Una sfida alla violenza

Giovanni vedendo Gesù venirgli incontro, dice: Ecco l’agnello di Dio. Un’immagine inattesa di Dio, una rivoluzione totale: non più il Dio che chiede sacrifici, ma Colui che sacrifica se stesso.

E sarà così per tutto il Vangelo: ed ecco un agnello invece di un leone; una chioccia (Lc 13,31-34) invece di un’aquila; un bambino come modello del Regno; una piccola gemma di fico, un pizzico di lievito, i due spiccioli di una vedova. Il Dio che a Natale non solo si è fatto come noi, ma piccolo tra noi.

Ecco l’agnello, che ha ancora bisogno della madre e si affida al pastore; ecco un Dio che non si impone, si propone, che non può, non vuole far paura a nessuno.

Eppure toglie il peccato del mondo. Il peccato, al singolare, non i mille gesti sbagliati con cui continuamente laceriamo il tessuto del mondo, ne sfilacciamo la bellezza. Ma il peccato profondo, la radice malata che inquina tutto. In una parola: il disamore. Che è indifferenza, violenza, menzogna, chiusure, fratture, vite spente… Gesù viene come il guaritore del disamore. E lo fa non con minacce e castighi, non da una posizione di forza con ingiunzioni e comandi, ma con quella che Francesco chiama «la rivoluzione della tenerezza». Una sfida a viso aperto alla violenza e alla sua logica.

Agnello che toglie il peccato: con il verbo al tempo presente; non al futuro, come una speranza; non al passato, come un evento finito e concluso, ma adesso: ecco colui che continuamente, instancabilmente, ineluttabilmente toglie via, se solo lo accogli in te, tutte le ombre che invecchiano il cuore e fanno soffrire te e gli altri.

La salvezza è dilatazione della vita, il peccato è, all’opposto, atrofia del vivere, rimpicciolimento dell’esistenza. E non c’è più posto per nessuno nel cuore, né per i fratelli né per Dio, non per i poveri, non per i sogni di cieli nuovi e terra nuova.

Come guarigione, Gesù racconterà la parabola del Buon Samaritano, concludendola con parole di luce: fai questo e avrai la vita. Vuoi vivere davvero, una vita più vera e bella? Produci amore. Immettilo nel mondo, fallo scorrere… E diventerai anche tu guaritore della vita. Lo diventerai seguendo l’agnello (Ap 14,4). Seguirlo vuol dire amare ciò che lui amava, desiderare ciò che lui desiderava, rifiutare ciò che lui rifiutava, e toccare quelli che lui toccava, e come lui li toccava, con la sua delicatezza, concretezza, amorevolezza. Essere solari e fiduciosi nella vita, negli uomini e in Dio. Perché la strada dell’agnello è la strada della felicità.

Ecco vi mando come agnelli… vi mando a togliere, con mitezza, il male: braccia aperte donate da Dio al mondo, braccia di un Dio agnello, inerme eppure più forte di ogni Erode.

(p. Ermes Ronchi)




Battesimo di Gesù. Desiderio di comunione

Tre sono i misteri che si celebrano legati alla manifestazione di Gesù: l’adorazione dei Magi; il battesimo ricevuto da parte di Giovanni Battista al Giordano; la trasformazione dell’acqua in vino alle nozze di Cana.

In questi eventi si svela che Gesù è il Messia che chiama tutti i popoli a conoscere il Dio d’Israele; che il messia è presente, confermato e indicato da un nuovo profeta: Giovanni Battista e, infine, che Gesù dona la gioia che tutti attendiamo, nel simbolo del vino buono.

Per questo, la celebrazione del Tempo di Natale giunge fino al giorno del battesimo di Gesù, quando Gesù è ormai adulto: il bimbo che è nato, ora inizia la sua opera di salvezza rivelandosi al mondo.

In tutto questo Gesù compie un palese atto di umiltà: si mette in fila con i peccatori, lui che non lo è affatto, e anche di fronte all’obiezione di Giovanni Battista, risponde che si compia ogni giustizia.

La giustizia di cui parla Gesù è quella di una grande condivisione, di un senso di comunione che oserei dire universale, con tutti quelli che sono segnati dal peccato e che non sono dispiaciuti. Non con quelli che sono assuefatti dal potere e stanno nei palazzi dei re, e che non si sognano nemmeno di andare da Giovanni Battista, in quella regione polverosa, con tutti quei poveri disgraziati! Quelli non sono dispiaciuti, non soffrono e invece fanno soffrire! Invece Gesù si mette con tutti quelli che sono dispiaciuti, che soffrono (soprattutto per causa di chi ha più potere di loro), che hanno un desiderio autentico di cambiare, che attendono la pace del Messia e la speranza operosa di un mondo migliore.

Un atto simile a quello di Gesù lo avevamo già visto nell’inchino umile con cui i Magi adorarono il bambino Gesù. Un gesto assolutamente gratuito, di un grande nei confronti di un piccolo, e per questo un gesto veramente maestoso.

