La Parola che fa rotolare le pietre

Signore Gesù, sembra quasi che tu li sfidi i sepolcri.

I pesi sul cuore, i “non ce la posso fare” e in generale i massi che chiudono le tombe tu proprio non li sopporti.

Sarà forse per questo che ti diverti sistematicamente a farle saltare via, le pietre?

Viene da invidiarti, Signore: a noi non riesce così bene di togliere i macigni.

Ciascuno di noi ti raggiunge, ogni settimana, qualcuno ogni giorno, in chiesa, o con la sua preghiera o con il pensiero. Abbiamo le nostre vite, piene di cose belle, e anche faticose. Alcune le conosco, di altre intuisco solo qualcosa, ma so che possono essere molto pesanti. Ci sono macigni nel cuore e nell’anima.

Sarebbe bello se la tua parola che risuona ci convincesse che ce ne possiamo liberare, o che – portandoli con te – si possono alleggerire. Come disse Francesco d’Assisi quando abbracciò il lebbroso, scoprire che anche ciò che è amaro e insopportabile si potrebbe trasformare in dolcezza di anima e di corpo.

Sai cosa ci impressiona del racconto di Lazzaro? Che quando incontri Maria, sua sorella, ti commuovi come faremmo noi. Come se pensassi che se anche Maria non regge una situazione così – lei che era buona e credente – allora deve essere davvero insostenibile. E quando ti dicono che non c’è più speranza, tu piangi perché per te non può essere così, che la forza dei macigni sia così grande.

Non è il pianto della disperazione il tuo, è il pianto della sfida e della ribellione.

E così, per il tuo amico, ordini: «Togliete la pietra!».

Sento che lo dici a ciascuno di questi amici: togliete la pietra! Sento che lo dici agli educatori per ciascuno dei loro fratelli e sorelle più piccoli: togliete le pietre! Sento che lo ripeti agli adulti, alle famiglie, agli anziani… a chi ha dei sogni e pensa che siano bloccati.

Quando una pietra rotola via dal sepolcro, una vita si rimette in cammino.

Allora ti preghiamo, Signore: se dobbiamo dare nuovo smalto alle nostre liturgie, e valorizzarne le parti, fa che ogni volta che proclamiamo e ascoltiamo la tua parola dall’ambone, che è simbolo del Sepolcro aperto e vuoto, fa che risuoni il tuo ordine: via la pietra!

Per tutti quelli fra noi che hanno del male nel corpo o, peggio, nell’anima: perché possano tirarlo fuori dal buio, trovare qualcuno con cui parlarne, guarirne ed esserne guariti.

Per tutti quelli fra noi che sono nel buio e non vedono via di uscita, perché ci sono massi enormi che sigillano le nostre speranze: facci udire una parola che ci chiami alla vita.

Per tutti quelli fra noi la cui felicità degli affetti più cari è stata ostacolata da un sepolcro vero, da una morte vera: da un lutto. Tu che sei la resurrezione e la vita non solo nell’ultimo giorno, fa sentire fin da adesso la tua presenza concreta: che ci sei, vicino a loro.

Per chi è stato tradito, per tutti i segreti nascosti nei cuori, per le fatiche con le persone che dovremmo amare e che ci dovrebbero amare, per la paura di rimanere soli o di non riuscire nella vita, per le nostre colpe di cui ci vergogniamo e i desideri troppo belli che non abbiamo il coraggio di esprimere, aiutaci a trovare una strada da seguire e un percorso da fare… perché la tua parola ci sciolga e ci lasci liberi di andare.

Don Davide




Contemplare la meraviglia

Dopo l’intermezzo, dovuto, per commentare la presenza della grande rete in chiesa, riprendiamo l’approfondimento di alcuni aspetti della liturgia eucaristica.

Ricordo che siamo nell’anno del Congresso Eucaristico e che nel tempo di Quaresima viene chiesto alle comunità di chiedersi come si possano rendere più partecipate ed autentiche le nostre assemblee eucaristiche.

La consacrazione è il momento più alto della celebrazione dell’Eucaristia insieme alla proclamazione del Vangelo. Dopo il prefazio, che indica il rendimento di grazie specifico per quella celebrazione, inizia la preghiera eucaristica vera e propria. A seconda di quale formula si usi, la consacrazione avviene quasi subito o anche dopo un lungo memoriale e le intercessioni per la vita della Chiesa e del mondo.

