Vertigine

“Pur essendo nella condizione di Dio
[…] svuotò se stesso,
[…] umiliò se stesso
fino a una morte di croce…” (Fil 2, 6-9).

Impressiona questo antico inno ripreso da San Paolo, perché sembra di essere in una cengia di montagna e guardare giù nel burrone.

Così è il Dio di Gesù Cristo.

Ancora più vertiginosa è la considerazione che l’apostolo collega questo testo – precedentemente tramandato oralmente – non alla pagina principale della sua teologia più complessa, ma in un ambito di riflessioni affabili e di indicazioni quotidiane sui rapporti personali nella vita comunitaria.

In altre parole, sono le relazioni più quotidiane e concrete che ci portano sul bordo vertiginoso del Vangelo.

Vertiginosa è anche l’affermazione di Gesù: “I pubblicani e le prostitute vi passano davanti nel regno di Dio” (Mt 28,30). Il Maestro la dice in faccia ai sacerdoti e ai capi del popolo, dopo avere fatto un esempio del tutto comprensibile. Per tornare alla metafora precedente, è come se Gesù avesse accompagnato i suoi interlocutori attraverso un bel prato verde di montagna, scosceso, e poi svoltata la curva improvvisamente li avesse lasciati lì sopra una cengia degna dell’uscita dalla via ferrata Tommaselli sul Lagazuoi e avesse detto loro:

“Sperimentate l’abisso. Ma contemplate anche la vastità e la bellezza. Questo è il Vangelo di cui io sono profeta.”

Ma perché è così?

Perché proprio queste persone così compromesse ci sorpassano come una Formula 1 sul rettilineo, mentre noi, attoniti, guidiamo la nostra Panda?

Perché costoro sono sempre a contatto, volenti o nolenti, con l’amore spregiudicato e misericordioso di Dio.

Egli, pur essendo nella condizione divina, non considera nessuno indegno di sé, e si abbassa lui, salta nel vuoto pur di offrirgli vicinanza, consolazione, riscatto, condivisione, tenerezza, perdono e salvezza.

Questo fa la differenza. Dovremmo essere sempre consapevoli della bontà misericordiosa del Padre, che si manifesta in Gesù. Sempre sentire il suo amore. Sempre sapere che ci vuole bene e che apre per noi qualche possibilità. Mai pensare che ha chiuso con noi, o che ci considera distanti: lui addirittura scende dal Cielo e raggiunge il punto più basso della terra pur di trovarci e di stare vicino a noi.

Gesù conclude il suo insegnamento dicendo: “Avete viso queste cose, ma poi non vi siete nemmeno pentiti, così da credergli” (Mt 21,32).

Voglio trasformare quest’ultima considerazione in una preghiera per l’inizio dell’anno pastorale.

Per tutti i gruppi, per le persone che collaborano nella nostra comunità e per quelle che la incontreranno, anche attraverso di noi: che il Signore ci purifichi gli occhi, perché possiamo toccare con mano questo riconoscimento incondizionato e trasformante del Padre, che ci ama e del suo Figlio che ci si fa vicino. Sempre.

Don Davide




Chiamaci, Signore…

Chiamaci sempre, Signore, a lavorare nella tua vigna.

Chiamaci nell’aurora dei nostri entusiasmi: che possano rispondere all’alba dei bisogni.

Chiamaci quando il sole mattutino comincia la sua corsa più raggiante nel cielo. C’è tanto da fare, nessuno si tiri indietro e la vendemmia abbondante procuri una gioia più grande.

Chiamaci ancora, anche se possiamo esserci solo a mezzo servizio, nel mezzogiorno del nostro tempo. Darti quel che possiamo, partecipare di questo invito, ne varrà sempre la pena.

Chiamaci e richiamaci di nuovo, Signore, sempre, anche all’ultimo istante. Ogni persona anela ad essere considerata, valorizzata, stimata. Fa’ che possiamo imparare da te come si fa, tu che sei abituato a darci un esempio, perché come hai fatto tu, possiamo fare anche noi con gli altri: gli amati, i poveri, i piccoli.

