Il cristiano e la città

Il cristiano non possiede la città, la serve.

Il nemico è l’individualismo

Il cristiano vuole combattere il vero nemico che è l’individualismo, il demone che ci mette gli uni accanto agli altri, ma senza gli altri. L’individualismo rende lontano o addirittura pericoloso quello di cui abbiamo tutti bisogno, il prossimo; oppure ce lo fa accettare solo come lo vogliamo noi e quindi ci fa allontanare chi non conosciamo, facendo crescere l’inimicizia.

Non vogliamo nemmeno un individualismo di campanile o di gruppo, che ci fa credere sufficiente alzare un muro per risolvere i problemi, che non accetta la complessità e la sfida di un mondo che è davvero piccolo e che entra anche nel nostro giardino. Il campanile ci aiuta a collocarci nel grande mondo, ma senza questo ci isola! Quanto sono prive di senso le beghe da campanile! E che responsabilità abbiamo, invece, verso i tanti che soffrono nel mondo! Solo imparando a stare assieme la città degli uomini vive e gli uomini con lei.

«L’individualismo postmoderno e globalizzato favorisce uno stile di vita che indebolisce lo sviluppo e la stabilità dei legami tra le persone, e che snatura i vincoli familiari. L’azione pastorale deve mostrare ancora meglio che la relazione con il nostro Padre esige e incoraggia una comunione che guarisca, promuova e rafforzi i legami interpersonali. Mentre nel mondo, specialmente in alcuni Paesi, riappaiono diverse forme di guerre e scontri, noi cristiani insistiamo nella proposta di riconoscere l’altro, di sanare le ferite, di costruire ponti, stringere relazioni e aiutarci “a portare i pesi gli uni degli altri”» (EG 67).

L’individualismo produce nella città degli uomini tante patologie di solitudine. Basti pensare alle dipendenze. Uno degli inganni dell’individualismo è che illude di potere vivere bene da soli. Invece senza la comunità non c’è individuo. E la comunità non è una somma di individui! Non stiamo bene quando siamo isolati. La persona, l’uomo è relazione. Il male ci vuole divisi, magari con tutti i confort, ma individualisti. Anzi. Perché l’uomo è relazione e senza questa si perde, si dispera, si chiude. La Chiesa non vuole una città di individui senza il noi, ma una piazza dove impariamo tutti a riconoscerci ed aiutarci.

Indifferenza, sorella dell’individualismo

L’individualismo ha una sorella: l’indifferenza. Si trucca molto bene. Non la si distingue subito. Anzi. Qualcuno pensa che non la ha «perché soffro tanto» o che basti un po’ di bonomia per dimostrare interesse verso l’altro. L’indifferenza si rivela nel non fare, nell’accontentarsi (per gli altri!), nel difendersi con la logica di Caino: «A me che importa?», «io che c’entro?», «non è possibile!». Non fare niente, anche se con eleganza, fa sempre male!

A volte insinua il banale assuefarsi al dolore degli altri. «Questo nostro tempo richiede di vivere i problemi come sfide e non come ostacoli: il Signore è attivo e all’opera nel mondo. Voi, dunque, uscite per le strade e andate ai crocicchi: tutti quelli che troverete, chiamateli, nessuno escluso (cf. Mt 22,9). Soprattutto accompagnate chi è rimasto al bordo della strada, “zoppi, storpi, ciechi, sordi” (Mt 15,30). Dovunque voi siate, non costruite mai muri né frontiere, ma piazze e ospedali da campo» (Discorso di Papa Francesco a Firenze). Piazze e ospedali da campo. C’è bisogno. La folla non può aspettare, ha bisogno di pane.

 

Don Davide




Discorso del Vescovo

Cogliendo la ricorrenza del Corpus Domini, nell’anno del Congresso Eucaristico, vorrei proporre in queste domeniche la lettura di alcune parti del discorso del Vescovo al termine dell’Assemblea Diocesana dell’08/06/2017.

IL CORPUS DOMINI E LA CHIESA IN USCITA

Oggi abbiamo allargato ancora di più il nostro dialogo. E questo è oggi il grande valore di questa Assemblea! Farlo è faticoso, ma è l’unico modo perché cresca tra noi qualcosa di vero e che ci unisca nel profondo.

La comunione è fondamentale per la Chiesa e per la città. Non vogliamo sia solo in alcuni momenti straordinari, come per esempio avvenne nel terremoto o di fronte a tragedie incancellabili come le ferite delle stragi che la nostra città porta.

Siamo nel pieno del Congresso eucaristico, un momento importante, con il quale misuriamo il nostro cammino. Siamo aiutati a contemplare il mistero della presenza di Cristo nell’eucaristia, di Dio che si offre, pane di amore, di vita che non finisce e che insegna a vivere, presenza che orienta e rafforza. Riscopriamo lo stesso corpo nei suoi fratelli più piccoli. Condividiamo il pane del cielo e questo ci aiuta a condividere quello della terra. Nella città si nasconde la presenza di Dio. I cristiani aiutano a svelare questa presenza e la cercano perché quella che contemplano nel mistero del Corpus Domini la riconoscono concreta nel Corpus pauperum e nel prossimo.