La riforma liturgica ha voluto conservare un’indicazione di quando inizia la consacrazione – come forma di particolare riverenza e NON perché siano parole magiche, quasi che potessero valere senza le altre – attraverso il suono delle campanelle, che richiamano – appunto – un’attenzione e una devozione speciale per le parole di Gesù nell’Ultima Cena.

Il primo momento della consacrazione è l’epiclesi, o invocazione dello Spirito Santo sul pane e il vino perché diventino il Corpo e il Sangue del Signore. Quando il ministro dell’Eucaristia stende le mani sul pane e sul vino, è quello il momento in cui l’assemblea è invitata a inginocchiarsi.

È fondamentale, lo ribadisco ancora una volta, capire che non è un momento staccato dagli altri, ma in piena continuità con le parole che vengono dette prima e dopo: tutto il memoriale dell’opera di salvezza e dell’Ultima Cena è la preghiera che ci riporta a quell’unico sacrificio di Cristo, ma questa attenzione speciale riservata alla Consacrazione è come un invito a contemplare le meraviglie di Dio, a vedere il vero miracolo che si compie quotidianamente per mezzo della celebrazione della chiesa, l’unico vero miracolo di cui abbiamo bisogno: la presenza reale del corpo glorioso di Gesù Cristo risorto in mezzo a noi.

Diversamente dall’uso che avveniva prima della riforma liturgica, invece, l’ostensione del pane e del vino consacrati non si sottolinea più con il suono delle campanelle, perché rimane per l’adorazione silenziosa e stupita del mistero che è velato dalle specie del pane e del vino.

Le campanelle si suonano di nuovo dopo che il ministro proclama il “Mistero della fede”, per sottolineare che con la risposta dell’assemblea che si rialza in piedi si conclude l’atto della consacrazione.

Queste sfumature, che potrebbero apparire rubriciste, mirano invece a cogliere il significato spirituale del vertice celebrativo dell’Eucaristia, senza però staccarlo dal resto della celebrazione, affinché possa essere vissuto non solo come atto devozionale, ma di vera partecipazione all’offerta di Gesù, e in piena unità di cuore, di intenti e di sentimenti da tutta l’assemblea celebrante.

Don Davide




Una rete gettata dall’alto

L’immagine della rete è molto usata da Gesù nella sua predicazione: all’inizio della sua predicazione invita i pescatori futuri discepoli a gettare le reti al largo; dopo la resurrezione li invita ancora a gettare la rete in luogo preciso, per una pesca miracolosa; il regno dei cieli è paragonato a una rete che prende ogni genere di pesci…

Le reti, nel vangelo, servono per pescare.

Rientrando in chiesa, dopo i lavori di messa in sicurezza, non si può non notare questa grandissima rete che ci sovrasta offre la massima garanzia di protezione. (C’è da dire, che è proprio un modo per “stare dalla parte dei bottoni”, per dirla in modo proverbiale, perché dopo avere controllato tutte le componenti – crepe, intonaco e cornicioni – e rimosso le parti fragili, abbiamo comunque voluto mettere una rete, per attendere “comodamente” la presentazione del progetto e i grandi lavori di restauro).

Guardare questa rete bianca ci deve richiamare continuamente alla missione della chiesa, fin dalla chiamata dei primi discepoli: “Sarete pescatori di uomini!”.

L’importanza di una chiesa grande, possibilmente bella, è quello di poter essere “pescatori di uomini”: non per mania di grandezza o perché confidiamo nei numeri, ma perché lo spazio sia adeguato all’assemblea liturgica presente in un luogo; perché si possa celebrare insieme e non frammentati in tante celebrazioni; perché ci possano stare tutti quelli che desiderano esserci; perché la messa sia animata, cantata e partecipata nel migliore dei modi.

Allo stesso tempo, in realtà, guardando a questa rete dal centro della chiesa, dove c’è la stella disegnata sul pavimento, mi è venuta in mente un’altra immagine, forse ancora più suggestiva. Noi siamo abituati alla metafora di Dio come Pastore… ma forse possiamo guardarlo, attraverso la rete sopra le nostre teste, come Pescatore.

Un Dio pescatore, che getta lui la rete per pescare gli uomini, perché ci siano tutti, nessuno escluso. Un Dio pescatore, non per imprigionarci in una rete, ma per “pescarci” per il Regno di Dio. Così noi possiamo guardare in alto e pensare a questa rete come una rete gettata da Dio, dall’alto, nel mare del mondo, per “prenderci” per il suo regno, per rapirci nel suo amore e non lasciarci più.