Proprio in questo inizio dell’anno, riconosciamo che non c’è tesoro più bello:

essere chiamati a lavorare per te, Signore Gesù, quando risuona la tua parola in nostro favore.

Così, potremo sperimentare con i profeti che hai disegni più grandi, in serbo per noi, di quanto noi stessi possiamo immaginare; e forse un giorno potremo dire come gli apostoli: “Per me vivere è Cristo… non c’è altro guadagno, e altro non potrei mai desiderare.”

Da ultimo ti supplichiamo, Signore: insegnaci a lavorare nella tua vigna, senza invidie, rivendicazioni e fatiche. Tutto sia raccolto nel fatto di avere risposto a una chiamata che tu hai rivolta a ciascuno di noi, e di vedere tanti amici e amiche che fanno lo stesso lavoro sotto lo stesso fresco sole, con l’unico fine di edificare il Regno di Dio e si spandere l’amore.

E ci sia dato, un giorno, dopo avere lavorato nella tua vigna, di riposarci in quell’altra, dove non ci sarà più la morte. Amen.

Don Davide




Quando le tue parole…

“Rancore e ira sono cose orribili, e il peccatore le porta dentro.” (Sir 27,33)

Questa massima sapienziale – che apre la liturgia della parola di questa domenica – non è solo frutto di una rivelazione religiosa; ogni persona desiderosa di bene, infatti, potrebbe condividerla. Tuttavia ha un gusto buono, il sapore di cose desiderabili.

È stato immergendomi in questi desideri che, molto più di vent’anni fa, cioè molto prima della mia Ordinazione Presbiterale, sono stato attratto dalla Parola di Dio, dall’Antico Testamento, poi dal Vangelo e infine ho incontrato le lettere di San Paolo.

È stato il Signore che si è fatto incontrare e in quest’esperienza, che solo dopo ho imparato a definire “spirituale”; ho riconosciuto una bontà che valeva la pena ricercare, un bellezza positiva e appagante, proprio come testimonia il profeta Geremia: “Quando le tue parole mi vennero incontro, le divorai con avidità. La tua parola era la gioia e la letizia del mio cuore.” (Ger 15,16)

Da allora rimango stupito tutte le volte che trovo nella Sacra Scrittura parole incoraggianti e che mi motivano al bene, spesso semplici, ma che vanno dritte al punto, come ad esempio: “Ricordati della fine e smetti di odiare.” (Sir 28,8).

Non sentite che un mondo di bene si spalanca non appena il suono di questa frase giunge ai nostri orecchi?

Oggi, celebrando e festeggiando con voi il ventesimo anniversario della mia Ordinazione, condivido meravigliato lo stupore e la gratitudine per questa dimensione spirituale che si schiude ogni volta, che dilata lo spirito, mi fa amare la vita e mi educa ad amare le persone che incontro.

“Nessuno di noi vive per se stesso e nessuno muore per se stesso” (Rm 14,7) scrive San Paolo nella seconda lettura. Ascolto questa affermazione, carica di teologia, e in realtà sono rincuorato dalla sua dimensione più elementare e dal suo significato più immediato: non siamo soli, vale la pena custodire la compagnia che il Signore ci dona ed essere compagni a nostra volta.

In altre parole: è bello vivere con qualcuno e per qualcuno.

Infine, il perdono: “Fino a settanta volte sette” (Mt 18,21). Grazie, Signore, perché ci apri orizzonti di cielo, vasti e pieni di ispirazione, come il Lago di Galilea che abbiamo contemplato da poco.

È per parole come queste che io credo.

È per la missione di riconciliare e fare sentire amati che vivo il ministero.

Cos’altro potrebbe conquistarmi? Le parole di guerra o di potere?! Nel tuo ardire di perdonare, invece, ammiro possibilità inedite, sentieri di pace per il cuore e per le nazioni, percorsi difficili – nei quali anch’io sono solo un principiante – che possono rinnovare il mondo e, finalmente, notizie buone.

Sono prete perché ho intuito che era il mio modo specifico di accogliere e condividere questa scoperta che mi dilatava il cuore. Lo sono da vent’anni per grazia di Dio e con l’aiuto e la pazienza di moltissime persone care.

