Tra l’Eucaristia e il mondo

Il Congresso Eucaristico Diocesano, che inizia oggi, si apre in mezzo a sconvolgimenti e false promesse messianiche. Abbiamo sempre la tentazione di rifugiarci in qualche sicurezza a basso costo, purché nessuno ci obblighi a interrogarci seriamente sulla storia che, come cristiani, siamo chiamati a vivere e a interpretare.

Invece, tante volte abbiamo l’impressione che il nostro cristianesimo sia inefficace, collocato marginalmente rispetto alle grandi sfide del mondo, incapace a raccoglierne fino in fondo le provocazioni.

La seconda lettura, però, ci propone l’atteggiamento degli apostoli come modello: segnatamente Paolo. Un uomo che, dopo l’esperienza dell’incontro con il Risorto, non è rimasto ozioso. Ha lavorato seriamente per annunciare il vangelo, ma anche custodendo la pace e la tranquillità. Mi sembra che noi abbiamo oggi un esempio di questo stile in papa Francesco, che entra continuamente e con coraggio nei nodi dell’esistenza di oggi, e a farlo con sollecitudine e segnalando l’urgenza, ma allo stesso tempo lavorando con grande serenità e pace. La terribile diseguaglianza delle povertà mondiali; il problema delle migrazioni che – su scala mondiale – è ben più ampio e più drammatico di quello che noi percepiamo nel Mediterraneo; il bisogno di creare ponti e vie di incontro, in un vivere che è sempre più connesso tra tutti i popoli, le razze e le culture, e che si vorrebbe sempre più definire con muri e confini; la questione ecologica seria, per la salvaguardia del pianeta e il diritto di vivere delle generazioni future; l’esperienza di ferite micidiali nel mondo degli affetti personali, che hanno bisogno di essere curate; infine, la percezione netta della misericordia, come unica strada per sanare la rovina dell’esistenza, e collaborare alla redenzione del mondo e all’instaurarsi della nuova creazione di Dio.

Di fronte a tutto questo, Gesù ci dice di non farci spaventare, che non è la fine del mondo – perché “la fine” non sarà quando il mondo sfuggirà dalle mani amorevoli di Dio, ma quando lui deciderà di raccoglierne i destini – e che possiamo invece cogliere tutte queste sfide per dare testimonianza, anche con una certa semplicità e immediatezza.

Il Congresso Eucaristico Diocesano ci offre la sorgente per questo atteggiamento, nella celebrazione dell’eucaristia, che passa dal culto alla vita ordinaria. La tradizione dei Congressi Eucaristici non mette tanto al centro l’adorazione dell’ostia consacrata, come spesso erroneamente si pensa, ma il valore complessivo della celebrazione dell’eucaristia, di cui la Chiesa di Bologna è stata per molti decenni maestra ineguagliata riconosciuta a livello mondiale. I congressi eucaristici, si propongono, infatti, di recuperare il significato dell’atto del celebrare il culto in spirito e verità e in santità di vita, migliorando certamente lo stile della celebrazione, ma anche permettendo di raccoglierne la ricchezza da portare nella propria vita personale e nella pastorale della comunità.

Vorrei perciò, tra le altre cose, provare cogliere questa opportunità, radicandoci nell’essenziale della celebrazione, soprattutto nella celebrazione feriale. Sono appena stato un paio di giorni in un eremo camaldolese, dove l’eucaristia ruota attorno nella maniera più sobria possibile alle due mense: l’ascolto della parola e l’offerta del pane e del vino, in modo che ci sia più spazio per il silenzio (dopo l’ascolto della Parola e un breve commento radicato nella forza dei testi) e per unire la propria preghiera all’efficacia delle parole e dei gesti dell’offerta eucaristica. Non nascondo che alcuni accorgimenti in questa direzione mi sembrano interessanti, e che il tempo del Congresso Eucaristico Diocesano potrebbe essere l’occasione per tentare di caratterizzare ancora meglio lo stile della nostra messa feriale, in modo che anche la celebrazione festiva – che raduna tutta la comunità – possa guadagnarci e offrire la gioia di una preghiera e di una festa vissute intensamente.

 Don Davide




L’amicizia nel nome di Dio

La parabola del fariseo e del pubblicano tocca uno degli aspetti più importanti in assoluto per i discepoli di Gesù e per chi voglia costruire la Chiesa così come lui l’ha voluta.

Gesù si confrontava spesso con i farisei, proprio perché il suo stile era quello di proporre un’autentica interpretazione della Legge; lui stesso, mentre prendeva radicalmente le distanze dai sadducei (i capi del popolo, la classe sacerdotale legata al culto del Tempio), si inseriva piuttosto nello stile dei grandi maestri e interpreti della Torà. Per questo prende un tema fondamentale come quello della santità di vita, che era fortemente legato al bisogno di non “mischiarsi” a chi aveva una condotta lontana dalla Legge, per riorientarlo al suo significato originale, più vero e più giusto.