Il giorno dell’Epifania ho ricordato una frase dell’autrice Chiara Gamberale: “La speranza di un noi, in generale, nel mondo”. Un pensiero bellissimo, che esprime il clima di questi giorni, potremmo dire “il sogno di Dio”: il suo desiderio di fare una realtà affatto nuova rispetto a tutte le esperienze degli uomini, dove si possa dire con piena pace e piena verità: “noi”, senza che nessuno sia nemico, antagonista o escluso.

Ma questo sogno nasce dalla nostra volontà di metterci in questo cammino umile, come Gesù e al seguito di lui. Chiediamo la sua autenticità, la sua libertà di cuore, il suo intimo rapporto con il Padre, la sua capacità di entrare in sintonia con il cuore e il vissuto delle persone.

Ricomincia il Tempo Ordinario dell’anno liturgico e noi, con nuova fiducia e nuovo slancio, ci mettiamo nuovamente in cammino verso questo obiettivo.

 Don Davide




In piedi, costruttori di pace!

Inizia un nuovo anno, e per iniziarlo al meglio ci mettiamo tutti in marcia per la pace. In questo primo giorno dell’anno, infatti, la Chiesa celebra la Giornata Mondiale per la Pace, indetta per la prima volta da papa Paolo VI nel 1968 e la nostra città ha accolto la marcia nazionale per la pace.

Questo movimento di popolo, molto più che fisico, è simbolico. Ci è chiesto di metterci in cammino per le vie della pace attraverso la nostra vita, i nostri atteggiamenti, le nostre scelte e il nostro stile.

È un percorso che implica davvero un “inizio” in grande stile, perché non ci siamo mai decisi abbastanza per la pace, quindi è importante cogliere questo “inizio del tempo” (anche se profano) per provare a segnare una casella diversa sui nostri calendari.

In questi giorni leggevo sui quotidiani che ci affacciamo al 2017 con un po’ meno speranza e con un po’ più di disillusione, come se negli anni scorsi fra le primavere arabe e alcuni sogni di pace e di miglioramento ci fossimo illusi che qualcosa potesse veramente cambiare. Invece, parrebbe, torna la disillusione.

C’è qualcosa in me che resiste tenacemente a queste considerazioni. Il tempo non è un dio della mitologia, che stritola e divora e basta. Il tempo è anche percezione, il campo dei ricordi belli e brutti, è un luogo seminato di fondamenta. Su queste fondamenta io posso decidere di costruire. Posso decidere che siccome in questo campo sono state compiute cose brutte, sono state fatte le guerre, ho subito delle ferite, allora lascio la terra deserta, o costruisco un brutto edificio o lascio le cose in abbandono. Oppure posso decidere di cambiare segno, di coltivare i semi belli, di farli crescere, come è successo a Montesole. Fu fatto uno sterminio. La guerra tocco uno dei suoi punti di estrema disumanità. Oggi è un luogo simbolo di pace. Vi sorgono due monasteri, si lavora la terra, si produce cultura, si prega.

Ecco, il tempo è questo. Un potenziale consegnato nelle nostre mani. Dire che siamo pessimisti e disillusi, significa dire che ci sentiamo sconfitti in partenza. Noi, invece, vogliamo farne “il campo di Dio, l’edificio di Dio” (1Cor 3,9).

In questo primo giorno dell’anno, quasi per fecondarne il frutto, concludiamo anche l’Ottava di Natale: gli otto giorni, secondo il “tempo della resurrezione” in cui la Chiesa prolunga la celebrazione delle grandi feste. Nell’indimenticabile profezia di Isaia leggiamo: “Poiché un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio. Sulle sue spalle è il segno della sovranità, e il suo nome sarà: Principe della Pace… e la pace non avrà fine” (Is 9,5-6).

In questo tempo, che è un inizio sul calendario di una nuova opera e stagione di pace, noi siamo benedetti e accompagnati dal tempo della salvezza e dalla grazia del Re della Pace. Mi viene allora da non farvi i soliti convenzionali auguri di inizio anno, ma di usare le memorabili parole di don Tonino Bello, quando a Verona iniziò a promuovere questa sensibilità per un mondo nuovo, e che sono come una sintesi di tutto il bene e l’impegno che vi vorrei augurare: “IN PIEDI, COSTRUTTORI DI PACE!”.

