Parigi, 13 novembre 2015

Nella liturgia della 33° domenica del Tempo Ordinario, anno B, sia il profeta Daniele che Gesù nel Vangelo fanno uso un genere letterario molto specifico, quello dell’Apocalittica, che a noi risulta oscuro e minaccioso, ma ancora al tempo di Gesù doveva essere facilmente codificabile.

Tale genere letterario veniva usato per parlare di un evento nella storia, che ponga fine alla continuità della storia, in modo tale che attraverso questa cesura netta, la storia successiva risulti diversa da quella precedente, e soprattutto portata su un altro piano. Dio è il protagonista assoluto di questo intervento risolutivo, al punto che il primo dato dell’apocalittica è che il destino del cosmo, nonostante tutte le apparenze, non sfuggirà dalle mani di Dio.

Non dobbiamo pensare che qualcosa, nel corso degli eventi, possa rovinare definitivamente i piani di Dio, quasi da “rompergli le uova nel paniere”, sì da costringerlo ad intervenire per rimediare. La cosiddetta “fine” del mondo sarà invece un atto della volontà d’amore del Padre: la venuta del Signore che tirerà tutti i fili della storia e li porterà a compimento. Nell’immagine del vangelo, infatti, il Figlio dell’Uomo viene proprio nel momento in cui tutto sembra compromesso, con i segni della sua autorità e della sua presenza («grande potenza e gloria»), ed è lui che raduna tutti, raccogliendo il cosmo nel suo abbraccio.

Non possiamo non pensare ai terribili fatti di Parigi della sera di sabato 14/11, insieme a tutte le tante, troppe, atrocità che si consumano nel mondo. La sensazione che ci rimane è di sgomento e, certamente, anche di paura, eppure i cristiani devono imparare a leggere gli eventi con questa capacità di interpretazione della storia. Nelle letture, il contrasto tra queste due situazioni è impressionante: mentre si descrive «un tempo di angoscia, come non c’era mai stato» (Dn 12,1), la profezia di Daniele dice che proprio allora il popolo sarà salvato; quando evoca uno sconvolgimento cosmico, Gesù afferma che sarà quello il momento in cui il Figlio dell’Uomo interverrà nella storia a segnare un prima e un dopo. Paradossalmente, Gesù parla di un risveglio in questa situazione, come quando il ramo tenero del fico preannuncia la primavera (cf. Mc 13,28-29). Dobbiamo riconoscere questo risveglio, questo invito per le coscienze a rinnovarsi proprio nel mezzo dei tumulti che, altrimenti, ci paralizzerebbero.

L’evento che decifra il tempo da riconoscere è la resurrezione – «non passerà questa generazione prima che tutto questo avvenga» (Mc 13,30) – nel senso che tutte le volte che si configurano questi “sconvolgimenti”, il cristiano è chiamato a iniettare la potenza di vita della Pasqua nella storia; questa energia vitale discrimina il prima e il dopo, fa finire il mondo vecchio, abitato dalla violenza, dalla sopraffazione e dalla negazione della convivialità, e fa iniziare la Nuova Creazione di Dio. Sono solo le sue parole, quelle che invitano all’amore del prossimo e dei nemici, che non passeranno. Tutto il resto sì.

Chi riconosce questi segni come invito a una stagione nuova, sarà considerato saggio. Bisogna avvedersi definitivamente che invocare alla riduzione dell’altro, o addirittura il suo annientamento, è la matrice di tutta la violenza che vorrebbe soffocare il mondo; bisogna rifiutare una lettura geopolitica appiattita e semplicista, che non colga, almeno, come il Medio Oriente sia l’ultima identità antagonista che resista alla globalizzazione.  Bisogna bandire ogni superficialità, ogni semplificazione e ogni generalizzazione. Chi vuole abitare la storia, non può sottrarsi a questo compito.

Dall’altro canto, ci vuole un impegno e una responsabilità quanto mai necessaria nell’educazione, nella formazione alla convivialità delle e nelle differenze. I terroristi si fanno saltare in aria e uccidono; i violenti, i gretti e gli opportunisti non hanno né realismo né profezia, mentre «coloro che avranno indotto molti alla giustizia risplenderanno come le stelle per sempre» (Mc 13,3).