Il pubblicano sta di fronte a Dio con l’intima presunzione di essere giusto, e disprezzando l’altro. Innanzitutto Gesù vuole correggere questa comprensione della fedeltà ai precetti della Legge come possibilità di autogiustificazione. La fedeltà e la condotta morale, infatti, neanche nelle Scritture di Israele sono un modo per rivendicare dei diritti di fronte a Dio, o per mettersi al pari di lui. Al contrario, se pensiamo al Decalogo e alla promulgazione della Legge a Mosè, sono una via concreta per cercare di custodire l’amore che Dio ha rivelato per il suo popolo e la libertà che gli ha donato. Questa tipica sensibilità risuona, aggiornata, nelle parole di San Paolo ai Galati: «Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi! State dunque saldi e non lasciatevi dunque imporre il giogo della schiavitù!» (Gal 5,1). Si cerca di fare il bene, dunque, perché siamo consapevoli che questa è una via per custodire quanto di meglio la vita ci può offrire.

In secondo luogo, Gesù ci dice che non si può stare di fronte a Dio da antagonisti con il nostro fratello. È il peccato originale di Caino, che il Signore vuole redimere. La storia di Israele, che attraverso l’Elezione è certamente anche una vicenda di separazione e di scelta, è finalizzata alla comunione di tutti i popoli. Questo esito è precisamente l’evento scatenato dal Messia. Non c’è alcuna possibilità quindi, di schierarci orgogliosamente tra le fila di Dio, quando questo atteggiamento è accompagnato dal disprezzo per chi è “fuori”. Non possiamo presumere che Dio stia dalla nostra parte, se in noi non c’è quell’acuta sensibilità che ci fa sentire partecipi della storia e del destino dei nostri fratelli e sorelle, e voler bene a ciascuno senza limiti né giudizio.

La cosa è tanto più forte in quanto il pubblicano era veramente un peccatore. Commetteva un’azione spregevole conosciuta da tutti, sbagliava pubblicamente. Proprio per questo Gesù dice che bisogna essergli ancora più vicino.

Ma chi è il vero pubblicano? È colui che sta in fondo al tempio battendosi il petto. Non c’è tracotanza, in lui. Solo la conoscenza dei propri limiti, la consapevolezza della contraddizione, l’amara esperienza di sbagliare. Ecco: a tutti costoro, che bevono ogni giorno il calice amaro della propria ingiustizia, Gesù è inequivocabilmente vicino. Ma chiunque non si pente, chi opera il male con superbia, chi pensa di ingannare Dio così come inganna gli uomini, costoro sono come il fariseo. Hanno la presunzione di potere stare davanti a Dio pensando di legittimarsi, invece se ne torneranno umiliati.

Don Davide




Stazione da una camminata

Con gli occhi dietro le colonne degli splendidi portici di Bologna, quasi giocando a nascondino, ho osservato in un pomeriggio qualunque i giovani della mia città. Ho colto quattro aspetti, con la stessa caratteristica delle colonne della volta sotto Palazzo Re Enzo: quello che si dice vicino a una di esse, anche se sussurrato, si ode nitidamente presso quella opposta. Sotto alla volta, inoltre, ci si trova in un incrocio suggestivo, che si apre in tutte le direzioni sul centro storico.

Analogamente, ciascuno di questi quattro tratteggi che vorrei delineare è collegato e rimanda al suo opposto, e definisce uno spazio di passaggio in cui i ragazzi entrano ed escono continuamente, sempre affacciati su tutti i lati della loro vita. Perché “i giovani” non possono essere definiti, né tantomeno inquadrati; si può solo cercare di raccontarli.

Quattro tratti

La prima cosa che balza all’occhio sono i ragazzi seduti sui gradini davanti alla Sala Borsa. Un tempo erano più che altro la scalinata e il sagrato di San Petronio ad accogliere drappelli di chiacchiere amichevoli, ora i cordoni di sicurezza scoraggiano la sosta all’ombra del patrono, e le persone si spostano in un luogo più neutro e più moderno della vita della città.

Da quel punto di vista privilegiato, che permette osservare la piazza, l’incrocio delle vie più importanti del Centro, le Due Torri e, soprattutto, l’Apple Store, sono spettatori del mondo che passa. Non nel senso che sono fuori dai giochi; hanno piuttosto la convinzione di poterlo dominare, non appena lo decidono. Non sono ancora condizionati dalle disillusioni dei trentenni e ostentano un potenziale che chiede di essere scovato… se solo ne fossero consapevoli. Inoltre hanno tempo, non hanno bisogno di correre e così provocano un’invidia tremenda a coloro che col tempo cominciano a farci i conti in tutti i sensi.