Don Davide




Natale 2016. Il presepe e la carità

Lui non vorrebbe mai che io lo dicessi, ma il presepe che vedete sotto l’altare l’ha disegnato don Valeriano.
A sinistra vediamo il bue, che guarda verso di noi quasi per incoraggiarci. Nonostante la sua mole maestosa, non fa paura a nessuno, nemmeno a un piccolo uccellino che si posa sulla sua schiena. Se ne sta lì acquattato con l’occhio languido a svolgere placidamente il suo compito, non di scaldare il bambino, ma di indicarlo: «Il bue conosce il suo proprietario e l’asino la greppia del suo padrone» (Is 1,3).
Così anche l’asino sembra accorrere come se fosse in ritardo, affaticato dopo l’ultimo carico e quasi in procinto di inchinarsi con lo sguardo umile al piccolo bimbo.
Appena sullo sfondo, Giuseppe. Sta sempre un passo indietro lui, non ruberebbe mai la scena a Maria e al bambino. Da dietro, veglia su tutti: sulla sua famiglia, ma anche sugli animali. Ha troppa cura della creazione, lui che ha imparato l’arte creativa del falegname. Alle sue spalle, un germoglio, a ricordarci la stirpe regale. E la casa del re, in questa forma semplice, non è dismessa, ma al suo massimo splendore.
Infine, al centro, Maria. Il suo viso emerge dall’oscurità, è definito dalla trasparenza, dalla luce che l’attraversa (questo, a mio parere, è il piccolo grande capolavoro di don Valeriano). È come se tutto il suo essere prendesse sostanza da un’altra sorgente. Mentre ti fissi su lei cerchi il bambino e lo trovi – se guardi bene – fra le sue braccia.

Mi fermo qui, e passo a un altro presepe, diverso, molto meno “tradizionale” ed evidente.

Ci sono le scorte del Banco Alimentare, le sportine ricevute alla Conad per la generosità di tanti, le offerte del cesto della Caritas, i biscotti dei bimbi, i cioccolatini del mercatino; e poi ci sono i pandori e i panettoni e le bottiglie di vino “perché anche le persone che ne hanno bisogno devono fare festa”, e le offerte nelle buste “che mi raccomando, padre, devono andare per la carità e per i poveri…”.
Non è che si voglia ostentare. «Non sappia la tua sinistra quello che fa la tua destra, dice il Signore» (Mt 6,3), ma non è questo il punto.
Non mi ero mai soffermato su questa enorme corrente tesa ad invertire la percezione di un diffuso senso di disinteresse. Non so per quale “oscuro” (è proprio il caso di dirlo) motivo, qualcuno ci vuole convincere che sia così: che la gentilezza sia persa, la gratuità smarrita, e che l’interesse e la solidarietà non stiano più di casa fra noi. Ma non è così.
Forse tutto il bene che circola grazie al Natale è molto perfettibile. Forse non è ancora tantissimo. Forse è ancora poco costante e troppo saltuario. Ma mi sono chiesto: e se non ci fosse? Se non ci fosse tutto questo concreto bene che accade, e non quello ideale, come starebbero le cose?

Sopra tutte queste braccia generose e attraversate in maniera onesta da una sorgente di luce, trovi Gesù. Basta solo cercarlo. Come nel presepe di don Valeriano.

Un affettuoso augurio di buon Natale.

Don Davide




Natale 2016 – messa della notte

LA SIRIA

Secondo la geografia del tempo, Betlemme si trovava in quella regione dell’Impero Romano chiamata Provincia di Siria, anche se non corrispondeva esattamente alla Siria di oggi.

In questo viaggio ideale nella regione di Siria, ci mettiamo in cammino insieme a Giuseppe, quasi chiedendo il permesso di unirci alla sua piccola carovana, composta di una donna incinta e, presumibilmente, di un asinello. Mentre ci avviciniamo le insegne militari si moltiplicano

GIUSEPPE

Io me lo immagino, Giuseppe, concentrato in un profondo raccoglimento. In tutto il Vangelo non dice una parola, eppure è attivo e attentissimo a tutto quello che gli succede intorno.

Credo che ripetesse le parole di Isaia: «Ogni calzatura di soldato e ogni mantello intriso di sangue saranno bruciati… Ci è dato un bambino… la pace non avrà fine» (cfr. Is 9,1-6).

Voglio fare spazio anch’io, in questa notte, a tutte le guerre. A tutti i bimbi che soffocano nella polvere delle macerie. A tutti i soldati che muoiono e uccidono. A tutte le donne e gli uomini che devono lasciare le loro case e migrare in un altro posto.

Voglio che si levi dal mio cuore un immenso desiderio di pace. Non posso andare in Siria o all’ONU a chiedere la pace, ma posso essere costruttore di pace. A partire da me, dal mio carattere, dal modo in cui mi relaziono, da come mi interesso della politica, dalle scelte che faccio, dallo stile che scelgo. Voglio porre i segni della pace nel dialogo e con le mie azioni.

Non voglio serbare rancore.

MARIA

Di Maria sappiamo invece che serbava le cose meditandole nel cuore.

Penso che alla prima vista dell’Aquila Imperiale abbia cominciato a comporre le tessere del mosaico. Lei, sposata a un uomo della famiglia di Davide; suo figlio, un discendente del re. La promessa dell’angelo e quella preghiera spontanea che le era diventata cara: «Ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili» (Lc 1,52).

Il Magnificat: un inno ribelle di pace. Contro gli stupidi che incrementano le armi nucleari, le vie della pace passano dove le persone più umili svelano una dignità regale.

È più forte un bambino che nasce di una bomba che esplode. Un bambino è vita. Una bomba è solo morte.

Loro si divertono a distruggere, io no. Vigilerò, agirò, ma non permetterò che mi turbino neanche un attimo. Io voglio solo fare crescere. Non trovo nessuna gioia più grande di questa.