Don Davide




La Consacrazione e la Trasfigurazione

La terza tappa del Congresso Eucaristico ci invita, nel tempo di Quaresima, a riflettere su come possiamo rendere le nostre liturgie più partecipate.

Nell’intenzione del Concilio Vaticano II e della riforma liturgica che ne è seguita c’era in primo luogo, sicuramente, la volontà di affermare che la liturgia è partecipata e celebrata bene quando ne comprendiamo il significato profondo, lo gustiamo e viviamo i vari momenti della celebrazione eucaristica accompagnando con il nostro corpo e il nostro spirito il significato simbolico dei gesti che compiamo.

L’invito del vescovo, quindi, rappresenta una preziosissima opportunità per riscoprire la ricchezza della nostra liturgia.

In questa seconda domenica di Quaresima, nella quale ci guida il Vangelo della Trasfigurazione, vorrei partire da alcune riflessioni sul momento della Consacrazione, a cui seguirà una seconda parte, sempre su questo momento fondamentale della messa, domenica prossima.

Analogamente a quanto succede nella Trasfigurazione, nella Consacrazione noi vediamo nei segni del pane e del vino il corpo glorioso del Signore, così come i discepoli videro nel corpo umano di Gesù la manifestazione della sua gloria.

Mentre abbiamo la sensazione che la Consacrazione sia quasi un momento magico, in cui grazie all’unione di una formula e di un gesto accade qualcosa di incredibile (e in visibile agli occhi), il vero significato della liturgia eucaristica è che la Consacrazione non è affatto un momento a sé, ma è connessa a tutta la grande preghiera eucaristica che inizia dopo il Santo, anticipata dal Prefazio che dice qual è il motivo specifico della preghiera di ringraziamento di quella celebrazione.

Il momento che ci riporta all’Ultima Cena di Gesù e che ci mette alla sua presenza non sono solo le parole della Consacrazione, ma tutta la lunga preghiera memoriale che introduce la Consacrazione stessa e che la segue. A questa preghiera, l’assemblea si unisce dopo il rendimento di grazie finale: “Per Cristo, con Cristo e in Cristo” con la risposta importantissima dell’ “Amen” che è come il sigillo di un notaio, l’autentica sul fatto che quella preghiera sale dal popolo che celebra al Padre; mentre noi, a quel punto, siamo quasi assonnati o distratti e si risponde “Amen” come riprendendosi da un torpore che ci ha presi per il fatto che in quella lunga parte aveva fatto tutto il prete, ma adesso bisogna destarsi perché “finalmente” tocca anche a noi con il Padre nostro. Niente di più sbagliato, ovviamente.

La Consacrazione è uno dei momenti più importanti della celebrazione, e viene accompagnato con due gesti che ne sottolineano la solennità – il suono delle campanelle e il gesto di inginocchiarsi – ma non bisogna per questo pensare che sia una cosa a parte. È proprio come il cuore pulsante della liturgia, insieme alla proclamazione del Vangelo: ma sappiamo che il cuore dà energia vitale all’organismo eppure sarebbe insignificante senza il corpo che lo circonda.

Don Davide




Tempo di ricominciare

Ogni Quaresima ci rimettiamo al seguito del Signore Gesù. Ogni Quaresima ripartiamo, chiedendo la grazia di seguirlo nella faticosa salita della via crucis, fino al monte della sua croce. Ogni quaresima ripartiamo dal racconto della sua vita offerta, così come hanno fatto i discepoli quando hanno tramandato le prime memorie di Gesù, e rinnoviamo anche noi il desiderio di essere suoi amici.

Ricominciare, spesso, è un sogno. La vita non concede quasi mai di ricominciare, ossia di esaudire il desiderio di riprendere le cose che abbiamo fatto, e correggere gli errori e magari farle meglio. Possiamo andare avanti; ogni tanto abbiamo l’occasione di fare delle svolte, e di cominciare qualcosa di nuovo, ed è la cosa più simile alla possibilità di “ricominciare”.

La grazia di ricominciare ci è concessa solo dentro a quel mistero di salvezza, che è l’anno liturgico con i suoi ritmi, che occupa il tempo e lo ricrea, rinnovandolo. Non è che tornano indietro le lancette dell’orologio, o azzeriamo i calendari, o resettiamo le agende dei nostri telefonini. Ricominciare è una grazia spirituale: è l’irruzione dell’amore di Dio nella nostra vita, che – attraverso la forza creatrice del suo perdono – ci rifà nuovi.