Ringrazio te, Signore, e ognuna di queste persone con cui ho condiviso e concretizzato almeno una sillaba delle tue parole.

Don Davide




Ciao Don Vale

“Ciao don Vale” è la frase che ho ripetuto di più in questi ultimi giorni, quando sono andato a salutarlo al Maggiore prima di partire, quando l’ho visto in camera mortuaria, quando lo abbiamo benedetto prima della chiusura della bara, al termine del funerale, dopo l’ultima preghiera e infine al cimitero.

Non avremmo davvero voluto riprendere la nostra newsletter così,  con la notizia della morte del “Don”, tuttavia nella sua esistenza splende fulgida la luce della resurrezione, così anche noi siamo invitati a credere e a non dirgli “addio” se non senso letterale del termine “a Dio” – ossia: ci rincontreremo da lui e in lui – oppure semplicemente: “Ciao don Vale, ci rivedremo presto. Grazie per l’uomo e il prete che sei stato, e per tutto quello che hai fatto per noi”.

Non possiamo non ammirare, grati, sorpresi e perfino pieni quel “santo timore” che è il principio della sapienza (Cf. Pr 1,7), la provvidenza di Dio Padre, che lieve ci ha aiutato a vivere questo saluto. Don Valeriano è stato ricoverato qualche giorno prima che partissimo con un nutrito gruppo della parrocchia per la Terra Santa. Nei giorni del pellegrinaggio, tante persone della parrocchia lo hanno accudito deliziosamente, in ospedale, mentre i pellegrini lo ricordavano nelle preghiere comuni o in quelle personali, come se lo Spirito Santo ci aiutasse tutti a rifondare la nostra fede nella resurrezione, proprio a partire dai luoghi più santi della vita di Gesù, dove tutto è incominciato, dove tutto è avvenuto.

Così, quando la notizia ci ha raggiunti improvvisa, ecco che è suonata come un’ultima raccomandazione di don Valeriano: di guardare a Gesù, e di gettare l’ancora al cielo, come se il Santo Sepolcro fosse una barca che solca la superficie del Paradiso e ci venisse chiesto – appunto – di radicarci lassù, nella solida speranza della resurrezione.

Ripartiamo da qui, dunque: dal compimento della vita di un prete amato da moltissimi, grandi e piccini, giovani e adulti, come ha dimostrato la partecipazione al suo funerale, che ci ammonisce, con quel suo fare burbero e affettuoso che solo lui sapeva coniugare insieme, e con quella nota di dialetto bolognese che qui è impossibile rendere, di dire di sì a Gesù e di seguirlo senza paura.

Don Davide




Riposo

“Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi…” (Mt 11,28) e farete vacanza!

Il vangelo non dice proprio così, ma per due volte Gesù afferma che troveremo ristoro.

Andare da Gesù come fare vacanza.

Oppure, fare vacanza e approfittare di un tempo disteso per stare un po’ con Gesù.

Facciamo sempre l’esperienza della fretta, di non avere tempo, di non poterci ritagliare un momento di pace. L’occasione delle ferie estive può riservare almeno una porzione del nostro tempo per questo. Non serve immaginare grandi cose o darsi dei nuovi impegni anche quando ci si dovrebbe riposare. Gesù dice: “Imparate da me che sono mite e umile di cuore” (Mt 11,29) e subito prima ha proclamato “beati i piccoli” (Mt 11,25).

Penso, allora a tre atteggiamenti per questo tempo.

Il primo: godere delle cose semplici, soprattutto degli affetti più vicini. Magari abbiamo in programma il viaggio della vita, l’avventura nelle isole esotiche, ma ciò che farà la differenza sarà sempre la compagnia affettuosa dei nostri compagni di viaggio e la capacità di apprezzare anche le cose più piccole. Oppure sedersi in un prato e gustare la magia di sapere che esistiamo e viviamo, all’ombra dell’amore di Dio.