Per interpretare la storia e rispondere ai fatti di Parigi e di tutte le altre violenze del mondo, abbiamo bisogno di simili profeti, che sappiano educare molti “altri” alla giustizia e la cui luce possa essere come stelle quando più buia è la notte.

 

Don Davide




“Tutto” quello che abbiamo

Cos’è che fa grande il piccolo gesto della povera vedova?

Sappiamo che Gesù elogia la totalità di questo gesto, sottolineandolo due volte: “Ella ha dato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere”.

Tuttavia, questo atto quasi sconsiderato, provoca in noi una certa inquietudine: chi di noi potrebbe dare tutto? Potrei io, mamma o papà con dei figli, lasciare il mio lavoro, svuotare il mio conto in banca, esaurire la dispensa e vendere persino la casa? Non voglio assolutamente sminuire la radicalità evangelica, ma alcune volte una certa retorica spiritualista ha prodotto dei pensieri tanto belli sulla vita cristiana, da rimanere solo pensieri, perché di fatto intraducibili nella realtà, e così ha oscurato lo splendore e il valore pratico del Vangelo per la nostra vita. Come se le parole di Gesù fossero un ideale talmente alto, da poterci solo compiacere di fare dei bei discorsi, sapendo che non potranno mai avere una presa reale sulla nostra vita.

Sicuramente, però, Gesù aveva in mente un insegnamento ben preciso. Al punto da chiamare a sé i suoi discepoli, dopo essere stato rapito dalla visione di quella donna. Come se dicesse: “Venite mo’ qui che vi faccio notare una cosa, e vi insegno perché è così importante!”. È un gesto educativo bellissimo! È il gesto tipico di un pedagogo, cioè di chi ti sa prendere e farti fare i passi giusti per crescere.

Ma allora, cosa voleva insegnare Gesù?

Innanzitutto dobbiamo considerare che è l’ultima “scena” della sua vita, prima della sua passione; come se Gesù stesso avesse percepito, vedendola, che quel gesto poteva essere una sintesi efficace di tutto il Vangelo, di tutto quello che aveva detto o aveva voluto dire fino a quel momento. E cioè, che la nostra vita è custodita dal Padre.

Qui si sintetizza la nostra fede.

Non è il problema di “quanto” uno dia. Il punto, dice Gesù, è che quei “ricchi” danno un po’ e col resto pensano di poter “decidere” della loro vita. Pensiero scellerato, che Gesù più volte rimprovera nel Vangelo. Al contrario, quella povera vedova, nel suo geto – di cui, ribadisco – non conta la quantità, afferma in maniera inequivocabile la sua fiducia che il Padre si prenderà cura di lei, che non le mancherà da mangiare, da bere, da avere ancora due spiccioli da gettare nel tesoro del tempio. E infatti, il senso della prima lettura è proprio questo: se ti fidi, non ti mancherà.

Se hai fiducia, la tua vita non sarà perduta.

Anche se non abbiamo niente, la nostra vita è custodita dal Padre.

Anche se abbiamo tantissimo, la nostra vita non dipende da noi.

Anche se ci sembra che tutto vada storto, la nostra vita è nelle mani del Padre.

Questa è la sintesi di tutto il vangelo, la cosa che occorre ricordare per vivere nella pace ed essere felici. E quando dovessimo dimenticarcela, Gesù ci prende vicino a sé, ci fa vedere dalla sua prospettiva e ci dice: “Ehi, guarda il gesto della povera vedova!”.

 Don Davide




Tutti santi + 1

Chi ha letto la fortunata e bellissima saga di Harry Potter, di J. K Rowling, sa che i dolcetti preferiti dei giovani protagonisti sono le “Caramelle Tutti i Gusti + 1”: tra le quali si trovano sapori bizzarri che riservano sempre delle sorprese. Di fronte alla festa di Tutti i Santi, non ho potuto fare a meno di pensare a questa associazione. Anche tra i santi, infatti, si trovano personaggi singolari, come ad esempio San Filippo Neri, che era pazzerello e giocherellone; oppure San Girolamo, insuperato conoscitore delle Scritture, ma che aveva un tale caratteraccio da rimproverare Sant’Agostino per il fatto di predicare senza conoscere perfettamente l’ebraico.