Con il Mercoledì delle Ceneri, noi abbiamo il dono di ricominciare il nostro cammino dietro e accanto a Gesù, per l’ennesima volta nella nostra vita e senza che il Signore ce lo faccia pesare. Forse qualcuno aveva iniziato con grande spinta e si è un po’ stancato; forse qualcuno, dopo un periodo di grande fervore, è stato ferito da tante delusioni e avversità e ha perso la speranza; forse ci ritenevamo bravi, e ci siamo scoperti peccatori.

Coraggio!

È tempo di ricominciare!

Abbiamo la possibilità di rimetterci in cammino. Cosa c’è di più bello che riconoscere con umiltà che abbiamo sbagliato, che abbiamo bisogno di essere ricreati, ma che desideriamo vivere e incontrare il suo amore?

Le Ceneri sono il segno di questo ricominciamento, un segno di conversione, ma nell’amore e con gioia. Possiamo forse ricordare le ceneri della Fenice, che risorge dai propri resti. Ma vorrei dire ancora di più: le Ceneri, che usiamo per l’austero e sobrio rito all’inizio della Quaresima, sono quelle degli ulivi benedetti dell’anno precedenti: un simbolo di pace e di gioia, che preannuncia il mistero pasquale. È bello pensare che nella potenza del perdono di Dio, le ceneri che accettiamo sul capo siano un segno che deriva da un grandissimo gesto d’amore –  il Signore che guarda alla nostra miseria – e che preannunciano il nostro ricominciamento nella luce graziosa del mistero pasquale.

Don Davide




La nostra fede tra chiese, strade e case

Stavo pensando, in questi giorni, che il termine “parrocchia” gode di una bellissima contraddizione. Nella lingua greca, deriva dall’immagine di essere per strada, dal concetto di viandante, quindi è collegato all’idea di pellegrinaggio, di instabilità e di precarietà. Questo significato è passato nella configurazione della parrocchia intesa come casa tra le case delle persone e come luogo che si affaccia sulle strade, però nel tempo la parrocchia è diventato il simbolo di qualcosa di radicato, di molto stabile, alcune volte anche di pesante.

Senza volere fare dell’inutile retorica, vorrei perciò che cogliessimo questi giorni in cui la chiesa di S. Maria della Carità, la nostra chiesa principale, è chiusa, come un’occasione per essere richiamati al significato originario della “parrocchia”. Non è facile, è un esercizio ascetico, perché avere la chiesa comoda, in ordine, capiente e funzionale rende tutto più facile. Eppure, così ci ricordiamo che la parrocchia non è fatta dalle mura della chiesa, ma è fatta di pietre vive, delle persone; è fatta per muoversi snella tra la vita di donne e uomini, lungo le nostre strade.

Siamo, poi, estremamente fortunati, di potere disporre anche della deliziosa chiesa di S. Valentino, che sempre di più vorrei sentissimo come un santuario nel nostro territorio parrocchiale, che in questi giorni diventa il luogo principale delle nostre celebrazioni… come una piccola città che diventasse la sede di un grande giubileo! Sappiamo che la chiesa è piccolina, ma cercheremo di distribuirci, in modo da poter celebrare tutti con gioia.

Infine, dobbiamo ringraziare, perché non sono molte le chiese a Bologna che si possono permettere di celebrare la messa perfino in una sagrestia abbastanza capiente, che svolge in questi giorni anch’essa la funzione di supplente della nostra chiesa.

C’è un altro segno che ci richiama al significato profondo della parrocchia, intesa come una chiesa-accanto-alle-case. In quest’ultima settimana abbiamo iniziato le benedizioni pasquali, che portano la liturgia – che di solito celebriamo in chiesa – nelle nostre case, insieme alla visita dei ministri della parrocchia.

Come comunità siamo in cammino, siamo pietre vive, e ci muoviamo con mille relazioni testimoniando il Signore Gesù lungo le strade, nelle case, mettendoci accanto alla vita delle persone.

In questo senso, sarebbe bello cogliere il momento della visita per la benedizione pasquale, come opportunità per riscoprire esplicitamente il nostro cammino di fede. Vi invito, perciò, se potete, ad apparecchiare un piccolo altare domestico, a mettere una tovaglietta con un crocifisso e ad accendere una candela (magari quella del nostro Battesimo), in modo da rendere evidente che – mentre siamo in movimento tra chiese, strade e case – l’incontro con le vostre famiglie diventa una celebrazione di amicizia, di prossimità e di vita.