Il secondo: consegnare i pesi a Gesù, che lui li sa portare e rendere leggeri. Entrare in una chiesina di montagna, fermarci davanti a un’edicola della Madonna, visitare un piccolo santuario sconosciuto, e lì sedersi un attimo e dire: “Gesù, Maria, vi affido questa mia preoccupazione, queste persone, questa fatica…”, magari accendere una candela, sentire il calore che si diffonde nell’anima e poi ripartire, rasserenati da questo aver sfiorato il lembo del mantello di Gesù.

Il terzo: ringraziare i giovani. Facilmente ci si lamenta di loro; spesso la loro esuberanza li porta alla ribalta nel bene e talvolta anche nel male. Qualche volta, mentre tu cerchi la quiete loro schiamazzano. E sia. Non mi stancavo di guardarli, all’Estate Ragazzi, scherzosi, gradassi, allegri, disponibili e tenerissimi con i bimbi. Un cocktail che fa esplodere in un grande ringraziamento anche Gesù: “Ti rendo lode Padre!” (Mt 11,25). L’evangelista non dice: “per i giovani”, non era neanche una categoria usata, a quel tempo, ma il vangelo va sempre attualizzato, e oggi ci sentiamo di tradurlo così: “Ti ringraziamo, Padre, per i ragazzi e i giovani. Siamo stati tutti giovani. Fa’ che si sentano stimati e accompagnati, non troppo custoditi, non troppo abbandonati, liberi di esprimersi e di portare nel mondo le forze buone che lo rinnovano”.

Don Davide




Dentro il cuore di Gesù

Il Signore ci ha fatto una grazia speciale lasciandoci salutare per un anno la Chiesa di S. Maria della Carità celebrando la solennità del Sacro Cuore di Gesù.

Non contano infatti le mura di pietra, anche se ci siamo legati, anche se sono prestigiose, anche se sono piene di arte e di splendore: quello che conta è essere dentro il cuore di Gesù.

Il cuore di Gesù è la nostra cattedrale.

È una comunità tutta raccolta nel suo amore che testimonia il Vangelo e – spingendoci a cambiare luogo celebrativo e rompendo le abitudini – ci aiuta a rinnovarci e ad essere ancora più aperti alle novità di Dio che ce lo dona.

Il primo segno della provvidenza è la Chiesa di S. Valentino, che è deliziosa.

È solo più piccola di quella della Carità, ma per il tempo estivo andrà più che bene.

In ogni caso, ho pensato a lungo, in questi giorni, alle parole di Gesù rivolte alla Samaritana: “Né su questo monte, né in Gerusalemme adorerete Dio. Adorerete Dio in Spirito e Verità” (Gv 4,21.24).

Lo Spirito ci dà un’indicazione molto precisa in questa domenica. Gesù vede le folle ed è preoccupato che possano ricevere l’annuncio del Vangelo. Costituisce quindi una comunità, inizialmente piccola, fatta del numero dei Dodici, ma poi destinata a crescere a vari livelli.

Dobbiamo, quindi, solo preoccuparci di essere una comunità ancora più unita, partecipe e accogliente.

Si tratta di cogliere questo evento così raro qual è il restauro di una chiesa importante e il trasloco della celebrazione, come uno stimolo per rimetterci in gioco umilmente e provando ad ascoltare cosa il Signore ci vorrà dire.

Perché il mondo, la chiesa e tutti noi abbiamo bisogno di essere guariti dalle ferite del male e purificati dagli sfregi dell’egoismo e di quelle forze negative che rovinano la vita delle persone; in una parola, abbiamo bisogno di sentire la vicinanza di Dio.

E non importa da quale campanile si parta, ma che si cominci dal cuore di Gesù e dalla sua missione.

Don Davide




Il Corpus Domini e l’Estate Ragazzi

Ho cominciato ad andare a messa molto presto nella mia vita, a 14/15 anni circa. Non parlo della messa festiva, ma di quella feriale. Andavo in parrocchia o, alcune volte, per alcuni incastri di orari, nella chiesa di S. Maria Goretti vicino al Fermi, prima di entrare a scuola.

