontro progressivamente raggiunge un apice di consapevolezza: “Lo hai visto: è colui che parla con te!” (Gv 9,37).

Allo stesso modo di una mamma che parla alla sua bambina e l’accarezza, finché non apre gli occhi e la riconosce, così Dio, attraverso Gesù, parla alla nostra vita e ci accarezza, finché non apriamo gli occhi e lo riconosciamo.

Una prima volta è accaduto, quando i nostri genitori hanno scelto per noi il Battesimo (oppure lo abbiamo chiesto noi stessi).

Allora siamo stati immersi in un bagno di amore gratuito, che nulla chiede, ma testimonia solo l’affetto preveniente e incondizionato di Dio e di chi ci ama.

Ogni volta che ritorniamo a quella sorgente, come la piscina di Siloe, i nostri occhi si aprono e noi veniamo ricreati.

Ci sentiamo nuovi.

Possiamo testimoniare le grandi opere di Dio che si sono manifestate.

Se ci abituiamo a riconoscerle, anche in mezzo alle tempeste più nere, ne possiamo scorgere tante.

Ciechi alla nascita, vediamo nella vita.

Don Davide




Omelia domenica 12 marzo 2023

LA SAMARITANA

Dunque, anche tu sei stanco, Gesù.

Ci sentiamo rincuorati, noi che quando siamo affaticati per il viaggio, rischiamo sempre di sentirci in difetto, perché ci viene il dubbio di condurre male la nostra vita e l’anelito ad essere perfetti è la tentazione più insidiosa.

È insidiosa perché ci schiaccia, o al contrario, perché rifiutiamo il nostro impegno e sprechiamo i doni che abbiamo, o ci lasciamo andare e ci buttiamo via.

È una sete che conosciamo bene, quando nell’ora più calda della vita siamo spossati, quando il viaggio troppo lungo comincia a privarci delle nostre forze, della lucidità nel pensiero e della fluidità dei movimenti. Si vorrebbe avere un pozzo, presso cui sostare, ma spesso in quei casi, prevale la solitudine.

È una sete che conosciamo bene quando riceviamo il dono dell’empatia, così che le guerre non sono più lontane, la morte per naufragio non è più solo “degli altri”, e i problemi economici diventano anche nostri.

È una sete che conosciamo bene anche per cose meno drammatiche, ma che hanno spessore per chi le vive, come la scuola quando si fa troppo pesante per i ragazzi, come di fronte all’ultimo esame di un lungo ciclo di studi, come la delusione per quel traguardo che non abbiamo raggiunto.

Perciò, siccome la conosciamo bene anche noi questa sete, vogliamo darti da bere Gesù.

Desidero confortarti con la mia presenza accanto a te, ti vorrei consolare. Mi prendo cura di te, Signore Gesù.

Ti prego, ti adoro, ti faccio compagnia, ti dico che ti voglio bene, ti servo nei miei fratelli e sorelle, voglio collaborare al tuo regno. Essere una sorgente di Spirito come una fonte d’acqua.

Ma…

…qualcosa non mi torna.

Tu mi hai chiesto da bere, e ora dici che mi disseti?!

Come fai a dissetarmi, Gesù?!

Come raggiungi il mio bisogno profondo, il desiderio dei giovani e quello di chi ha bisogno di te?

Come si fa a non avere più la sete che è arsura, e invece a risvegliare la sete bella che è voglia di vivere, di amare e di servire?

Come si fa a vincere quell’istinto di placare la sete con amori maldestri, con relazioni tossiche e gettandoci in braccio agli idoli, che non hanno il potere di saziare anelito alcuno?

Come si fa a non avere più sete mai?

Voglio quest’acqua!

Rivelati a me, Signore Gesù.

Parlami.

Accedi alla mia vita.

Ho grande desiderio di incontrarti.

Mi parli!

Fai verità, dici.

Pronuncia il vero sulla tua vita: cosa stai vivendo, cosa provi, qual è il motivo reale, cosa desideri?

Cosa ti fa male? Chiamalo per nome.

Cosa ti fa bene? Chiedimelo.

Permetti alla verità di aprire il tuo Spirito, e lascia entrare per quella porta l’amore.

È difficile credere, Signore!