Mentre ammiro con nostalgia questa sfrontata sicurezza, mi passa accanto un ragazzino non tanto alto, quattordici anni a dir molto, da solo. Biondissimo e con una faccia ancora da bambino nascosta sotto un’aria tesa, indurita. Non è più nella posizione dello spettatore: ora gli tocca attraversarlo, il mondo, e lo fa a passo svelto. C’è qualcosa di artificioso che mi fa capire che ha paura… La sicurezza di prima cede il passo all’insicurezza e mi sento improvvisamente in sintonia con le sue difficoltà, presenti e future. Ma come possono, i giovani, vivere nella città di oggi? Sono esposti a una complessità che disorienta e schiaccia, e l’età della loro formazione – soprattutto per i più deboli – appare una giungla, una battaglia feroce. Chi li aiuta a gestire la complessità e ad abitarla? Chi è che li protegge, senza risparmiare loro il compito di buttarsi nel mondo?

Mi sposto nel portico di Via Indipendenza. Di fronte ad H&M noto una famigliola: lui e lei, e la figlia. Difficile darle un’età: ha quella curvatura morbida nei lineamenti che tradisce il suo essere adolescente, ma non sai se è la bimba che è passata o la donna appena arrivata, in ogni caso c’è in lei qualcosa di nuovo. Noto la scritta di perline sulla sua maglia: FVCK. E mi si riapre un ricordo di adolescenza, quando a Londra indossai una t-shirt con una parolaccia in inglese e mi beccai una sgridata epocale da mio zio. Ma nella maglietta di questa giovane donna, con la V usata alla maniera latina, la ribellione di una parolaccia scritta sugli indumenti ha qualcosa di originale, un che di sofisticato. Un perfetto mix delle due lingue universali (quella nuova e quella antica), una sintesi di antico e moderno, di ribellione e snobismo. Esteticamente geniale e vincente. Qui, però, non c’è più l’austero e tradizionale zio londinese, ma la coppia di genitori indulgenti e questo contrasto, così vivido in me, mi fa pensare a come sia delicata e appassionante la ricerca di un equilibrio tra vicinanza e distanza, tra complicità e rimprovero, tra spontaneità e sforzo educativo riguardo alla vita dei giovani.

Sono ancora immerso in questo dilemma, quando vengo superato ad ampie falcate da due uomini in erba che si stanno confrontando sulla fine dell’università e l’inizio del lavoro. Mi sembra un déjà vu: il loro linguaggio esprime dubbi d’un tempo, roba che una volta si trattava nei saggi sull’adolescenza: “Non so cosa mi piace di più… Preferisco un lavoretto che mi piace, piuttosto che passare tutta la vita in ufficio dietro a una scrivania… Non voglio rinunciare ai miei sogni in anticipo… E comunque prima che mi paghino ne passa di tempo …”.

Ne passa di tempo

Questa è esattamente la domanda che mi viene: come è stato possibile che la vita dei “giovani” sia diventata così lunga? Com’è accaduto che si studi, ci si formi, poi ti venga chiesta della competenza prima di cominciare a lavorare, o una fideiussione che non ti puoi ancora permettere? Come è stato possibile che gli adulti si siano appropriati impunemente di un’età e un linguaggio non loro, sì che quando uno muore a settant’anni si dice: “Era giovane!”?

Come nel gioco delle quattro colonne, sento il sussurro che viene dalla prima: la vita dei giovani è la vita che tutti vorrebbero. Solo alcuni hanno il coraggio di congedarsi da essa con sapienza. E nella tensione generata da questo conflitto, si giocano molti degli aspetti che potrebbero istruirci concretamente su una Sapienza della vita, del tempo e dei passaggi.

Don Davide

 

Testo scritto per il settimanale SettimanaNews il 21 ottobre 2016

 




Le parrocchie di Jurassic Park

Ho letto da poco Gli sdraiati di Michele Serra, che si chiede con onestà e non senza un certo sgomento dove si è rotto il patto generativo con le giovani generazioni.

“Generazioni”, appunto. Già il sostantivo indicherebbe il rapporto tra persone di decenni diversi nello stesso mondo e nello stesso territorio: qualcosa deve essere generato, e non si tratta, evidentemente, solo della vita biologica.

La Chiesa si chiede, impaurita, dove si sia interrotto questo passaggio. C’è senz’ombra di dubbio un problema più generale legato al modo di vivere il Cristianesimo in Occidente, ma rimane la domanda che riguarda i giovani e l’educazione alla fede: dov’è il meccanismo inceppato? Cosa si è rotto nella catena di trasmissione?

Tuttavia, pare che siamo in “buona” compagnia. Come testimonia il libretto che citavo sopra, non è un problema solo legato all’esperienza cristiana, ma anche all’educazione, alla trasmissione di modelli e di stili di vita e, non ultimo, alla speranza.