Don Davide




Pastorale di guarigione

Il prossimo sabato, memoria della B.V. di Lourdes, si celebra la Giornata mondiale del malato. È un segno della dedizione che la chiesa desidera avere nei confronti di tutte le persone sofferenti, nel corpo ma anche nell’anima, in comunione con il Santuario di Lourdes, dove la cura dei malati è uno dei carismi più importanti.

Si è soliti definire questa attenzione come “pastorale degli ammalati”, che è un settore molto importante della vita concreta della chiesa; ma tale definizione ha due limiti: sottolinea l’aspetto negativo e definisce dei confini troppo rigidi, come se fosse un ambito che riguarda solo chi si dedica ai malati in modo diretto. Per esempio: la cosiddetta “pastorale degli ammalati” non dovrebbe riguardare anche il catechismo, o i gruppi dei ragazzi? Non dovrebbe sensibilizzare gli adulti della parrocchia?

Bisognerebbe piuttosto parlare di “pastorale di guarigione”, perché evidenzierebbe che lo scopo è quello di dare conforto e speranza e, attraverso la vicinanza concreta, percorre vie possibili di benessere. Sono molte, infatti, le guarigioni possibili. Nella fede, noi sappiamo che insieme alla medicina è possibile la guarigione del corpo, per la quale si prega devotamente e si celebrano benedizioni e sacramenti, in modo particolare il Sacramento dell’Unzione degli Infermi. Ma c’è anche la guarigione dello spirito, laddove un’esperienza di sofferenza e di conforto porta a una conversione, al desiderio di cambiare vita, al rianimarsi della fede e della speranza. C’è anche la guarigione dell’anima, che permette alle persone di portare la propria malattia con enorme dignità e di farne, anche nel logoramento del corpo, un cammino di vita. Tutto questo è possibile solo se ci sono degli uomini e delle donne che sanno esprimere attenzione, aiuto concreto, vicinanza continuativa, amicizia, intercessione nella preghiera.

Così il termine “pastorale di guarigione” mette in moto tutti. Sabato prossimo alle 16, celebreremo il Sacramento dell’Unzione degli Infermi. E ciascuno di noi, immediatamente, pensa se ne ha bisogno oppure no, e di conseguenza valuta se venire alla celebrazione oppure no. Ma chi non ha un amico malato per cui pregare? Chi non ha un parente per cui è preoccupato, da affidare alla cura particolare del Signore e all’intercessione di Maria? Chi non ha delle cose in cui guarire? Ecco: scopriamo di essere tutti coinvolti.

Sarebbe bello, quindi, che la Giornata del malato, diventasse una “Giornata di tutti”, perché cogliamo che va al cuore dell’azione pastorale della chiesa.

Tanto è vero che, ancora più appropriatamente, si dovrebbe parlare di “pastorale del Regno”, perché Gesù associa all’irruzione del Regno di Dio, prima di tutto la sua presenza, ma subito dopo la cura e la guarigione dei malati. È il primo modo in cui l’amore del Padre, che tutto vince, si manifesta nel mondo e incomincia a guarire. È davvero impressionante, in quest’ottica, rileggere la testimonianza che Gesù dà di se stesso a Giovanni Battista: «Riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti resuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo» (Mt 11,6). Non dice: organizziamo una bella festa con il catechismo, o un buon pranzo parrocchiale; ma dice: i malati sono guariti.

La cosiddetta “pastorale degli ammalati” (per intenderci) è un modo, anzi IL modo di essere cooperatori del Regno di Dio, e di testimoniare quella promessa di vita, che il Signore ci ha fatto, quando non ci sarà più affanno e sarà tersa ogni lacrima dai nostri occhi.

 Don Davide




La politica di Dio

Viene da chiedersi: “C’è qualcosa di meno sapiente delle Beatitudini?”. Potremmo mai dire, noi: “Beati coloro che piangono?”. Cosa ci risponderebbe chi piange veramente?

Non dovremmo forse dire, come già successe ai tempi di Malachia: “Dobbiamo invece proclamare beati i superbi, che pur facendo il male, si moltiplicano e, pur insultando Dio, restano impuniti.” (Mal 3,15).