GLI OSPITI

Siamo convinti che Maria e Giuseppe non abbiano trovato ospitalità. Ma proviamo a immaginare le cose diversamente: proviamo a rimanere fedeli al testo.

Il racconto ci consegna una sequenza pacata di fatti, senza alcun elemento polemico:

«Mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. / Diede alla luce il suo figlio primogenito, / lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, / perché per loro non c’era posto nell’alloggio» (Lc 2,7).

Proviamo a pensare che un uomo dorma sulla soglia della propria abitazione, si accorga di una donna, appoggiata al braccio del marito, il volto preoccupato, piegata dal parto imminente. “Venite, siamo in tanti… la casa è strapiena ma…”. Lui si scansa, i piccoletti occupano il suo giaciglio e si fa posto a Maria. Le donne di casa l’aiutano. Quando nasce Gesù e tutto il trambusto si calma, non c’è davvero un centimetro in più in quello spazio. Il bimbo è quieto, la mamma deve riposare, e anche gli altri. Domani si lavora! C’è lì la mangiatoia degli animali; Giuseppe, con l’occhio capace di trasfigurare le cose, la guarda e gli sembra una culla, quasi come quelle che fa lui. Ecco. Pone il bimbo lì sopra. Non ci pensa neanche che sia una cosa grandiosa. I bimbi lo vedono, gli adulti anche. In seguito ai prodigi di quella notte, lo racconteranno.

NOI

La Siria e il desiderio di pace come contesto. Giuseppe, Maria e gli ospiti come esempi di responsabilità sullo scenario del mondo.

A questo punto è come se il racconto, improvvisamente, voltasse pagina.

I messaggeri di Dio fanno capolino per dire che siamo noi a dover continuare la storia. Abbiamo la responsabilità di guidare da davanti e di vigilare da dietro questo mondo, come i pastori, certi che possiamo assolvere al nostro compito lavorando in pace.

Don Davide




Come gli abissi più belli dei mari

Capita di essere trasferito dalla parrocchia dopo otto anni, e una ragazza che sapevi brillante – certo – ma che era stata quasi nascosta fino ad allora, ti scrive una lettera mozzafiato dove recupera le esperienze condivise, la vita imparata, le parole ascoltate e i passaggi in cui si è sentita accompagnata.

Capita che un gruppo di ragazzi proponga al proprio parroco un’attività; questi è entusiasta e scettico allo stesso tempo: la cosa è bellissima, ma riusciranno ad organizzarsi e a portare avanti l’impegno? Arrivano suggerimenti, loro però sono autonomi, hanno un progetto e le energie per realizzarlo, incassano il permesso ufficiale e declinano gli altri aiuti ringraziando con garbo, guardando l’affettuoso prete come un nonno partigiano che volesse insegnare ad usare l’iPhone 7 al nipotino.

Capita che un giovane prete si ricordi, a una fermata dell’autobus, di dovere benedire i nuovi capi squadriglia. Invece di «ciappinare o uozzapare col telefono» (cit.) si lancia in una versione Facebook delle grandi benedizioni bibliche sul cosmo e sulle persone.

Un tesoro da non sprecare

Sono solo tre esempi, ma chiunque abbia vissuto un’esperienza rivolta ai giovani con un incarico educativo o un ruolo pastorale – e abbia conservato quella minima capacità di stupirsi che si prova di fronte al mare o a una montagna incantata dalla neve – ha potuto intravedere un patrimonio di ricchezze infinito, uno scrigno dell’interiorità che andrebbe valorizzato.

Spesso, infatti, si tratta solo di un riflesso, un indizio in una caccia al tesoro, ma la sorgente di quel bagliore si trova in un luogo assai più profondo, e rischia di rimanere nascosta. Questa è la sfida pastorale: un tesoro non rinvenuto si spreca, come un capitale investito male, che non si può usare e si logora. Tante volte sembra che non ci sia, solo perché quando vi abbiamo inciampato sopra, non abbiamo fatto come l’uomo della parabola evangelica e non siamo andati a vendere tutto, per comprare quel campo e dissotterrare il forziere (cf. Mt 13,44).

Non sarebbe questa un’esperienza del Regno, fatta con i giovani e non ai giovani? Un simile capitale andrebbe portato alla luce e incoraggiato nel vivace contesto della liberalità giovanile, e non frustrato dentro richieste di piccolo profilo, preoccupazioni moralistiche o moraleggianti di buon costume e sforzi di contenimento parrocchiale.

Baricco, in Emmaus, critica un certo modello dei ragazzi cristiani: «Il senso di colpa, sempre. Siamo dei disadattati, ma nessuno vuole accorgersene. Crediamo nel Dio dei Vangeli».[1] Bisognerebbe riuscire a rendere evidente che non è così, che la Chiesa può essere un esempio – nei gruppi, attraverso le proprie iniziative e persino nella liturgia – della capacità di dare rilievo, spessore e maturità all’interiorità bella che cova nei giovani, per i credenti e per tutti.