Non ero un mistico, o un marziano e neppure “bravo”; furono una serie di fortunati eventi a farmi prendere questa buona abitudine, che mi ha completamente cambiato la vita. Non saprei dire perché, ma so precisamente che cosa ha mosso tale cambiamento.

È stato l’incontro con il Corpo e il Sangue del Signore Gesù.

Durante gli studi di teologia lessi una frase di Sant’Ignazio di Antiochia, uno dei primi padri della Chiesa: “Questo calice è la carità di Cristo”.

Questa affermazione mi svelò che cosa avevo nel cuore: il desiderio di volere bene – che ora riconosco come la scelta fondamentale nella vita – e la scoperta che potevo farlo imparando da Gesù.

Ero sicuro di potere prendere ispirazione da lui e allo stesso tempo che non avrebbe condizionato la mia libertà, anzi che mi avrebbe reso più me di me stesso.

Per domenica prossima 11 giugno abbiamo invitato alla messa delle 10 gli animatori dell’Estate Ragazzi.

Sono particolarmente contento che sia la domenica del “Corpus Domini” (anche se detta così ha reminiscenze da compito di Latino, che appena finita la scuola potrebbero essere un deterrente…) perché spero che anche per loro possa essere un nuovo incontro con Gesù e che possano essere aiutati a trovare il sé più vero di loro stessi.

In realtà, non ho proprio idea di quanti animatori e animatrici verranno, perché d’accordo con la coordinatrice e le responsabili di Estate Ragazzi abbiamo deciso di fare un invito veramente libero. Con chi ci sarà, fossero anche due o tre animatori/animatrici, faremo un rito di presentazione, accoglienza e mandato.

Di questa cosa – di chiedere cioè un impegno serio per l’Estate Ragazzi, e allo stesso tempo di fare loro una (piccola) proposta di fede, che sembra anacronistica ed estranea alle loro abitudini, ma che possono educarsi a scegliere liberamente – ne facciamo un punto di onore.

Non è sempre stato così. Se qualche animatore o animatrice ci sta leggendo (sarebbe un primo miracolo!) sappia che don Davide, nelle due parrocchie dove ha fatto il cappellano, chiamava solo gli animatori e le animatrici che venivano al gruppo regolarmente e a messa tutte le domeniche!

Ma la pastorale non è un dogma: è un’arte fatta di discernimento, di condivisione, di sensibilità e di rispetto per i cammini concreti che ci sono in atto.

Perciò questa è la scelta pastorale che abbiamo preso in questo tempo, nella nostra parrocchia, e la cosa che ci fa più contenti è la possibilità di condividere l’Estate Ragazzi con tanti animatori e animatrici e di fare un pezzo del cammino della loro giovinezza insieme.

L’importante è che trovino la loro via personale e speriamo che di questi giorni possano lasciare un ricordo così bello, da portarlo con gratitudine persino davanti a Gesù.

Don Davide




Esisto e vivo

Gli occhi di una neonata si spalancano e sembrano grandissimi. Ci si chiede cosa guardi, così meravigliata, mentre comincia a contemplare il mondo, fino a quando non intercetta il viso amato della mamma e del papà. Non li percepisce solo con lo sguardo, ma attraverso una simbiosi con il corpo della madre, e una sintonia con il padre che l’ha amata, prima ancora che venisse alla luce. Sono esperienze prenatali, sfumature della luce, vibrazioni del suono, profumi, movimenti, inflessioni della voce che le permettono di riconoscersi immersa in quell’amore presente fin da quando è stata generata.

È la meraviglia dell’esistere, con cui una bimba, un bimbo prende confidenza.

Può non succedere, purtroppo, ed è il motivo per cui è tanto drammatico che un essere umano non sia amato, perché questo sviluppo è il funzionamento di base della chiamata dell’Essere.

Io esisto. È la sorpresa delle sorprese. Non finirò mai di stupirmi di questa collocazione nella vita.

Cinquant’anni fa, esattamente il 4 giugno del 1973, i miei genitori si sono sposati qui in questa chiesa di S. Maria della Carità. Da quella semplice storia d’amore sono nati i miei fratelli e io. Come succede per ciascuno e ciascuna di noi.