Sì, sfida posta dalle Beatitudini è uno sport estremo. Potremmo essere anche tentati di pensare che Gesù ha calcato la mano, ha voluto iniziare la sua predicazione col botto, in modo che tutti gli dessero attenzione, come fanno gli ammaliatori e i potenti. Ma qui, Gesù non ha voluto fare il bravo oratore, e usare la retorica. Certo, Gesù era anche un ottimo oratore, ma inaugurando la sua predicazione con le Beatitudini ha voluto andare al succo delle cose.

Gesù aveva appena chiamato i primi quattro discepoli, due coppie di fratelli, dichiarando così – in modo simbolico – di dare inizio a un nuovo corso delle relazioni tra gli uomini (non più come Caino e Abele o Esau e Giacobbe), di volere inaugurare una nuova tappa della storia della salvezza (Giacobbe era il padre di Israele, così nuovi discepoli saranno “pescatori di uomini”) e di volere percorrere, insieme a chi vorrà seguirlo, un cammino di libertà e di amore (“lasciarono il padre”).

Ora le Beatitudini sono la prima cosa che impariamo al seguito del Maestro. Il mondo deve cambiare.

Non so davvero come sia possibile che la Chiesa, in alcuni periodi della storia, si sia assestata sull’ordine costituito, ma il Vangelo dice che finché ci saranno poveri, afflitti, emarginati, cercatori di pace, persone che non cedono alle seduzioni perverse, donne e uomini miti e umili, costruttivi… deve essere all’opera una forza di cambiamento. Quel futuro espresso da Gesù: “saranno” evoca molto intensamente la forma ebraica dei Dieci Comandamenti, che potrebbe essere meglio tradotta con un verbo futuro: “Non avrai altro Dio; santificherai le feste; non ucciderai ecc. ecc.”. Il vangelo è scritto in greco, non in ebraico, ma abbiamo sufficienti ragioni per dire che un autore ebreo come Matteo scriveva in greco ma pensava in ebraico, e quindi ha fatto echeggiare nel ricordo delle Beatitudini la forma imperativa, vincolante. Il “comandamento” inteso nel senso migliore del termine. L’indicazione della via. “Se qualcuno è afflitto, dovrà essere consolato. Se qualcuno cerca la giustizia e la pace dovrà essere saziato… Chi è puro di cuore, non può essere che non veda Dio…”

Ecco qual è la sapienza delle Beatitudini: è una sapienza politica. Esse sono un manifesto politico, sono la “campagna elettorale” di Gesù. Che infatti non è andata a finire tanto bene. Sì, perché noi rischiamo di fare come nel simpatico film di Ficarra e Picone, L’ora legale. Tutti diciamo di desiderare il cambiamento, ma poi dimostriamo di non volerlo veramente. Perché il cambiamento ci impegna. E mentre noi pensiamo che torni a nostro vantaggio, subito capiamo che deve andare anche a vantaggio degli altri, e allora le cose cominciano a starci strette.

Ma Gesù è abituato a mantenere le sue promesse elettorali, ancorché scomode, e vuole che “i suoi” facciano altrettanto. Quindi, questo popolo “umile e povero” (Sof 3,12) di cui parla il profeta nella prima lettura si deve rimboccare le mani e mettersi al lavoro, perché le Beatitudini sono la politica di Dio.

Don Davide




Una pastorale “alla spina”

Un omaggio

La recente morte del grande sociologo Z. Bauman, padre dell’idea della società liquida, mi spinge a evocare alcuni caratteri di una pastorale “liquida”, che si potevano intuire uno o due decenni fa, e di cui oggi forse conviene prendere atto.

Due esperienze

È di questi giorni la notizia che il vescovo di Modena ha acceso una nuova febbre del sabato sera, con l’iniziativa Voi dunque pregate così: molti giovani si radunano in una parrocchia della diocesi in un clima di preghiera e di riflessione non troppo strutturato, alla fine del quale il vescovo risponde informalmente alle domande che la serata ha suscitato ai ragazzi.

Chi ha la fortuna di conoscerlo, potrebbe pensare che il gradimento di questa iniziativa sia dovuto anche alle qualità umane e spirituali di don Erio (come si fa chiamare lui), il che è senz’altro vero, ma dobbiamo comunque cogliere gli spunti pastorali che vengono da questa esperienza. Il confronto con un appuntamento significativo della diocesi di Bologna può confermarci in alcune direttrici.

In anni passati, si ricorda non senza nostalgia una cattedrale stracolma di giovani il sabato sera, per le veglie di avvento e quaresima, in un appuntamento che, fino a qualche anno fa, è stato memoria collettiva.