L’interiorità dei giovani

Sento di poterlo dire con una certa convinzione. La realtà è questa: l’interiorità dei ragazzi come gli abissi più belli dei mari. Tutto il resto è retorica.

La retorica del “non ci sono più i giovani di una volta”; la fastidiosa autogiustificazione quando li accusiamo di essere attaccati al telefonino o ai videogiochi, perché non li sappiamo integrare in una conversazione; la nostra endemica incapacità di non giudicare, non svalutare, non snobbare, non liquidare le loro ragioni e le loro domande (non parlo dell’atteggiamento tutto melassa e smorfiette che si ha con i bimbi, ma della capacità di riconoscere l’intelligenza emotiva dei ragazzi).

Anche quando si manifestano delle durezze, una forza di opposizione invincibile o delle superficialità, sono convinto che per i ragazzi, ossia in quella fase in cui i giovani si affacciano per la prima volta alla loro giovinezza, sia sempre il riflesso di qualche sensibile – alcune volte troppo sensibile – esperienza interiore.

Germoglio del Regno

Come gli abissi più belli dei mari, così l’interiorità di questi giovani “mondi” – che non ha sempre tutte le parole per dirsi e l’esperienza per farsi – non viene vista e, talvolta, nemmeno percepita da molti. Bisogna avere il coraggio di immergersi in queste acque, come dei sommozzatori dell’anima. Si scende quasi in apnea, perché appena respiri tu, finisce l’incanto loro; come le barriere coralline, che non le puoi toccare, ma solo custodirle, farle risplendere, attendere un tempo lungo perché diventino lo splendore che sono.

Forse, la parabola del seme che cresce da solo (cf. Mc 4,26-29) si riferisce in modo particolare a quella singolare esperienza del Regno che si genera nel cuore dei giovani, quando la loro interiorità e la loro sensibilità – per vie nascoste ed impossibili da seguire – cresce; quando si innamorano di un verso di una poesia o di una canzone, o vergano di getto una pagina di diario, o sognano di scrivere un libro, o si perdono suonando una musica, o si appassionano a un film. Come avvenga questo miracolo non si sa, ci ricorda il Vangelo, ma non deve mancare la fiducia che possa accadere e la prontezza di coglierne il frutto.

[1] A. Baricco, Emmaus, Feltrinelli, Milano 2009, 16.

 

Don Davide

 

Testo scritto per SettimanaNews il 22 dicembre 2016




Sì, Signore, sei davvero tu!

In un mondo che non crea posto alla speranza, non crede che ci sia Qualcuno che sa e può donarla, e quindi la considera solo un’utopia, la Chiesa, oggi, terza domenica di Avvento, ci invita alla Gioia:

“Rallegratevi sempre nel Signore, ve lo ripeto, rallegratevi!
Il Signore è vicino.” (Fil. 4,4).

Del resto quale valore può essere dato alla vita se si esclude o ignora il grande dono che Dio ci dà con Gesù? Si può fare a meno di Gesù?
L’arcivescovo Montini (futuro papa Paolo VI) era convinto di no, quando ancora nel lontano 1955 scriveva: “Oggi l’ansia di Cristo pervade anche il mondo dei lontani quando in essi vibra qualche autentico movimento spirituale. Il mondo, dopo avere dimenticato e negato Cristo, Lo cerca. Ma non lo vuole cercare quale è e dove è. Lo cerca tra gli uomini mortali: ricusa di adorare il Dio che si è fatto uomo, e non teme di prostrarsi servilmente davanti all’uomo che si fa Dio…. È una strana sinfonia di nostalgici che sospirano a Cristo perduto; di pensosi, che intravedono qualche evanescenza di Cristo; di generosi, che da Lui imparano il vero eroismo; di sofferenti, che sentono la simpatia per l’Uomo dei dolori; di delusi, che cercano una parola ferma, una pace sicura; di onesti, che riconoscono la saggezza del vero Maestro; di convertiti, che confidano la loro avventura spirituale e dicono la loro felicità per averlo trovato.”.
E forse in questa lunga categoria di cercatori o indifferenti a Gesù ci siamo noi, anche noi.
Forse anche noi cerchiamo conferme, come Giovanni Battista. Ha detto Papa Francesco in un’udienza generale “Il Battista attendeva con ansia il Messia e nella sua predicazione lo aveva descritto a tinte forti, come un giudice che finalmente avrebbe instaurato il regno di Dio e purificato il suo popolo, premiando i buoni e castigando i cattivi… Ora che Gesù ha iniziato la sua missione pubblica con uno stile diverso; Giovanni soffre perché si trova in un doppio buio: nel buio del carcere e di una cella, e nel buio del cuore. Non capisce questo stile di Gesù e vuole sapere se è proprio lui il Messia, oppure se si deve aspettare un altro.”.
E Gesù lo conferma: il suo agire è la rivelazione del Padre, Dio misericordioso che dà inizio alla manifestazione del suo regno.
Scrive Papa Francesco: “Il messaggio che la Chiesa riceve da questo racconto della vita di Cristo è molto chiaro. Dio non ha mandato il suo Figlio nel mondo per punire i peccatori né per annientare i malvagi. A loro è invece rivolto l’invito alla conversione affinché, vedendo i segni della bontà divina, possano ritrovare la strada del ritorno… La giustizia che il Battista poneva al centro della sua predicazione, in Gesù si manifesta in primo luogo come misericordia. E i dubbi del Precursore non fanno che anticipare lo sconcerto che Gesù susciterà in seguito con le sue azioni e con le sue parole.”.
Poi Gesù chiede a chi lo ascolta quale sia la verità di un profeta, che nulla ha a che fare con le mode e stravaganze o la speculazione sul bisogno umano di sicurezza di tanti… anche oggi. Non è facile voltare le spalle alle tante sirene, alle cose di “quaggiù”, cioè alle cose che non hanno uno slancio verso l’amore di Dio. Come ha detto spesso Papa Francesco, dobbiamo infatti mettere in conto che i profeti “sono tutti perseguitati o non compresi, lasciati da parte. Non gli danno posto!”. Solo in quella ‘via stretta’ possiamo capire come il Natale sia una grande gioia e pace, che sorge da una povertà-libertà dalle cose e che noi vediamo invece realizzata nei segni che manifestano ogni giorno, l’amore del Padre per le sue creature, per ciascuno di noi.