In questa festa, però, non si ricordano solo i santi ufficiali, quelli saliti agli onori degli altari, ma anche tutti quei fedeli che – magari sconosciuti – hanno condotto una vita santa nell’amore. Sono loro quel +1 sorprendente! Gente che forse non è stata riconosciuta da chi era vicino, ma che ha vissuto uno straordinario eroismo di virtù, o di pazienza, o di carità che solo a Dio era noto.

Tutti i Santi: una comitiva sensazionale di amici che oggi festeggiamo e ringraziamo perché ci accompagnano e ci proteggono.

Se però leggiamo bene il titolo che ho dato a queste riflessioni – a dire il vero un po’ pazzerelle anch’esse – ci accorgeremo che non ho scritto “Tutti i Santi”, bensì “TUTTI SANTI”, senza l’articolo. Non è solo la festa che celebra quelli che santi lo sono già diventati, ma è un invito molto forte a percorrere il cammino della santità. Anche in questo caso vale il simpatico riferimento alla storia di Harry Potter: “TUTTI SANTI +1!”. Magari il +1 è quel tuo collega di cui sai poco, e che in pausa pranzo sparisce per qualche minuto: nella prima parrocchia dove sono stato, c’era un signore che veniva in chiesa sempre dalle 13.30 alle 14.00, nella sua pausa pranzo e stava lì immobile, ad adorare il Signore. Oppure è quel tuo compagno di università, che senza farsi pubblicità, va tutte le settimane a trovare i malati in ospedale. O quella mamma, che anche se non ci pensi – perché non fa nulla di straordinario – ama suo marito e si prende cura di lui e dei suoi figli consumando il suo tempo.

In realtà, però, quell’ “UNO IN PIÙ” sei anche tu, sì proprio tu che stai leggendo! È la chiamata sorprendente di Dio che coinvolge anche te, e allo stesso tempo ti ricorda che tu stesso sei una gioia in più e originale per questo gruppo di persone meravigliose.

Mi chiedi: «Ma come si diventa santi?» Ai più grandi rispondo: 1) ama le persone che hai scelto; 2) compi il tuo dovere (se possibile con gioia); 3) sii benevolo, misericordioso e paziente. Ai più giovani, invece, sento di lasciare il consiglio insuperato di San Giovanni Bosco: 1) prega un po’ ogni giorno; 2) compi sempre il tuo dovere; 3) stai allegro e custodisci la gioia.

E allora coraggio! Tutti santi +1! Sì anche tu che pensi che sia impossibile! Chissà che non sia proprio tu, invece, il gusto +1 in questa grande assemblea di Dio!

Don Davide




La domanda della vita eterna

L’uomo ricco, che secondo la versione di Matteo è un giovane, pone al Maestro la domanda fondamentale: “Che cosa devo fare per avere la vita eterna?”. È la domanda decisiva, quella che punta diritto al cuore del nostro desiderio di vita: di una vita autentica e di una vita che non debba più soffrire lo scoglio della morte.

Gesù, infatti, accoglie la sfida contenuta in questa domanda e risponde all’uomo. Tuttavia prima si preoccupa di precisare che solo a Dio compete l’appellativo di “buono”.

Cosa vuole farci capire Gesù?

Mi sembra che Gesù ci inviti a renderci attenti alla domanda di vita che emerge da tutte le persone, e in modo particolare dai giovani, Ogni uomo porta nel cuore questo desiderio di vita, magari anche in mezzo a mille contraddizioni o sbagli, oppure nascosto e soffocato dalla presenza di altre ricchezze. Il compito è di fare emergere tale voglia di vita, fino a che ognuno sia posto di fronte a una scelta decisiva: accoglierla, liberandosi dalle proprie schiavitù, o lasciarla andare, magari a prezzo della propria tristezza?