La liturgia di oggi ci pone due temi principali: la fede e la preghiera. C’è qualcosa più difficile di queste due cose oggi da trasmettere? Gesù stesso sembra mettere sul piatto la serietà del problema, domandandoci: «Ma quando il figlio dell’uomo tornerà, troverà ancora la fede sulla terra?».

Paolo invita il suo discepolo e amico Timoteo a rimanere saldi negli insegnamenti che ha ricevuto «fin dall’infanzia», nella fede e persino nella lettura delle Scritture. A proposito di questa consegna di generazione in generazione, all’inizio di questa lettera Paolo aveva ricordato a Timoteo la fede della nonna Lòide e della madre Eunìce. Se penso ai ragazzi di oggi, nella stragrande maggioranza dei casi, la fede dei nonni (e talvolta anche quella dei genitori) appare qualcosa di appartenente all’Era dei Dinosauri.

Come nel film Jurassic Park, le nostre parrocchie rischiano di essere un grande parco-giochi della fede, dove si portano i bambini, si trova ancora qualche ragazzino e qualche giovane, infine ci sono i genitori che portano in gita i bimbi. Ma poi a casa, nel mondo, “da grandi” è un’altra cosa…

Salvo – quando ci fa comodo e ne abbiamo bisogno – affidarci alla preghiera (e magari avere il coraggio di lamentarci se il Signore non ci risponde prontamente). Gesù, invece, ci dice di pregare incessantemente, senza stancarci, per farci capire la preghiera come cartina di tornasole della nostra fede: chi prega? Chi legge con assiduità le Scritture? Chi si raccoglie nel proprio intimo e sotto la guida dello Spirito per discernere il proprio cammino di vita nella fede?

L’educazione all’esperienza di fede dev’essere un criterio di verifica delle nostre azioni e del nostro agire anche come parrocchia. La parrocchia è una comunità di educazione alla fede, nel senso più ampio e complessivo del termine, e noi dobbiamo continuamente lasciarci spronare, mettere in discussione e chiederci se questa frattura delle “generazioni” non sia anche perché non comunichiamo più l’originalità di quello che saremmo chiamati a testimoniare.

Don Davide




Il cuore incandescente di Dio

La scena del vangelo di oggi è di quelle che ci invitano a vedere oltre: Gesù accoglie immediatamente la supplica di dieci lebbrosi e li esorta a presentarsi dal sacerdote, come prescrivevano la Legge e le usanze sociali. Essendo la lebbra una malattia che aveva influenza nel campo della purità cultuale, infatti, solo il sacerdote poteva attestare i casi di guarigione e riammettere la persona guarita nella società (altrimenti i lebbrosi dovevano stare in disparte) e al culto (da cui i lebbrosi erano esclusi).

Invitando ad andare dal sacerdote, quindi, Gesù chiede agli ammalati di fare un duplice atto di fede: il primo, nella sua parola che ha il potere di guarirli; il secondo, nel fatto che anche se non c’è stato ancora alcun segno, mentre andranno dal sacerdote, la guarigione avverrà. Potrebbero essere ingannati, potrebbero pensare che è una scusa di Gesù per toglierseli dai piedi, invece devono fidarsi. Prontamente, mentre sono in cammino, vengono guariti.

A quel punto, solo uno abbandona la preoccupazione di farsi dichiarare guarito, per tornare indietro a ringraziare Gesù. Non è che i nove restanti abbiano fatto una cosa brutta: hanno messo in pratica l’indicazione di Gesù; la certificazione del sacerdote era indispensabile e dobbiamo pensare a quale dovesse essere il loro entusiasmo, di vedersi guariti e potere finalmente tornare alla vita normale.

Perché Gesù allora sembra così severo?

Le sue parole ci invitano a scrutare ciò che è più prezioso della vita stessa, in quanto ne è la vera sorgente, ciò che ci rende uomini e donne “spirituali” e non solo uomini e donne “animali”: ossia la capacità di riconoscere che la vita è un regalo e possiamo esserne grati. Nel momento in cui percepiamo che qualcosa ci è stato donato, sentiamo vividamente cos’è l’amore. È un amore che guarisce, che sana, che rigenera, ancora prima della salute, del benessere e delle nostre relazioni sociali. Forse possiamo capire meglio di cosa si tratti con un esempio.

Possiamo considerare tutti quei casi in cui la vita “esteriore” sembra sfortunata: problemi di lavoro, relazioni faticose, fallimenti… Siamo tutti talmente presi dall’ansia dell’autorealizzazione (che sembra diventata la nuova parola d’ordine del nostro mondo) da pensare che una vita non “realizzata” secondo i nostri canoni valga di meno. No! Siamo noi uomini che facciamo questa deduzione. Se invece fossimo capaci tenere fermo che l’amore di Gesù non viene meno, e con esso la nostra dignità di figli di Dio, probabilmente genereremmo meno sofferenze, e noi stessi vivremmo più fiduciosamente e sereni.