(mons. A. Riboldi)




Il microscopio dell’anima

Avevo la tentazione di fare dei bilanci, poi ho pensato che sarebbe come se un bimbo che ha appena cominciato a camminare e a dire qualcosa volesse riflettere su cosa ha imparato dalla vita. No, lasciamo stare i bilanci. Due anni sono troppo pochi. Però è vero che ci sono stati dei primi passi, se vogliamo un po’ goffi, e delle prime parole, che magari vanno precisate.

Questo mi rincuora. Insieme a tutti voi abbiamo camminato e siamo riusciti a dire, almeno inizialmente, come vorremmo essere chiesa in questa via che percorriamo, uno accanto agli altri.

Poi rimane la sorpresa: sì, perché dopo il primo anno uno si guarda intorno e cerca di capire come sia girato; alla fine del secondo, invece, viene da dire: “Wow! Sono ancora vivo! E tutto sommato, sono ancora vivi anche i parrocchiani! Bene, buon risultato!”.

Con grande semplicità, ma sentita autenticità, perciò, ringrazio per questi due anni insieme: per la pazienza di chi l’ha portata e l’entusiasmo che mi ha sostenuto. Desidero continuare il nostro cammino di vita ancora più obbedienti alla Parola di Dio che ci guida, con il desiderio di celebrare le sue lodi e la sua gloria con maggiore passione, con la passione di uscire “fuori” incontro alle persone che desiderano incontrare Gesù, come Francesco (papa) e Matteo (vescovo) ci chiedono ripetutamente.

La liturgia della I domenica d’Avvento ci dà lo slancio: la sapienza del tempo, si apre con una prospettiva mozzafiato. Per la fede nel messia, molti popoli conosceranno il Signore e desidereranno spontaneamente camminare nei suoi sentieri. E gli uomini compiranno il desiderio di ogni utopia: i soldi che vengono spesi per gli armamenti, o per imparare la guerra, saranno spesi per creare strumenti di lavoro e stabilire la pace.

Visione sublime, quanto mai attuale. Gli orrori in Siria sono davanti ai nostri occhi. Mentre prepariamo con gioia il Natale dei nostri bambini, non ci dimentichiamo di quei piccoli, che come Gesù, non hanno nemmeno un’incubatrice, e devono essere scaldati… chissà… magari dal fiato di un asino e un bue. Il Natale, che è vicino, è alle porte del nostro mondo.

Perciò è quanto mai puntuale l’invito a “svegliarsi, consapevoli del momento”. Tutte le letture della fine dell’anno liturgico ripetevano lo stesso ritornello: nei tempi difficili, lì la testimonianza.

Chissà che il silenzio d’Avvento, il desiderio di pace e l’esempio della piccolezza non ci aiutino davvero a cogliere “il giorno” della luce.

Il segreto è il discernimento. In questi giorni c’è un acceso dibattitto all’interno della Chiesa, sull’interpretazione di Amoris Laetitia, l’esortazione post-sinodale promulgata dal papa (in comunione con i vescovi del sinodo) dopo la duplice assemblea sinodale sulla famiglia. Il papa rimanda continuamente al discernimento delle situazioni e chiede questa attitudine abituale al discernimento illuminato dallo Spirito del Signore.

Nell’immagine del vangelo, è ancora il discernimento che al centro. Due saranno allo stesso posto, nella stessa occupazione, con le stesse caratteristiche. Uno preso, l’altro lasciato. Perché? Evidentemente c’è qualcosa “dentro”, che l’uomo non vede, ma Dio sì. Come un microscopio per l’anima.

Chiediamo al Signore che possano corrispondere alla sua volontà il cuore e il braccio, l’intimo e l’azione, affinché possiamo cogliere con gioia un nuovo inizio, con grandi prospettive, ma desiderosi di cogliere il kayros, fin da adesso.