La ricetta non era molto diversa. Si veniva a pregare insieme, si diceva qualche salmo (ma non l’Ufficio delle Letture), si imparava qualche canto bello e, dopo, si ascoltava l’omelia di qualche prete della diocesi, sempre diverso, dotato del dono della predicazione. Alla fine capitava che i giovani si intrattenessero anche a lungo per scambiare due chiacchiere, prima di continuare la serata in un locale o al cinema.

Ricordo il me quindicenne che si organizzava con gli amici e gli educatori del gruppo per partecipare a questo rito collettivo. Erano i miei primi approcci ad un’esperienza ecclesiale che non fosse solo quella della parrocchia.

In seguito, le cose cambiarono e non fortuitamente. La linea divenne che si doveva pregare con l’Ufficio vigiliare, si cominciò a riportare i canti nei ranghi di un presunto direttorio e la predicazione fu affidata solo ai vescovi (titolare e ausiliari) della diocesi. A questo seguì il micidiale spegnimento delle luci, per impedire che i giovani sostassero in chiesa dopo la preghiera. Infine, accanto a qualche strafalcione predicativo che avrebbe meritato una sommossa, arrivarono le sgridate, perché non si doveva venire alla veglia con l’intenzione o la scusa di andare al pub dopo.

Così la cattedrale si svuotò di giovani. Poi si svuotò e basta. Si scese in cripta. E chi scrive, adesso, non sa più se continui ad esserci qualcosa di simile.

Da questo racconto e confronto tra le due esperienze, raccolgo due spunti pastorali, più un terzo che lascerò per una prossima riflessione.

1. L’informalità

Questo tratto contraddistingue l’esperienza del mondo giovanile. Se un educatore di parrocchia lasciasse decidere ai ragazzi del suo gruppo come disporsi, vedrebbe che i ragazzi non si metterebbero sulle sedie in cerchio, ma seduti sul tavolo con le gambe a penzoloni, o sulla sedia con lo schienale davanti o in molte altre soluzioni che solo loro riescono a immaginare. Per avere una riprova, basta osservare alcuni adolescenti che studiano (o dicono di farlo) sdraiati per terra, con i piedi sul divano, il pc sulla pancia, il telefono a portata di mano e almeno tre applicazioni social aperte contemporaneamente.

Di recente, ascoltavo divertito il racconto di una difesa di Dottorato, dove, a dispetto della candidata e dei professori elegantissimi, gli altri colleghi dottorandi erano sbracati ai limiti dell’inverosimile.

Nelle biblioteche più moderne delle università si nota che le sale studio hanno sempre di più lo stile di un locale informale, con divanetti, tavolini, poltroncine. Niente di paragonabile alla sala della famosa scena del film Centochiodi.[1]

Se tutto ciò sia opportuno non è mia intenzione stabilirlo. Però si osserva questa tendenza e vale la pena di prenderne atto. La Chiesa salvaguarda l’educazione alla forma in molti altri modi, non ultimo la liturgia; forse si può avere il coraggio di offrire contesti informali, tanto per la preghiera quanto per la pastorale, dove i giovani possano sentirsi a loro agio in quello che cercano. In qualche università americana si parla di Theology on Tap, di teologia alla spina. L’immagine rende l’idea.

2. La qualità affettiva

In un momento pastorale, i giovani cercano senz’altro anche la percezione di stare bene; in genere, è uno stare bene con l’altro/gli altri. Non dovremmo disprezzare questo fatto, perché è in gioco la ricerca di senso, magari declinata in forme post-moderne. Si tratta soprattutto di poter vivere qualcosa che è degno di essere vissuto qui e ora, a confronto con tutte le altre cose belle che adesso potrebbero essere vissute altrove, con la certezza che, se questo tempo non è vissuto vantaggiosamente, è tempo sprecato. Quindi, oltre alla dimensione delle relazioni, c’è la ricerca di qualcosa che piaccia, che faccia stare bene, che dia la sensazione che la vita è vissuta.

Se confrontiamo questa ricerca esperienziale ai noiosissimi incontri o alle noiosissime celebrazioni che ancora proponiamo ai giovani, e ripensiamo alla sistematica erosione degli spazi informali, amichevoli e spontanei, di tutte le nostre iniziative pastorali, capiamo quanto siamo distanti da un reale interesse per loro.[2]

Al cappellano entusiasta perché i giovani sono andati a fare per la prima volta gli esercizi spirituali, potrà capitare di sentire replicare alla domanda: “Come è andata?”, la seguente risposta: “Bene, mi sono divertito”. Il divertimento non è esattamente la categoria che associeremmo alla qualità degli esercizi spirituali – e a Pascal verrebbe un infarto –, ma la risposta, ancora una volta, rende l’idea.