In questa settimana abbiamo iniziato il catechismo, che rappresenta uno degli sforzi più grandi della nostra comunità, e il Maestro ci educa a intercettare questa imperiosa domanda di vita che viene dai bimbi e dalle loro famiglie che incontreremo.

Dobbiamo farlo, però, senza presumere di essere “buoni”, o giusti, o ancora peggio “i migliori”, perché uno solo è colui che con cuore buono si prende cura di ognuno, Dio stesso.

Rispondere alla domanda: “Che cosa devo fare per avere la vita eterna” è il compito di ogni comunità cristiana. È la sapienza pastorale che dobbiamo desiderare più di tutte le altre ricchezze.

Questa sapienza pastorale viene alimentata dall’ascolto della parola di Dio, che è in grado di aiutarci nel discernimento e di farci innamorare di ciò che è degno e di farci respingere ciò che non merita. Un’altra via è il Sacramento della Riconciliazione, che ci aiuta a ritrovare sempre l’essenziale tesoro del nostro cuore: per questo motivo, ho deciso che da sabato prossimo voglio dedicare uno spazio maggiore alla Confessione, tutti i sabati che non sarò via coi ragazzi, a partire dalle 17.30, per avere un’opportunità distesa di celebrare questo sacramento.

Sappiamo, ancora una volta con assoluta certezza, che in questo cammino non siamo soli. Ben consapevoli che è una cosa impossibile ai soli uomini, noi possiamo confidare con allegrezza che non ci mancherà l’aiuto di Dio.

Don Davide




Un solo maestro e tanti fratelli come guida

In questa Domenica la nostra Chiesa di Bologna celebra il patrono, San Petronio, e le letture della liturgia sono specifiche. Nella nostra parrocchia, la solennità di San Petronio segna anche l’inizio del catechismo, che è sicuramente l’attività pastorale che impiega più energie e coinvolge un maggior numero di persone: ragazzi, catechisti e famiglie.

Mi piace pensare che il Vangelo proclamato per la solennità di San Petronio sia come una bussola per il nostro impegno. Gesù dice di non chiamare nessuno maestro, perché uno solo è il nostro Maestro, e noi siamo tutti fratelli. Io vedo in questo un modello per la nostra pastorale. La pastorale di una parrocchia, infatti, non è fatta di persone che “insegnano” e di persone che “devono imparare”; di gente che sa e di contenuti da trasmettere; di un gruppo che comunica i contenuti della fede o i comportamenti cristiani e di un gruppo che li dovrebbe ricevere. Nella pastorale, siamo tutti alla scuola di un solo pastore: Gesù Cristo. E anche i catechisti e gli educatori, condividendo il cammino e la loro esperienza con i più piccoli o con chi viene guidato nella fede, in realtà sono in un percorso in cui imparano insieme agli altri dall’unico maestro.

Il metodo non è quello che ci sono alcuni “attori” e alcune persone “passive”, nemmeno i bimbi del catechismo! La regola suprema, per me, è il coinvolgimento! La fede viene condivisa e “insegnata” solo rendendo tutti attivi protagonisti della vita cristiana, anche i nostri fanciulli che sono ancora nel cammino dell’Iniziazione, attraverso la preparazione ai Sacramenti.

Coinvolgimento dei ragazzi nell’esperienza del catechismo e dei gruppi, coinvolgimento delle famiglie nel condividere l’impegno educativo della comunità cristiana, coinvolgimento dei catechisti ed educatori e di tutti gli altri responsabili delle attività della parrocchia nel sentirsi protagonisti insieme al parroco della vita della nostra comunità: questo per me significa, nel concreto, avere un solo maestro e sentirsi tutti fratelli.

Chiediamo al grande pastore della nostra Chiesa, San Petronio, di sostenerci in questo progetto e di aiutare la nostra comunità ad accompagnare i ragazzi che iniziano il catechismo, e a sentirci tutti coinvolti, insieme a loro, nel fare maturare la nostra fede.

Don Davide




Fossero tutti profeti!