Don Davide




Giovani: il difficile vissuto emotivo

L’ultimo romanzo di Jonathan Franzen, Purity (Einaudi), ha un finale folgorante, nel quale – come solo i grandi autori sanno fare – evoca in poche parole un mondo intero legato ai giovani.

Una scena emblematica

La scena è questa: la protagonista, Purity Tyler, chiamata Pip, dopo molte peripezie ha ricongiunto la madre e il padre che si odiano, per poter disporre di un ingente patrimonio che le spetta di diritto, con cui intende saldare il debito degli studi e aiutare un amico a riprendersi la propria casa. Pip, vincendo le proprie resistenze e difficoltà, ha da poco accettato di stare con Jason, un ragazzo semplice e onesto che le vuole bene veramente; con lui sta aspettando in auto l’esito dell’incontro dei genitori. Qui l’autore scrive: «Pip richiuse la portiera per non fare entrare le parole, ma l’alterco si sentiva anche con lo sportello chiuso. Le persone che le avevano lasciato in eredità un mondo rovinato stavano litigando furiosamente. Jason sospirò e le prese la mano. Lei gliela strinse forte. Doveva essere possibile fare meglio dei suoi genitori, ma non era sicura di riuscirci. Solo quando il cielo riaprì le cateratte, quando la pioggia arrivata dall’immenso, buio oceano occidentale cominciò a battere sul tetto della macchina e il suono dell’amore coprì gli altri suoni, solo allora Pip pensò che forse ce l’avrebbe fatta».[1]

Un mondo consumato

Gli adulti litigano, quello che lasciano in eredità è un mondo consumato, pieno di rovine presenti o future. Esiste la possibilità di fare meglio? E come riuscirci con un fardello sulle spalle? Vengono in mente le severe parole di Gesù: «Guai a voi, che caricate gli uomini di pesi insopportabili, e quei pesi voi non li toccate nemmeno con un dito» (Lc 11,46).

L’asprezza e la nettezza di queste considerazioni raccontano la radicalità del conflitto tra le generazioni in cui i giovani, loro malgrado, sono coinvolti. Non si tratta più delle lotte per l’emancipazione o per le utopie di un mondo nuovo. La frattura di oggi non è attiva, dettata dal desiderio di cambiare le cose; questo aspetto, indubbiamente, è presente, ma è più una reazione di resistenza passiva, come chi sta per soffocare e cerca di respirare, o come uno che deve eseguire un lavoro con strumenti rotti.

Non è che il mondo di oggi sia peggiore di quello di ieri. I giovani di oggi (almeno nella contemporaneità occidentale che ci diamo come punto di osservazione) hanno più diritti, più libertà, più possibilità di quanto non sia mai stato prima, e godono di un rapporto con l’autorità (almeno le autorità “visibili”) più accessibile e dialogico. Tutto questo, però, si colloca in uno spappolamento emotivo senza precedenti – ereditato e che si continua ad aggravare – che è il fardello spesso non riconosciuto da nessuno (adulti o giovani che siano) che grava sulle spalle delle nuove generazioni. Non si intende solo l’ambito degli affetti, ma di tutti quei vissuti emotivi che intrecciano la fatica del vivere e la impastano con il nostro universo affettivo.

Tale sgretolamento emotivo logora anche le cose più semplici, fa apprezzare meno le possibilità che il nostro tempo dischiude e getta in una condizione di instabilità personale nella quale non si riesce ad attingere a nessuna sorgente interiore.

È difficile fare delle generalizzazioni: ci sono molti giovani che hanno migliorato drasticamente le condizioni culturali rispetto ai propri genitori, e indici di abbandono scolastico ancora altissimi; ci sono i giovani che si realizzano nel lavoro con brillanti risultati, e quelli che dipendono o sono bloccati dagli adulti che li hanno preceduti; il futuro che ha cambiato dal segno “promessa” al segno “minaccia” non è tale per tutti, e coglie solo un aspetto del problema.

Uno spappolamento emotivo

Il filosofo Alain Badiou, in un recente saggio dal titolo La vera vita (Ponte alle Grazie), propone una chiave di interpretazione di questa divergenza, affermando che la dialettica in cui vivono i giovani si muove tra due esiti: «la passione di bruciarsi la vita, la passione di costruirla […] il desiderio di una vita che si consuma nella sua stessa intensità e il desiderio di una vita che si edifica pietra su pietra per arrivare a possedere una casa solidamente piantata».[2]

Da una parte, lo slancio faustiano, il desiderio di vivere – in un’esistenza che si presenta senza alcun senso unificato – il maggior numero di istanti più o meno accettabili; dall’altra, lo sforzo architettato di trovare il proprio posto nell’ordine esistente, la somma degli stratagemmi utili al successo, la lotta per sottomettersi meglio di ogni altro al regime vigente. Un esito di ribellione, un esito di adattamento, che partono però da una condizione comune.