Esistiamo, come frutto traboccante dell’amore.

La Trinità è incomprensibile, ma forse riusciamo a coglierne il mistero come una neonata che apre gli occhi al mondo e intuisce l’origine del suo essere nel volto amato della mamma e del papà.

Dio è un amore fecondo, di cui troviamo riscontro in tutte le cose create.

Genera vita al suo interno, come una madre che porta in grembo il bimbo; è il cielo che alimenta i fiumi, i fiumi che portano acqua al mare e il mare che ritorna alla terra senza mai fermarsi; è un albero frondoso o pieno di frutti e una pianta che gemma, che nutrono senza rivendicazione ogni essere vivente e che spandono i loro semi. Dio è un fiore che sboccia, che lieto accoglie le api che si arricchiscono del suo profumo per produrre la dolce sostanza del miele.

In ognuna di queste analogie scopriamo che ogni realtà che scaturisce dall’Amore è inserita nell’origine che l’ha generata, tutta appartenente a quella medesima origine, e simultaneamente qualcosa di separato.

Siamo immersi in Dio e esistiamo al di fuori di lui.

Abbiamo la vita, l’essere e l’amore come soggetti liberi, persino autonomi se lo vogliamo, con una dignità che ci è conferita totalmente e che non dobbiamo a nessuno.

Sembra strano affermarlo, quasi contrario alla nostra fede. Ma è il vero significato di un Dio che – come leggiamo nelle letture della Santissima Trinità – non rinnega nulla dell’amore con cui ci ha voluto e spontaneamente generato all’esistenza; un Dio che ha voluto e chiamato il suo popolo alla vita.

Su di esso, come su tutto il creato, Dio dichiara la sua tenera fedeltà per sempre.

Tutto quello che noi possiamo fare – e in verità siamo davvero chiamati a farlo: se c’è un dovere morale è proprio questo! – è custodire questa dignità di creature libere e chiamate ad esistere, senza volgarizzarla, senza farne uno strumento per limitare la libertà degli altri o – peggio – di violenza.

Forse questa riflessione risulta un po’ difficile. Molte delle cose che volevo comunicare sono espresse meglio nel linguaggio della poesia e della musica in una canzone degli One Republic, che mi ha fatto conoscere una ragazza della nostra parrocchia che ringrazio.

Nella festa del Dio Amore che ci ha tutti chiamati alla vita, insieme a mio fratello e a mia sorella e a voi che siete la mia famiglia, al mio papà che celebra con noi dal Regno della Vita e alla mia mamma che ricorda i cinquant’anni dal giorno in cui si è sposata con lui, voglio dedicare questa canzone: “I Lived”.

Qui c’è la musica con il testo.

Qui c’è il video ufficiale, con qualcosa in più.

Don Davide




Abbeverarsi, in cima

“Tutti siamo stati dissetati a un solo Spirito” (1Cor 12,13).

Siamo arrivati in cima. L’ascensione è stata bella, ma faticosa (chiedetelo a chi ha riportato la B.V. di S. Luca al santuario, in un torrido e improvviso pomeriggio estivo dopo giorni di freddo e di pioggia!).

Come la Pentecoste è la pienezza della Pasqua, perché lo Spirito rendere sempre presente il Risorto, così raggiungere la meta di una gita dà un senso di compiutezza, anche se rimane tutto il ritorno!

Riposo

Ora, però, è il momento di mangiare e di dissetarsi.

Non importa se durante il cammino abbiamo finito l’acqua: c’è una fonte, a cui riempire le nostre borracce.

È acqua di sorgente, fresca, perfetta per accompagnare un buon panino, un frutto e un dolcetto.

Tutti sanno, in realtà, che quando arrivi al traguardo di un bel sentiero, quello che ti ristora veramente è la vista del panorama aperto, la policromia della roccia, dei prati e dei laghetti.

Eravamo idealmente rimasti al Rifugio Locatelli… perciò attingiamo forza ed entusiasmo dalla maestosità delle Tre Cime di Lavaredo.