Assistiamo in questi giorni alla straordinaria capacità di papa Francesco di trasferire il suo carisma su quello di tutta l’istituzione ecclesiale. Trovo in questo aspetto una specie di realizzazione dell’esclamazione profetica di Mosè: «Fossero tutti profeti nel popolo del Signore!» (Nm 11,29).

Ancora una volta, la seconda lettura, la Lettera di Giacomo ci porta a riflettere su temi sociali come l’uguaglianza e l’equità. Nel suo viaggio a Cuba e in America, papa Francesco ha richiamato più volte alcuni di questi temi, convinto che l’attenzione seria a questo patrimonio, che appartiene pienamente al contenuto del Nuovo Testamento, sia una delle vie per testimoniare una nuova autenticità cristiana e per operare la “rivoluzione della tenerezza”.

Papa Francesco ha frequentemente spiazzato i discepoli di Gesù, come già faceva il Maestro, rifiutando la distinzione “noi e loro”, “i nostri e gli altri”, in nome di una fratellanza di tutti gli uomini che tenda a collaborare all’edificazione del Regno. Del resto, si sa, «lo Spirito soffia dove vuole» (Gv 3,8). L’attenzione, per altro impegnativa e faticosa, che tutti noi dovremmo avere, invece, è quella di non creare scandalo, soprattutto di non creare impedimenti (è questo il significato letterale di “scandalo”) ai più piccoli, ai poveri, alle persone svantaggiate. Senza mezzi termini, Gesù ci ricorda che è necessario sradicare da noi le cose che portano allo scandalo, e sembra che papa Francesco abbia preso con una radicalità senza precedenti questo insegnamento, quando – ad esempio – rifiuta il sontuoso pranzo offerto dal Congresso Americano per andare a mangiare alla mensa della Caritas, oppure quando si muove con una piccola auto in mezzo ai mezzi maestosi della sicurezza americana (pur necessaria).

Allora possiamo provare a seguire questo insegnamento e, grati al carisma di papa Francesco, provare anche noi come singoli e come comunità cristiana a compiere gesti profetici, anche piccoli, ma simbolici, che siano profezia della volontà d’amore di Dio per tutti gli uomini.

Don Davide




Un bambino posto nel mezzo

Il gesto di Gesù nel Vangelo di oggi ci dà l’occasione per uno spunto pastorale. Di fronte alle ambizioni dei discepoli, Gesù mette al centro un bambino, come segno della disponibilità ad accogliere Gesù stesso.

Allo stesso modo, se devo immaginare la metodologia pastorale di una comunità cristiana, penso che un programma pastorale debba partire mettendo al centro i bimbi e i ragazzi. Attenzione: so che vado contro corrente, nel senso che tuti i documenti importanti del magistero dicono che ci vuole un inversione di tendenza, che bisogna lavorare di più con i genitori, gli adulti e le famiglie… ma per me, mettere al centro i bimbi e i ragazzi non significa dedicare ore, tempo ed energie solo al catechismo o ai gruppi, trascurando le mille altre esigenze della pastorale parrocchiale.

Il punto è un altro. Per me significa mettere al centro il progetto che riguarda i più giovani, per coinvolgere, attivare, responsabilizzare e chiamare a condivisione tutta la parrocchia. Gesù lo dice senza mezzi termini: “Chi accoglie anche uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me”.

Concretamente, penso che il metodo per fare questa cosa sia di avere un’idea guida e un orizzonte condiviso. Con i gruppi facciamo questo attraverso gli strumenti dell’Azione Cattolica, che – per quest’anno – propongono come icona biblica la Visita di Maria a Elisabetta, come idea guida il tema del viaggio e come categoria di fondo la novità. Piano piano, sapendo che la formazione dei più giovani viene elaborata a partire da questo sfondo, mi piacerebbe che ci potesse essere una sintonia di tutta la comunità, una lunghezza d’onda condivisa, naturalmente calibrata sulla maturità e l’esperienza delle diverse fasce d’età.

In fondo, Gesù istruisce i suoi discepoli in un lungo viaggio attraverso le strade di Giudea e di Galilea, dove gli incontri, le parole, i problemi diventano occasione per annunciare e spiegare il Regno. Gesù non si è seduto in sinagoga, come facevano i maestri, per spiegare la Legge. Lo ha fatto “itinerando”, viaggiando.