Mi capita spesso, quando vado a benedire, che le persone mi dicano: “Speriamo che il Signore mi dia un po’ di salute, perché quando c’è la salute c’è tutto!”. Capisco il discorso, ma nell’intimo mi ribello. Perché non è vero: ci sono persone straordinarie, che non godono affatto di buona salute (e neanche di una salute mediocre, a dirla tutta) e persone meschine come poche che sono in perfetta forma fisica. San Paolo scrive una frase folgorante nella Seconda lettera ai Corinzi: «Siamo afflitti, ma sempre lieti; poveri, facciamo ricchi molti; gente senza nulla e invece possediamo tutto, il Signore del cielo e della terra» (2Cor 6,10). Questo è esattamente il senso del Vangelo di oggi: c’è qualcosa di più profondo che caratterizza la nostra esistenza, ed è la consapevolezza dell’amore creativo e rigenerativo di Dio Padre, che si manifesta in Gesù.

C’è da aspettarsi che l’unico che vivrà davvero bene la sua condizione di uomo guarito e rigenerato sia colui che è tornato da Gesù, mentre quegli altri saranno “solo” in salute, senza avere afferrato il segreto della vita.

Oggi la nostra comunità affida il “Mandato” a tutti i catechisti, gli educatori e i responsabili delle attività pastorali della parrocchia. Non c’è altro augurio che possiamo fare di questo: che siano guide capaci di fare vedere oltre, di posare lo sguardo nel cuore incandescente di Dio, dove arde il dono della vita e splende l’amore concreto di Gesù per noi.

Don Davide




Fede o non fede? Questo è il problema

«La fede ci fa essere credenti, la speranza ci fa essere credibili, ma è solo la carità che ci fa essere creduti».

Purtroppo, questa bella sentenza non è mia. L’ho sentita dalla testimonianza dei ragazzi di Castenaso, sabato scorso, durante la consacrazione della loro nuova chiesa, e ho notato con gusto che aveva colpito tutti. La sfrutto, in occasione di questa riflessione domenicale, perché mi sembra una buona sintesi delle letture della liturgia.

Al centro del vangelo c’è la questione della fede. I discepoli chiedono a Gesù di averne un po’ di più, ma lui corregge la loro domanda, ricordando che la fede non è una questione di misura. La fede o c’è o non c’è. Tanto che ne basterebbe la “misura” più piccola che l’occhio nudo riesce a vedere, per vedere la potenza della fede stessa. Invece noi diciamo sempre: “Mi fido, ma non abbastanza”… “Ci credo, ma mi comporto come se non ci credessi fino in fondo”… “So che il Signore è vicino, ma penso che tutto dipenda da me”… Dobbiamo ammetterlo: in questi casi, in realtà, la fede non c’è, perché la fede è un’esperienza sintetica della nostra esistenza, e non può essere vissuta se non integralmente. Diverso è il caso del dubbio, che sta sul piano del razionale, e certo può toccare anche qualche nostra paura. Però io posso avere qualche dubbio, e allo stesso tempo consegnarmi con fiducia, quasi facendo una scommessa.

Nella stupenda prima lettura del profeta Abacuc, invece, siamo incoraggiati ad avere speranza: «E’ una visione che attesta un termine, se indugia attendila…» e subito prima: «Scrivila bene e incidila sulle tavolette…». Il profeta vede l’intervento del Signore a sollevare una condizione difficile come imminente. L’atteggiamento di chi non dispera, di chi guarda al futuro con serena fiducia e con abnegazione per il suo lavoro, è la condizione necessaria perché qualcuno possa cogliere un segno significativo a partire dalla nostra testimonianza.

Infine, la seconda lettura ci ricorda di ravvivare il dono che ci è stato dato, quel dono che caratterizza e orienta la nostra vocazione. Il primo di questi doni è lo Spirito Santo ricevuto nel Battesimo; poi ogni persona sposata e ogni persona che ha dato un orientamento definitivo alla propria vita ha ricevuto questo dono. Per “carità” si intende questo: vivere con amore e con determinazione la nostra chiamata particolare. Non abbiamo ricevuto uno spirito di timidezza, ma di forza! Questo dono lo custodiamo soprattutto donandolo agli altri, mettendolo in circolo e trasmettendolo ai più piccoli, perché davvero se la fede non può non esserci, e la speranza sostiene il nostro sguardo fiducioso al futuro, è solo la carità che condensa il senso della nostra esistenza.

Don Davide




Troppo facile fare i profeti “low cost”….