Anche quelli che apparentemente si adattano e stanno bene nella situazione presente sono accomunati agli altri dallo stesso spappolamento emotivo: affetti frantumati e parcellizzati, l’esperienza dell’amore completamente disillusa, relazioni costrette dentro la logica della competizione, dell’utilitarismo, del contrattualismo, il tempo del vivere che prosciuga ogni forma di gratuità, ferite che aprono voragini e non guariscono. Perfino la tendenza apparentemente contraria dei padri e delle madri a togliere tutti i pesi ai loro figli, ad appianare la strada caricandosi su di sé difficoltà che invece dovrebbero essere affrontate, risponde alla logica della medesima frantumazione.

I “genitori” di Purity, nel romanzo di Franzen, non sono solo mamma e papà. Sono il simbolo di un mondo precedente e la domanda implicita della protagonista può essere parafrasata: è possibile per un giovane fare meglio del mondo che è stato consegnato? È possibile farlo con un fardello sulle spalle che complica tutto? Nella strada dei giovani si profila una doppia fatica, con il rischio che, prima della meta, si risolva nella rinuncia e, dopo il traguardo, si estremizzi nella rivalsa. Per sostenere questa fatica, che nessuno può loro togliere, quella dei vissuti emotivi è una grammatica che tutti, attingendo alla sapienza creativa delle proprie tradizioni migliori, dovremmo sapere di nuovo imparare.

[1] J. Franzen, Purity, Einaudi, Torino 2016, 655.

[2] A. Badiou, La vera vita, Ponte alle Grazie, Milano 2016, 16-17.

 

Don Davide

Testo scritto per SettimanaNews il 24 novembre 2016




Bisogno di silenzio

La scena del vangelo della solennità di Cristo Re, fa da cerniera tra l’anno appena concluso sotto il segno della misericordia e il nuovo anno liturgico, che riprende con l’invito a una maggiore attenzione alla presenza di Gesù tra noi nell’eucaristia.

Oggi contempliamo Gesù sulla croce, nell’ennesimo atto di misericordia regale, con cui si fa precedere dal suo amico ladro – nuovo amico ed ex ladro – in Paradiso. È come se il suo sguardo, dall’alto, spingesse il nostro e ci invitasse a non dimenticare questo stile di misericordia, e a portarlo ancora e sempre di più nelle nostre vite, perché l’Eucaristia è il modo di Gesù di continuare la sua incarnazione tra noi.

L’apertura del Congresso Eucaristico diocesano è un richiamo a migliorare la qualità delle nostre celebrazioni e farne una sorgente per incarnare l’amore di Gesù nelle nostre giornate.

Sono da poco stato qualche giorno in un eremo camaldolese, dove la preghiera è sobria e raccolta, e la messa estremamente essenziale. In quel contesto privilegiato, ho potuto apprezzare quanto il silenzio fecondi la celebrazione.

Con questo ricordo ancora nell’animo, fermandomi questa domenica davanti alla scena della crocifissione di Gesù, la cosa che più mi colpisce è questa situazione caotica, di grande chiasso e confusione. Le persone che gridano, i sacerdoti che lo provocano, la voce sgraziata del ladro impenitente.

Oggi guardiamo alla croce come a un trono regale, e mi sono chiesto chi mai entrerebbe nel salone del trono di un grande re, con urli e schiamazzi. Di fronte a questo contrasto sentiamo la supplica del ladro pentito elevarsi da un silenzio che, evidentemente, gli ha permesso in un ultimo istante di grazia di capire quello che stava avvenendo. Lì sorge l’atto di fede, lì sorge una preghiera di salvezza, una preghiera che guarisce.

Se dovessi esprimere qual è il senso delle nostre liturgie direi proprio questo: che da un silenzio (prima ancora intimo, che esteriore) posto di fronte a Gesù, sorga un atto di fede schietto, e si possa elevare una preghiera di salvezza che ci cura e conforta in tutti i nostri bisogni.

La gioia della vita cristiana, il senso di comunione e fraternità, l’incoraggiamento a vivere la carità risultano da quel primo e più fondamentale passaggio.

Ho notato con piacere che anche il sussidio liturgico proposto dalla CEI per vivere l’Avvento nelle nostre comunità, fa leva su questa attenzione al silenzio.

Mi propongo, allora, che le celebrazioni dell’Avvento siano uno spazio privilegiato per il silenzio, con alcuni piccoli accorgimenti liturgici che vanno nell’ordine di togliere, e di sottolineare alcune attenzioni, per poi godere della pienezza nella celebrazione del tempo di Natale. In un foglietto a parte da queste brevissime riflessioni, indico quali sono le attenzioni che vorrei provare ad avere, per ora solo per il tempo di Avvento, con il proposito di verificare su quale stile migliore possono istruirci.

Se mi si passa l’esempio, è la differenza tra entrare in vecchio negozietto stile bazar e in un moderno Apple Store. Nel negozio moderno non troverai niente di superfluo, perché possa risaltare ciò che è prezioso. Ecco, nella liturgia noi abbiamo qualcosa di molto più importante che un iPhone o qualche altro strumento. Noi abbiamo qualcosa che non è da usare, ma da godere. E dobbiamo testimoniarlo come il nostro più grande tesoro.

Don Davide