La seconda lettura ci svela le passioni che emergono in questo viaggio, passioni spesso negative, che stanno rintanate nei nostri cuori, ed emergono quando smuoviamo le acque… Allora, lungo il cammino, sarà anche nostro compito imparare la sapienza che ci permette di neutralizzare queste passioni “tristi” (per usare una celebre formula usata nella psicologia) e imparare la passione per il Regno, attraverso lo sguardo posato su un bambino, posto nel mezzo.

Don Davide




Pensieri per un anno pastorale

«A che serve, fratelli miei, se uno dice di avere la fede ma non ha le opere?» (Gc 2,14).

La domanda a bruciapelo della Lettera di Giacomo pone il problema di uno stile del nostro essere cristiani. Non è più la questione che ha diviso la Chiesa ai tempi della Riforma Protestante, se ci si salvi per le opere o per la fede… ormai è chiaro che ci si salva per grazia, in ogni caso. La questione è molto più il problema della presenza cristiana nel mondo: parole e opere non possono essere disgiunte, la coerenza della nostra testimonianza è fondamentale perché il vangelo possa ancora brillare agli occhi di tanti uomini e donne che, semplicemente, aspettano un segno che li interpelli.

Abbiamo un esempio emblematico di questo nella celeberrima scena del Vangelo. Pietro confessa con le parole la sua fede, ma poi con il suo modo di fare nega di fatto il punto più autentico della vita di Gesù: la sua morte e resurrezione.

Gesù lo rimprovera senza mezzi termini.

Anche noi spesso siamo come Pietro: professiamo la nostra fede a parole e nelle celebrazioni, ma poi nella vita di tutti i giorni il nostro stile non è coerente con il Vangelo. Soprattutto il nostro rapporto con i momenti di sofferenza, spesso, non tiene in nessuna considerazione la luce che viene dalla Croce di Gesù. Non è facile per nessuno, certo. Ma forse ci viene incontro proprio Gesù stesso, quando – dopo avere chiamato Pietro: “Satana” – gli dice di “tornare dietro di lui”, cioè di tornare nella posizione della sequela.

Ecco, noi riscontriamo tanti limiti nel nostro stile di vita cristiana, tante incoerenze, ma non dobbiamo preoccuparci: possiamo sempre ritornare nella posizione della sequela, con semplicità e direi anche un po’ di leggerezza, sapendo che sarà proprio questo “andare dietro a Gesù” che ci farà assumere il suo stile.

Mi auguro che in questo anno pastorale noi possiamo tenere come preziosissimi questi consigli. Che pian piano, cercando di tenere a mente le motivazioni evangeliche delle nostre scelte e delle nostre azioni, la fede che come comunità cristiana professiamo corrisponda sempre di più anche al nostro modo di essere autentici testimoni di Gesù soprattutto di fronte alle grandi sfide che si pongono alla coscienza cristiana: la questione dei migranti, l’ecologia, la giustizia sociale, la solidarietà, l’educazione delle nuove generazioni.

Don Davide




Il tempo della misericordia

Ci prepariamo a riprendere un anno pastorale, pieno di attività, di incontri e di propositi di bene. Lo facciamo in questo tempo in cui il sogno dell’Europa sembra dissolversi con l’innalzarsi di nuovi muri – pensavamo di esserceli lasciati alle spalle definitivamente, i muri – e in cui veniamo scossi dalla morte di tanti uomini, donne e bambini che migrano per le più svariate ragioni, e che sono – prima di tutto – nostri fratelli e nostre sorelle in umanità, figli di Dio.

Papa Francesco ci richiama continuamente a non dimenticarci di questa compassione per l’essere umano, imitando il Figlio di Dio che ha fatto come il Buon Samaritano, e si è chinato – e si china continuamente – sull’umanità ferita. Fedele al suo proposito, papa Francesco, apre sempre di più le porte della misericordia, con gesti e indicazioni concrete. Mi sembra che non sia solo un invito ad azioni particolari, ma la volontà di traghettare la Chiesa in un “tempo della misericordia”, simbolicamente avviato dall’indizione di uno speciale Anno Santo.