Le letture di oggi feriscono e non sono per nulla politicamente corrette o rassicuranti. Colpisce la serietà con cui Gesù ci chiede di guardare alla disuguaglianza presente nel mondo, con immagini vivide e alquanto realistiche. Le attenzioni riguardo alle povertà e ai bisogni a cui ci richiamano il papa e il nostro vescovo, che appaiono belle e incoraggianti, e danno un po’ di lustro all’immagine della chiesa, in realtà chiedono una conversione profondissima da parte di ciascuno di noi. Sarebbe troppo facile fare i profeti low cost amplificando le accuse di Amos o mettendoci nella schiera di quelli che non avrebbero mai fatto come il ricco epulone con il povero Lazzaro, ma purtroppo so che non sarebbe autentico. Sento un profondo bisogno di colmare una distanza che è presente prima di tutto in me, una vera esigenza di conversione. Bello che i nostri pastori ci richiamino, ma poi ci tocca fare sul serio!

Invece che dire: “Ecco! È giusto quello che dice Amos, o che dice Gesù! Il mondo è brutto e cattivo! Voi siete brutti e cattivi!”, provo a chiedermi: e chi sarebbe “il mondo”? E chi è rappresentato in quel “voi”? Non sarà che invece il Signore chiede in primo luogo al suo popolo di ascoltare il richiamo presente nelle letture di oggi? Troppo facile dire: “noi che siamo la chiesa, noi che siamo i cristiani, richiamiamo voi – gli altri alle cose giuste”. Sarebbe bello, e forse sentiremmo anche il bisogno di poter dire una parola di rivincita contro “le orge dei buontemponi” che, effettivamente, ci stanno dinanzi. Ma la liturgia di oggi ci spinge a cogliere quale sia la ragione di questo messaggio.

Cos’è che effettivamente sbagliano i “buontemponi”? Cos’è che sfugge clamorosamente al ricco epulone? Mi sembra che sia la consapevolezza di un destino comune. Il ricco epulone non può dire: “Fortunatamente a me va bene, io mangio, mi vesto, non mi mancano i soldi… e pazienza per i poveri Lazzari…”. Questo bene, in una forma o in un’altra finirà. È questo il punto: non è che si voglia fare gli avvoltoi, della serie: “Non vedo l’ora di vedere la tua disgrazia, così impari!” è che il mondo è voluto da Dio con una solidarietà che lega le sue realtà e i suoi membri, e laddove questa manca, tutto viene trascinato nella rovina.

Papa Francesco, in Israele, ha operato con una semplice considerazione un rovesciamento di paradigma. Non cito letteralmente, ma il concetto è questo: durante gli orrori della guerra, e nelle riflessioni che ne sono seguite dopo, ci siamo sentiti in diritto di chiedere per tanto tempo: “Dov’era Dio?”, ma è troppo facile dare la colpa a lui di azioni che abbiamo compiuto noi. Dov’erano gli uomini che hanno venduto la propria coscienza al Male? E dov’erano tutti gli altri che avrebbero dovuto alzare la voce per impedire i massacri? E dove sono oggi gli uomini che si assumono la propria responsabilità, invece che dire: “Perché Dio permette che i bimbi muoiano di fame?”. Dove siamo noi?

Il Signore quindi ci interpella perché non dimentichiamo questa comunione fondante, che sfocia direttamente nel dovere e nel bisogno di solidarietà, comunione e condivisione. Certamente, al contrario di quanto si pensi quando si dice “Dov’è Dio?” con troppa leggerezza, le letture di oggi ci ammoniscono anche severamente che ci sarà un intervento di Dio, il suo giudizio, che sarà senza misericordia contro chi non avrà usato misericordia. Ben lungi dall’essere uno spettatore imparziale, quasi un legittimatore di quelli che bevono il vino in larghe coppe e vestono abiti smodatamente costosi, il Signore si erge come giudice dalla parte delle vittime e non tollererà la loro esclusione. Nella chiesa si è troppo accentuato il tema del giudizio su singoli atti morali di buon comportamento, al punto che sembra che dire le parolacce sia più grave che depredare il povero o disinteressarsi del misero, ma il giudizio di Dio, ossia il suo intervento nella storia, inequivocabile e severo, si consuma soprattutto quando gli uomini trascurano, escludono o violano altri uomini. Nessuno tocchi Caino, ci ammonisce Dio nella Genesi, ma perché la vendetta è riservata a lui in persona!

Ci sono, tuttavia, anche esempi e stimoli belli, e vorrei concludere con uno sguardo positivo e incoraggiante posato su uno di questi. Insieme a tante altre circostanze, in verità, in occasione della raccolta per il terremoto ho osservato e apprezzato una disponibilità rara ed edificante, e abbiamo raccolto una somma significativa. Magari si poteva fare anche meglio, ma almeno ho l’impressione che non siano solo le briciole che cadono dalla nostra tavola, e questo mi edifica e mi fa essere in dovere, in quanto a servizio della comunione, di ringraziarvi di cuore.