Un rilancio

Come accennato, ci sarebbe un terzo elemento, che riguarda il non creare, o almeno tentare di risolvere, le opposizioni. Lo lascio così, in sospeso per un prossimo scritto, sperando di potere suscitare qualche curiosità al lettore, e augurandomi che queste riflessioni, che sono state necessariamente brevi e semplificative, possano stimolare un dialogo di reazioni e precisazioni.


[1] Si tratta dell’Aula Magna della Biblioteca Universitaria di Bologna.
[2] Questa è una delle tesi, con cui concordo, espresse nel bel libro di A. Matteo, La prima generazione incredula, Rubbettino 2010.

 

Don Davide

 

Testo scritto per SettimanaNews il 23 gennaio 2017




Un popolo tra tenebre e luce

“Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una grande luce” (Is 9,1). Per essere illuminati, bisogna innanzitutto riconoscere che il nostro mondo fa quotidiana esperienza delle tenebre. È di questi giorni la triste conferma che pochissime persone del mondo detengono una incredibile maggioranza delle ricchezze del mondo; le notizie dei fronti della guerra continuano a raggiungerci; condividiamo le sofferenze di tanti nostri fratelli e sorelle in Italia piagati dalle calamità naturali, o da tante altre drammatiche piaghe sociali.

Non dobbiamo però pensare che siano cose di cui sono responsabili solo “gli altri”: si tratta di modelli e di strutture dei quali anche noi facciamo parte: un modello di organizzazione dell’economia con cui noi corriamo il rischio di avvallare delle situazioni di disuguaglianza; gli assetti della politica e della cultura per cui non ci sentiamo coinvolti nelle cose che accadono lontano; un modo di comprendere (o di non comprendere) i vincoli e le responsabilità della convivenza comune, che non ci fa vivere come Paese solidale sempre, non solo quando succedono le catastrofi.

L’irruzione della luce il Vangelo ce la racconta nell’inizio della storia dei primi discepoli con Gesù. Lui li chiama e loro si trovano coinvolti in questa vicenda con lui. Il Vangelo, fra le righe, ci fa sentire una certa nostalgia per l’entusiasmo di quel momento, che certamente nelle prime fasi non era nemmeno consapevole, ma a cui molti anni dopo gli apostoli devono avere ripensato con un’emozione particolare: lì stava iniziando qualcosa di nuovo e così sorprendente che non avrebbero mai potuto immaginare. La loro storia con Gesù stava iniziando.

Quella storia è raccontata come quando ci si innamora e come uno squarcio di libertà.

Abbiamo sempre pensato che “lasciare il padre”, in questo racconto, fosse un riferimento alla radicalità della sequela. Senz’altro quest’elemento c’è. Ma lasciare il padre evoca innanzitutto l’esperienza nuziale: “lascerà suo padre e suo madre e si unirà alla sua donna”. Qui, sicuramente, il Vangelo non vuole fare una riflessione sul celibato, ma vuole dire che l’incontro con Gesù è segnato da quel tipo di amore che si prova quando ti innamori pensando che hai trovato la persona della tua vita.

In secondo luogo, la psicologia contemporanea ci insegna che “lasciare il padre” evoca la grande libertà che è data dall’amore. L’esperienza, cioè, della vita adulta, plasmata nella libertà di potere camminare in una storia nuova, anche lasciando i propri retaggi, le proprie sicurezze, i propri condizionamenti, per potere camminare verso la costruzione di qualcosa che il Signore ci chiede di generare anche in maniera nuova.

In che modo si può esprimere questa libertà, senza che sia soltanto l’ultima trovata arbitraria e illusoria? San Paolo, nella seconda lettura, ci istruisce su questo, con quella che è chiamata la logica della croce, ossia il criterio dello Spirito: una logica che rifiuta i criteri del mondo e che sceglie la via disarmata, dove si manifesta davvero la forza dello Spirito, il suo fascino e la sua potenza: una via di pace.

In questa domenica noi accompagniamo con grande simpatia i ragazzi che parteciperanno alla Giornata diocesana della Pace e ci auguriamo che crescano come costruttori di pace e di un mondo nuovo e che davvero possano essere migliori di noi.

Don Davide