Il “tempo della misericordia” non è un singolo gesto, un’iniziativa o un’azione particolarmente benevola, è un clima e una mentalità, è uno stile con cui il cristiano abita e vede il mondo.

Possiamo comprendere le letture di questa domenica solo in questa cornice, e tenendo sempre davanti agli occhi ciò che accade nella storia del mondo.

Il profeta Isaia ci ammonisce: «Dite agli smarriti di cuore: “Coraggio, non temete! Giunge la vendetta del vostro Dio”. È un linguaggio duro, che sfugge alla gabbia del politicamente corretto. C’è una vendetta di cui Dio è il protagonista, per fare giustizia agli smarriti di cuore, alle vittime. Ci sarà una vendetta contro chi rimarrà insensibile alla morte di un bambino sulle spiagge dei nostri mari. Ci sarà una vendetta che farà fiorire e irrigherà le terre deserte e martoriate dell’Africa e del Medio Oriente: «La terra riarsa diventerà una palude e il suolo riarso sorgenti d’acqua», (I lett.) mentre altri saranno condannati per i propri «giudizi perversi» (II lett.).

La Lettera di San Giacomo, infatti, è inequivocabile: ai ricchi si dice: “Siediti qui”, mentre per i poveri “non c’è posto”. «Non fate forse discriminazioni e non siete giudici dai giudizi perversi?».

Nel vangelo, invece, Gesù guarisce un sordomuto. Ora quel sordomuto siamo noi, noi tutti, chiese e civiltà dell’Europa, che dobbiamo imparare di nuovo a tendere l’orecchio e ascoltare il grido di chi ha bisogno, come fa Gesù, e a parlare non più di muri, razzismo, confini e frasi fatte, ma un linguaggio profetico che immagini e costruisca un mondo che, realmente, sia più conforme al Regno di giustizia e di pace che Dio ha voluto iniziare nella storia degli uomini.

Don Davide




Lo spirito della comunione

La solennità della SS. Trinità ci ricorda innanzitutto la vicinanza di Dio (Deuteronomio, I lettura). Dio non “era” solo. Lui è un’esistenza di comunione e di relazione: non aveva bisogno di creare il mondo, né tantomeno di scegliere un popolo con cui iniziare una storia.

Invece Dio ha scelto, con una decisione eterna, di espandere il suo amore e coinvolgere tutta la creazione in questo amore, e di scegliere un popolo per fare sentire piano piano a tutta l’umanità la sua vicinanza.

Lo Spirito Santo è la realtà di questa presenza di Dio in mezzo a noi, prima discreta e ora, nel tempo della Chiesa, manifesta.

Gesù risorto invia i suoi discepoli a battezzare e a coinvolgere nell’esperienza della fede tutti gli uomini, incaricandoli di farlo “nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”, cioè nel “nome” della Trinità.

Il “nome”, nella cultura ebraica, indica l’identità nel senso più profondo che si possa immaginare: esprime l’essere profondo di una persona, le sue caratteristiche, la sua natura, la sua capacità e il suo modo specifico di relazionarsi.

L’invito di Gesù, quindi, è un mandato a coinvolgere tutti gli uomini in questa comunione di amore e con lo stile di questa comunione. Non si tratta di una conquista, né di un allargare le fila della chiesa… ma di un testimoniare la Chiesa per quella che è realmente, ossia una comunità modellata dall’amore di Dio e che lo esprime fedelmente: una comunità che fa spazio al diverso, come il Dio Trinità; una comunità che coinvolge nell’amore chi ne è escluso, come il Dio Trinità; una comunità che, come il Dio Trinità, pazientemente si mette accanto agli uomini e alle donne, e cammina con loro, anche mille anni, per educarli a lasciarsi coinvolgere in questa gioia.

La solennità della Trinità, non è dunque una festa di concetti metafisici complessi e di distinzioni sottili, ma è la festa che invita ogni piccola comunità che costruisce la chiesa a realizzarsi in uno scambio di amore e di amicizia, e a condividere questa gioia con tutti.

Don Davide