Don Davide




I furbi, chi governa e gli amministratori

È davvero un saggio di attualità la liturgia odierna, la quale ci propone un campionario di situazioni che sentiamo molto vicine.

La prima lettura ci presenta la figura dei “furbi”: quelli che all’esterno, o apparentemente, vogliono apparire corretti, ma poi tramano nel cuore le peggiori empietà. Il pensiero che costoro fanno sulla legge del Sabato è spaventoso: “Vabbè, ci tocca aspettare il Sabato, ma speriamo che passi presto così possiamo tornare a fare gli impostori!”. La loro colpa è di svuotare completamente il valore della rettitudine e che osservano la Legge pensando in realtà che non ci sia un Dio in cielo, o illudendosi che egli non veda. Invece lui giura: «Certo, non dimenticherò mai tutte le loro opere!» (Am 8,7).

San Paolo, al contrario, valorizza al massimo la responsabilità e i suoi significati, al punto da chiedere con insistenza che si preghi per chi è incaricato di governare. Ben lungi dall’essere un conservatore o un difensore dello status quo, Paolo sa che tali incarichi necessitano della più grande serietà, umanità, onestà e competenza; per questo invita i credenti ad accompagnare un compito così importante con la forza della preghiera. La posizione di Paolo è l’esatto contrario di quella dei “furbi”. Non ci deve essere nessun interesse per le proprie cose, nessuna smania di dare sfogo alle frustrazioni o alle proprie preoccupazioni; il governo riguarda il bene di tutti (in positivo) o il male di tutti (in negativo), quindi il cristiano deve tenere lo sguardo fisso sull’opportunità di superare i personalismi per favorire il più possibile il bene.

Nel vangelo, Gesù loda un amministratore “disonesto”. Scelta politicamente scorretta: ce lo immaginiamo cosa succederebbe oggi se Gesù avesse rilasciato una dichiarazione di tal fatta? Sarebbero comparsi titoli del tipo: “Gesù provoca ancora!”, oppure: “Leader carismatico religioso invita pubblicamente alla disonestà” ecc. ecc. Eppure, con una delle sue sagaci parabole, Gesù smaschera la micidiale ambiguità del denaro e ci obbliga a considerare il rapporto ossessivo e deviato che abbiamo con esso: «Non si può servire a Dio e al Denaro» (Lc 16,13).

Questi tre scenari di incredibile attualità mi fanno pensare ad altrettante situazioni in cui la parola di Dio ci edifica: la ripresa delle attività dopo il tempo dell’estate (lavoro, parrocchia, sport, interessi); la scuola; la drammatica recente esperienza del terremoto.

Il compito educativo di tutte le realtà coinvolte nella formazione della persona, dovrebbe essere quello di favorire un’autentica dignità umana e un profilo morale esemplare, non quello della “furberia”. I furbi ci stanno così antipatici perché sono degli “omaruncoli”, dei “poveretti” direbbero i ragazzi, eppure ogni tanto ci lasciamo tentare dal pensiero di “voler fare come loro” (attenzione: non di “voler essere” come loro!), per avere la strada in discesa, e perché ci sembra che rimangano sempre impuniti, che la facciano sempre franca, che cadano sempre in piedi. Ma invece non è così: per dirla con le parole di Gesù: “Non c’è nulla di nascosto che non debba essere manifestato!” (Lc 12,2).

La meravigliosa avventura della scuola, dovrebbe essere per ragazzi e docenti l’opportunità di allargare gli orizzonti al bene comune e al desiderio/bisogno di costruire le basi (culturali ed umane) per assumere incarichi anche gravosi con la massima coerenza e competenza. Sono stato colpito, in questi ultimi giorni, dal botta e risposta su sociale e quotidiani polarizzato intorno a due questioncine di poco conto, ossia sulla simpatica iniziativa di un professore di latino di proporre la traduzione del tormentone dell’estate: “Andiamo a comandare” (se non sapete di cosa si stia parlando, fermato un qualunque giovane per strada e chiedete!), oppure sulla vicenda del papà che non ha fatto fare i compiti al figlio scrivendo la lettera di motivazioni ai professori. Senza entrare nel merito segnalo, come sia facile perdere di vista i veri tesori della scuola e smarrirsi in polemiche di nessun conto.

Infine, l’eterna opera di divisione operata dal Denaro (nome proprio di un dio negativo), mi ha fatto pensare al terremoto recente. Oggi, in tutte le chiese d’Italia, facciamo la raccolta per aiutare le popolazioni colpite, ma attorno al denaro si consumano sempre le crisi e le fatiche: soldi destinati a mettere in sicurezza le strutture spesi per altre cose; sciacallaggi (reali e mediatici) e la grande sfida dell’aiuto alle popolazioni colpite per affrontare l’inverno, la ripresa delle scuole e il lavoro, insieme alla ricostruzione. Non si può servire a Dio e a Mammona, anche in questo caso possiamo decidere chi dei due vogliamo servire.