Le Tre Cime come la Santissima Trinità, spero che mi perdonino i teologi…

ma lo scrive anche Paolo nella Lettera ai Romani: l’amore di Dio viene versato nei nostri cuori per opera dello Spirito Santo che ci è stato dato, grazie a Gesù (cf. Rm 5).

Ritorno

Nei momenti in cui ti senti rincuorato dallo Spirito, ti verrebbe voglia di fermarti in quel calore, di goderti tutta quella pace. Ma i discepoli avevano imparato la lezione sul Tabor. E ora dal Cenacolo, vengono spinti fuori, come quando, dopo il riposo, ti senti ricaricato di energie e sei pronto a scendere a valle e a completare il tuo itinerario.

Non c’è in gioco solo una gita, ma il terminare un’impresa.

Ci sono ancora molti e nuovi paesaggi da contemplare. Gli itinerari belli, sono quelli che ritornano “per un’altra strada” come i Re Magi.

Ho ancora negli occhi, scendendo dal famigerato anello delle Tre Cime, un tappeto di prati irrigati da piccoli ruscelletti, una copia del Paradiso Terrestre – o forse l’originale? – ricamato da una miriade di fiori bianchi e lievi come piccoli batufoli di cotone. Mi fecero pensare alla manna nel deserto: doveva proprio essere così!

Ogni ritorno è caratterizzato da un dono di forze che sostiene il cammino: può essere la meraviglia negli occhi, il cuore grato, una parola che ricevi e che ti accompagna, le gambe – anche quelle spirituali – che ormai vanno da sole o qualsiasi altro segno di bellezza.

Il ritorno è sempre segnato dalla gratitudine per il cammino alle spalle, e dal fatto che non cessano nuove scoperte.

Racconto

Infine, il racconto. Quando hai fatto un’esperienza così bella, non puoi fare a meno di condividerla. Qualcosa racconti, qualcosa rimane nel tuo intimo. Di un paesaggio puoi fare una descrizione, ma alcune emozioni sono come una cassaforte personale, perché non si possono tradurre a parole.

Così è la testimonianza dell’amore di Dio nello Spirito Santo. Non puoi tenerla con te, non per fare proseliti, ma perché semplicemente è impossibile non condividere tanta bellezza. Eppure, l’ampiezza, la profondità e la luce di quel paesaggio incantato, così come gli orizzonti molteplici definiti dalle catene montuose che si inseguono e sovrappongono, possono essere raccontate solo per approssimazione.

Così è anche l’esperienza spirituale.

Qual è la vastità e il miracolo dell’opera di Dio nella vita di una persona, magari di un giovane nei passaggi decisivi della sua esistenza? Che cosa accade, davvero, tra Dio e ciascuno di noi?

Raccontare è come scrivere la pagina della Pentecoste. E tuttavia, quello che è successo avrà sempre il “di più” che trabocca in ogni storia d’amore.

 

Don Davide




Più del Nanga Parabat

Prima parte

L’Ascensione di Gesù evoca una salita al cielo lieve, eterea, senza fatica, mistica. Ma il termine è anche lo stesso delle grandi imprese alpinistiche: l’ascensione all’Everest, al K2, al meno alto ma più terribile Nanga Parbat.

Questo secondo tipo di ascensione richiede preparazione, ritmo e costanza, è sempre lunga e faticosa.

Voglio leggere il mistero dell’Ascensione insieme a quello della Pentecoste, in una inedita meditazione in due puntate:

  1. L’Ascensione, che comprende l’allenamento, la fatica e la gioia di avere raggiunto la cima.
  2. La Pentecoste, che riguarda la seconda parte: il riposo in vetta, il ritorno, il racconto dell’impresa.

Organizzare la propria vita come se fosse una grande impresa alpinistica.

Questo significa ascendere con Gesù, essere quindi resi partecipi della pienezza della gioia pasquale nello Spirito Santo: non verso meravigliose cime montuose, ma puntando alle vette dell’esistenza.

È questo il vero significato, anche nella tradizione spirituale cristiana, della parola “ascesi”.