È difficile; non è il caso di nasconderselo.

Ma io, il Salvatore che mi rivelo a te, ho già piantato da lungo tempo un seme che sta portando frutto. L’ho fatto ogni volta che hai sperimentato l’amore.

E anche se tu dormi o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Sono io che irrigo il terreno. Accetta la mia acqua e tu produrrai spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il frutto pieno nella spiga.

Guarda! È già il tempo della mietitura.

Don Davide




Sete di acqua buona

Il ciclo liturgico dell’Anno A, quello in cui durante l’anno si legge il Vangelo di Matteo, ha la caratteristica che dalla terza domenica di Quaresima si ascoltano i lunghi racconti della Samaritana (Gv 4), del Cieco Nato (Gv 9) e di Lazzaro (Gv 11), che accompagnano l’ultima preparazione ai Sacramenti dell’Iniziazione Cristiana degli adulti.

L’icona biblica di Marta e Maria (Lc 10,38-42) ha abbondantemente accompagnato la riflessione della Chiesa italiana in questo anno.

In occasione della Pasqua, centro dell’anno liturgico e sorgente di ogni scelta pastorale, possiamo rileggere il testo di Marta e Maria in filigrana ai racconti quaresimali.

Quando arrivano ospiti a casa, prima di tutto si chiede loro se vogliono qualcosa da bere, oppure si fa un bell’aperitivo. È un’attenzione al bisogno più immediato, la sete, oppure il desiderio di fare stare bene le persone accolte fin dall’inizio con qualcosa di buono, magari delle bollicine prelibate.

Come la sollecitudine di Marta nell’accogliere Gesù, e come fa Gesù stesso, che svela la sete della Samaritana.

Dopo bisogna stare attenti a non perdere di vista i nostri ospiti. Spesso, per fare bella figura, ci si arrabatta in cucina e in mille servizi, godendosi poco la compagnia degli amici.

Gesù che ridona la vista al cieco è lo stesso che nella casa di Marta e Maria insegna a non perdere di vista l’essenziale.

Infine, quando abbiamo ospiti a casa, non è la cena succulenta o la perfetta osservanza del galateo a farci sperimentare un senso di pienezza e di gioia, ma la presenza degli amici, la mutua e affettuosa vicinanza gli uni degli altri.

Nella scena di Lazzaro, incontriamo lo stesso Gesù che dice qual è la parte migliore, quella che dà la vita.

Iniziamo dalla sete di cose buone, che è una sete vera, molto concreta anche per i nostri giorni. Se pensiamo a questo itinerario, sentiamo ancora più lacerante il dramma del naufragio a Cutro e di tutti i naufragi. Ci sono persone che hanno sete, e non dobbiamo perdere di vista l’essenziale, che è sempre salvare la vita.

Non c’è una parte migliore, nel mondo, che quella di sconfiggere le guerre, di invertire completamente questa cultura del nemico, dell’impossibilità di vivere insieme, che dà la morte, invece che la vita.

Abbiamo sete di cose buone per le ragazze e ragazzi, per la loro formazione, per l’amore nelle famiglie e tra le persone, per chi si sente discriminato, solo ed escluso.

Tutto questo ci chiede di fare maturare il Battesimo come un frutto d’estate. La Quaresima è il variegato cammino, attraverso il quale possiamo dare vigore a questo processo di maturazione.

Facciamo ogni sforzo per ospitare Gesù, eppure siamo ospitati da lui.

Vorremmo dissetarlo con il nostro amore, ma siamo noi che ci dissetiamo con i suoi sacramenti.

Teniamo gli occhi fissi su di lui e ogni volta lui ci mostra come vederlo e scoprirlo di nuovo.

Infine, desideriamo vivere e vivere bene, attingendo al suo amore l’energia per questa vita.

Quest’anno, avremo il Battesimo di due bimbe e un bimbo durante la Veglia di Pasqua. È un’occasione speciale.

Possiamo riscoprire il nostro Battesimo, cioè la bellezza della nostra vita cristiana.

Don Davide




Verso la vetta, prima dell’alba

“In quei giorni il Signore disse ad Abram: Vattene dalla tua terra, verso la terra che io ti indicherò.” (Gn 12,1)

Vattene! Sembra una minaccia, ma non è così.