Don Davide




Ancora la misericordia, nel nome del Padre

Come il canto fermo di una sinfonia, o il ritornello nelle canzoni moderne, ogni tanto il tema della misericordia torna fuori a ricordarci che dobbiamo rimanere intonati su quella nota, se non vogliamo steccare. La liturgia di questa domenica ci richiama in maniera esplosiva a mettere al centro dei nostri vissuti la misericordia di questo Dio, che si fa conoscere principalmente come un Dio che perdona l’infedeltà del suo popolo, un re che gioisce quando un suddito si avvede del suo sbaglio, un Padre che perdona sempre e determinato a rigenerare la vita attraverso questo perdono.

Come siamo arrivati in secoli passati a rendere opaco, o quasi secondario, questo insegnamento è davvero un mistero. Tuttavia, dobbiamo davvero nuovamente radicarci nelle maestose immagini del vangelo di oggi: bisogna sapere e far sapere che il nostro Dio è disposto a fare di tutto pur di riavere ciascuno di noi! E poi ancora che è questo Padre che non si stanca di aspettare, che non dice – come faremmo noi – “questo è troppo”, ma che si compiace di aspettarci per poterci riabbracciare e, infine, di questo Dio che ci spinge continuamente ad accettare i nostri fratelli, a riconciliarci con loro e così, almeno in parte, a sperimentare la “festa della vita”.

Immagino i cavalieri durante un grande torneo medievale, pronti appena sotto la torre del castello, per poi giocare in campo aperto. Sono tutti bardati, hanno indossato le armature più belle e le armi più lucide. Suona la tromba ed essi si riconoscono in quel suono, incomincia l’avventura. Così, per noi, oggi, ciascuno al suo livello e secondo le proprie capacità, ci armiamo delle nostre armi splendenti e migliori. Dal palazzo del Re proviene il segnale: suona la tromba, è il suono inconfondibile della misericordia, è il nostro stile, il nostro vessillo. Andiamo nella nostra avventura con le insegne inconfondibili di una pecorella, di una monetina, di un figlio riabbracciato.

Don Davide




Il preventivo della gioia

Si ricomincia il nostro percorso di comunità, con un invito molto forte di Gesù. Il rapporto con lui dev’essere autentico, dobbiamo avere il coraggio di tenerlo come riferimento decisivo per le attività, per i progetti che vogliamo realizzare, per il nostro stile di chiesa.

Gesù ci sprona a misurare le forze; dunque, la prima considerazione che dobbiamo fare è: desideriamo ascoltare Gesù e provare a modellare il nostro essere cristiani come lui ci propone? È come fare un progetto e un preventivo, per sostenere un impegno importante.

Le tragedie legate al terremoto che ha appena colpito il centro Italia ci mostrano drammaticamente quanto gravi possano essere le conseguenze di una costruzione non fatta a regola d’arte. Mentre ricordiamo le vittime con cordoglio e siamo solidali a tutte le persone colpite con la preghiera e con l’azione, pensiamo anche a un’altra responsabilità che ci riguarda: quella di testimoniare il Signore risorto, vera speranza di ogni ricostruzione e rinascita possibile.

All’inizio di questo nuovo anno pastorale, perciò, vogliamo valorizzare la riserva di energia che è la gioia. Fortunatamente, possiamo attingere alla gioia e l’entusiasmo che ci hanno dato i campi dei ragazzi e dei giovani. Quattro ragazze hanno fatto il campo di formazione nazionale dell’ACR; il gruppo delle superiori è stato a Torino per interrogarsi sul contributo della comunità cristiana alla vita della città; il gruppo ACR è stato al Falzarego per vivere la gioia che il Signore ci dona e per imparare come regalarla agli altri; infine, i ragazzi di 1° media hanno appena trascorso qualche giorno per lanciare il gruppo medie anche per loro.

Vorrei che questa gioia della fede e della comunità fosse davvero il nostro serbatoio per quello che vorremo edificare quest’anno. Sogno che la nostra preghiera, le nostre attività e anche i nostri impegni possano attingere da esso, per rivelare che siamo davvero animati dallo Spirto del Signore risorto.

Penso che sia questa la sapienza che ci invita a ricercare la prima lettura, e anche quella forza autenticamente liberante di cui parla San Paolo, nella Lettera a Filemone.

È in gioco non solo la fisionomia di una comunità parrocchiale, ma la testimonianza che possiamo offrire agli uomini e le donne che abitano il nostro territorio, e anche l’iniezione evangelica che siamo tenuti a dare alla nostra cultura.

Don Davide