Allenarsi

Significa rafforzarsi nella vita: abituarsi a sostenere e ad affrontare le difficoltà, non fermarsi appena viene il fiatone, non rinunciare allo sforzo quando fanno male le gambe, esercitare la propria forza di volontà. È desueto questo stile, ma rimane importante se uno vuole “ascendere”.

Altrimenti si può decidere di rimanere alla malga a farsi uno Spritz, perché una Radler sarebbe già cosa troppo da montanari.

Allenarsi significa anche diventare un po’ più leggeri, tonificare i muscoli che sprigionano energia e eliminare i grassi che ci appesantiscono. Fuori di metafora, penso al nutrimento sano: la vita spirituale, le letture, la formazione personale, la preghiera, le buone relazioni: in una parola, le virtù. Al contrario, ci sono la pigrizia, la mancanza di cura di sé e degli altri, la tv spazzatura: ossia l’accidia.

Infine, allenarsi significa selezionare cosa portarsi nello zaino, che non può essere troppo pesante: che cosa ci fa da zavorra, che cos’è essenziale? Mi pare che tra le cose essenziali ci siano l’amore e la dedizione per la famiglia, la condivisione con una comunità di appartenenza, l’impegno onesto, leale e qualificato nel proprio lavoro. Ognuno, invece, deve essere attento a individuare le proprie zavorre.

Fatica

La fatica è un tratto inevitabile di ogni ascensione che si rispetti. Anche gli atleti più allenati, anche quelli che appaiono invincibili nel loro sport, quando compiono un’impresa mettono in campo uno sforzo ineguagliabile, che appunto hanno imparato a sostenere.

Nella parabola della casa sulla roccia, Gesù non dice che questa casa, a differenza dell’altra, non va incontro alla tempesta. Dice che la tempesta arriva comunque, ma la casa con buone fondamenta l’affronta e rimane salda.

La fatica c’è, nella vita di ciascuno. Molti preferiscono tenerla nascosta, invece sarebbe più importante condividerla con qualche persona amica, fidata e cara.

Ci si aiuterebbe. La cosa più importante è non scoraggiarsi, e non pensare che la fatica sia segno di qualcosa di sbagliato: è come reagiamo alla fatica che definisce se siamo nel giusto o nell’errore.

Vetta

Quello che vorrei trasmettere, soprattutto ai ragazzi e ai giovani (ammesso che ci sia qualcuno che legge, nel caso… fateci contenti: date un cenno!), è che per godere le vette il cammino della vita va preparato e strutturato.

Oltre alla scuola e alla cultura, che già è una cosa importantissima, bisogna a tutti i costi acquisire delle competenze emotive, relazionali e spirituali. È bella la spensieratezza, il divertimento, la gioia della giovane età.

Insieme a queste cose stupende, bisogna avere cura di preparare l’appuntamento con le cime.

Ricordo la gita più bella che ho fatto: l’anello alle Tre Cime di Lavaredo, dalla Val Fiscalina. Ho chiesto qualche consiglio e ho studiato le mappe. Poi sono partito presto. Vi dirò, che i panorami delle prime luci sono per me ancora indimenticabili. Per questo vi consiglio di partire “presto”. Ci sono momenti di vera estasi, come l’alba sulla Croda dei Toni. Poi mi sono goduto momenti di svago e di relax: una magnifica colazione con una mezza Sacher senza sensi di colpa.

Dopo, anche qualche momento in cui la salita è spianata; una volta arrivato in quota, addirittura qualche passaggio in cui ho mosso i passi in discesa e poi… la sorpresa.

Può capitare che ti accorgi che sei arrivato in vetta quasi all’improvviso, nonostante la metà sia maestosa e impareggiabile come le Tre Cime di Lavaredo, non nel senso che hai finito il percorso, o hai raggiunto il massimo dei traguardi, ma la tua ascensione ti sperimenta una tappa di inedita meraviglia.

Tutto quello che hai fatto fino a quel momento, ne è valsa la pena.

Il percorso non è finito. Ma questa è un’altra storia…

Nella prossima puntata: la Pentecoste! Non perdetevela!

Don Davide