Porta te stesso verso un luogo promesso, pieno di speranza; da un terra umana, a una terra indicata da Dio.

Inizia un cammino, segui un percorso, fidati di Dio e diventerai una benedizione.

Accogliere le occasioni di Dio e metterci in cammino, significa salire in un’intimità speciale con Gesù sul nostro personale monte della trasfigurazione.

È come salire la vetta di una montagna quando è ancora buio, e giunti in cima, anticipare l’alba.

Non sempre gli altri capiscono cosa ci stia succedendo durante il tragitto e, dopo, cosa abbiamo vissuto. Siamo stati per qualche tempo “in disparte” con Gesù e il riflesso della sua luce ha segnato la nostra pelle, è rimasto sul nostro viso, nei nostri occhi.

Che cosa ci è accaduto? È difficilissimo descriverlo.

Abbiamo visto Gesù luminoso e questo ha cambiato il nostro modo di guardare le cose.

Lo sintetizziamo con due parole: l’ascolto e l’amore.

È un’esperienza che facciamo tutte le volte che diciamo un “sì” sapendo – magari non perfettamente, magari solo intuendolo – che è un sì detto a Dio. È l’intimità che viviamo quando ci fermiamo ad adorare l’Eucaristia, in silenzio, o con la nostra comunità. È quello che ci accade quando ci dedichiamo a un servizio.

“Gesù ha vinto la morte e ha fatto risplendere la vita e l’incorruttibilità per mezzo del Vangelo.” (2Tm 1,10).

Contemplo un mondo trasfigurato, che è presente e minacciato allo stesso tempo; che ancora non c’è, ma ci sarà, non appena qualcuno avrà un sentimento d’amore per il Vangelo.

Vedo giovani uomini e giovani donne uscire dalla spirale infernale della guerra e incamminarsi verso la pace. I potenti si domanderanno sbigottiti: cos’è questa processione di persone pacifiche, laddove le abbiamo educate alle armi, all’odio e alla deterrenza militare?

Contemplo un creato purificato e custodito, e tutti noi che – faticosamente e con l’impaccio dei principianti – impariamo a rispettare le piante, gli animali, l’aria, i fiumi, i mari, i boschi, il suolo, i campi.

Gusto il giorno in cui si dilaterà il Magnificat.

Gli umili saranno innalzati, e non ci sarà più uomo e donna, ragazzo e ragazza, bambino e bambina, umiliati, sfruttati e offesi.

La luce è grande, abbacinante. Non riesco a fissarla oltre, ma so che c’è molto di più.

Incamminati verso la trasfigurazione abbiamo come un assaggio, che tu Signore, nella Pasqua mandi il tuo Spirito a rinnovare la Terra.

Sto un po’ con Gesù, in disparte, perché voglio essere protagonista di questa illuminazione del mondo.

Don Davide




Fare i conti con il peccato

La prima domenica di Quaresima, con grande schiettezza, ci invita a fare i conti con il peccato, manifestando la serietà di questo scontro e la rovina che porta alla vita degli esseri umani, quando sottovalutiamo questa battaglia.

Uno dei punti critici delle nostre società e del nostro tempo è proprio sminuire il valore morale delle nostre azioni.

Invece, è molto interessante e istruttivo cogliere dapprima la dinamica delle tentazioni e poi la posta in gioco che questo episodio della vita di Gesù mette sul piatto.

L’antagonista di Gesù si manifesta in primo luogo come “tentatore”, non ancora con le sembianze reali del male. Gesù ha digiunato tanto, ha fame, che male c’è se trasformasse una pietra in un pane? Non ruberebbe cibo a nessuno e non fa certo problema una pietra in meno nel sassoso deserto di Giuda!

Gesù svela quello che è nascosto, l’insidia più profonda, ossia quella di sapere relativizzare anche gli istinti primari.

Elie Wiesel, nel suo celebre e terribile romanzo La notte, racconta di una situazione nel campo di concentramento di Auschwitz, in cui un uomo stava morendo di fame, ma era finita la razione di cibo. L’autore descrive con memoria atroce e struggente la sua lotta interiore per cedere la sua porzione di cibo, perché anche lui stava agonizzando dalla fame, e la consapevolezza che in quella difficoltà era in gioco la sua stessa umanità. Alla fine, se ci pensiamo bene, sono molte le situazioni, magari anche meno drammatiche e gravi, dove possiamo e dobbiamo chiederci come fare a restare umani. Basti pensare alla rabbia che ci prende, quando subiamo un torto e subito ci pare che questo legittimi qualunque reazione.

A questo punto, il tentatore che si era presentato con la parvenza di una qualche ragionevolezza, si palesa come il diavolo.

È il nemico, ed è reale, e allo stesso tempo cerca di mascherarsi.

La proposta che fa a Gesù è quella di credere che l’uomo non abbia limiti, che possa fare quello che vuole, che non dovrà mai sperimentare il male, il dolore, la sofferenza e, in definitiva, che sia immortale. Per la seconda volta dice: “Sei il Figlio di Dio, lo puoi fare”, ma Gesù smaschera l’inganno. Persino il Figlio di Dio affronterà i limiti della vita umana, le preoccupazioni, la sofferenza e la morte. Diabolico è pensare che queste cose non entreranno mai nella vita degli uomini e che, quando accadono, siano una negazione di Dio. Invece, sono l’opera dell’avversario.

Infine, lui – il diavolo – gioca il suo asso e sottopone Gesù al miraggio del potere.

Nonostante le altre due siano fortissime, il potere viene descritto come l’apice di tutte le tentazioni, e come quella che cancella l’essere figli di Dio.

Nelle prime due, infatti, il diavolo dice: “Se tu sei il Figlio di Dio”, l’ultima è proprio tutto il contrario. Avere il potere assoluto ed esercitarlo come tale, significa rinunciare ad essere il Figlio di Dio, che non è venuto per essere servito, ma per servire.

Ci fa capire quanto grande sia questa seduzione, se ci viene raccontata come una prova a cui è stato sottoposto persino Gesù, il quale ci insegna che il miglior argine contro questa rovina dell’uomo è non prestare la propria vita al dio degli idoli, ma al Signore che libera.

Un incredibile densità in un piccolo testo, per avvedersi che la Quaresima è un tempo bellissimo e di autentica grazia evangelica… ma molto serio.

Don Davide




L’allenamento abbia inizio

In questa domenica che precede l’inizio della Quaresima, ascoltiamo il mandato di Dio a Mosé:

“Parla a tutta la comunità, dicendo loro: Siate santi, come io sono santo.” (Lv 19,17).

La santità viene declinata da Gesù in un amore che va oltre i confini della logica, della giustizia compensativa e persino del buon senso, e per questo diventa un atto di suprema libertà.

Essere liberi di amare, questa è la santità.

L’itinerario quaresimale, che inizia il Mercoledì delle Ceneri, è un allenamento intensivo per raggiungere questo obiettivo. I propositi che vorremo fare, i fioretti e una maggiore attenzione alla preghiera saranno autentici, se avranno come scopo di aiutarci a raggiungere questa libertà interiore e di orientarla al bene.

Caratteristica del Mercoledì delle Ceneri è una grande convocazione.

Il profeta Gioele, nel testo molto suggestivo che viene proclamato nella liturgia, invita tutti a un’adunanza solenne, proprio tutti: ragazzi, giovani, adulti anziani e persino lattanti, e deve essere proprio così.

I bambini del catechismo e anche i gruppi dell’Azione Cattolica dei ragazzi, infatti, hanno proprio questo motto: “Ragazzi, che squadra!”, che richiama il senso di un’impresa comunitaria.

Qualcuno si stupisce quando arriva una giovane mamma con in braccio un bimbo o una bimba piccolissima, che il ministro imponga anche su di loro la cenere, perché sembra che faccia paura e che stoni con una giovane vita che ha tutta l’esistenza davanti; invece, è l’indice che tutti dobbiamo essere rinnovati dall’amore del Signore che tocchiamo concretamente, in questi giorni.

Per questo, il Mercoledì delle Ceneri, facciamo ben tre celebrazioni, la messa alle 8 e alle 19 e la celebrazione per i bimbi alle 17.30, perché tutti abbiano la possibilità di partecipare, nessuno escluso.

Porte aperte, dunque, alla gara dell’amore. L’allenamento abbia inizio.

Don Davide