San Petronio è il nostro protettore. Di chi? Di tutti! L’amore dei cristiani non filtra mai gli interlocutori, non pone condizioni, fa sempre il primo passo verso il prossimo, non considera nessuno straniero. Tutta Bologna si identifica con lui e con questa sua casa da sempre civica, in un’appartenenza che unisce profondamente la Chiesa e la città degli uomini. La Chiesa non può pensarsi senza la città degli uomini. È il luogo in cui essa vive, potremmo dire, dove trova se stessa. Tutti, anche la Chiesa, capiscono chi sono solo incontrando l’altro e uscendo all’aperto.

Perché Petronio protegge? Non era certo il più potente secondo la logica di forza degli uomini! San Petronio protegge perché discepolo di Cristo, aiuta tutti, non si preoccupa di difendere il suo ma si preoccupa del noi e trasmette quella forza e quella intelligenza di amore che lo Spirito ha donato. Il cristiano non possiede la città, la serve.

[…]

Questa assemblea contiene le piazze di tutte le nostre città e paesi, anche i più piccoli. Tutte le comunità sono importanti e amate. A Gerusalemme i discepoli uscirono sulla piazza ed iniziarono a parlare e rendendosi così conto che sapevano parlare a tutti, che tutti ascoltavano e soprattutto capivano. Certo, all’inizio avevano paura, tanto che stavano chiusi, tra loro. Ci sarà stato chi pensava inutile uscire, che farlo li avrebbe confusi tanto che non avrebbero più saputo chi sono. Qualcuno avrà elencato tutti rischi possibili, i pericoli, invocando la necessità di restare al chiuso come se sono i muri a proteggere e non l’amore. Qualcun altro voleva un programma dettagliato, chiaro, definitivo, sicuro, per paura dell’imprevisto. Qualcuno pensava che il mondo non si meritava nulla, studiava solo le parole per spiegargli gli errori perché andava punito per quello che aveva fatto a Gesù. Qualcuno sperava di continuare le discussioni tra loro, perché prima bisognava finire quell’interminabile ma appassionante confronto su chi fosse il più grande oppure imparare bene quello che è necessario per affrontare la piazza. Qualcuno avrà pensato che tanto tutto era inutile, che non sarebbe cambiato nulla, che era meglio pensare banalmente a quello che li riguardava. Qualcuno si era attrezzato bene dalla finestra e osservava e giudicava tutto e tutti dalla sua stanza.

Lo Spirito, che è l’amore, spinge invece ad uscire. La Chiesa non vuole guardare da lontano, paurosa e orgogliosa allo stesso tempo. Anche se avessimo le idee giuste, senza l’incontro non nasce nulla. E l’incontro riguarda ognuno e tutte le nostre comunità. Se non siamo per strada, se non visitiamo, se non ascoltiamo, se non guardiamo negli occhi, se non tocchiamo, se non ci facciamo carico, non capiamo per davvero, il prossimo non ci capisce. Prossimità per riconoscere l’altro. E perché accada bisogna uscire da quelle mura che sono i pregiudizi, le abitudini, la scontatezza, il narcisismo religioso. Il luogo della comunità è la strada. Lì dobbiamo affrontare gli imprevisti, ma anche troviamo la nostra vera forza, quella per cui ogni incontro diventa grande se siamo piccoli, cioè umili.

Matteo Maria Zuppi,

Arcivescovo di Bologna

 

Continuiamo a proporre il discorso del Vescovo a conclusione dell’Assemblea Diocesana del Congresso Eucaristico, che ha un forte sapore programmatico per la pastorale della Chiesa di Bologna.

DUE NEMICI: INDIVIDUALISMO E INDIFFERENZA

Il nemico è l’individualismo

ll cristiano vuole combattere il vero nemico che è l’individualismo, il demone che ci mette gli uni accanto agli altri, ma senza gli altri. L’individualismo rende lontano o addirittura pericoloso quello di cui abbiamo tutti bisogno, il prossimo; oppure ce lo fa accettare solo come lo vogliamo noi e quindi ci fa allontanare chi non conosciamo, facendo crescere l’inimicizia.

Non vogliamo nemmeno un individualismo di campanile o di gruppo, che ci fa credere sufficiente alzare un muro per risolvere i problemi, che non accetta la complessità e la sfida di un mondo che è davvero piccolo e che entra anche nel nostro giardino. Il campanile ci aiuta a collocarci nel grande mondo, ma senza questo ci isola! Quanto sono prive di senso le beghe da campanile! E che responsabilità abbiamo, invece, verso i tanti che soffrono nel mondo! Solo imparando a stare assieme la città degli uomini vive e gli uomini con lei.

«L’individualismo postmoderno e globalizzato favorisce uno stile di vita che indebolisce lo sviluppo e la stabilità dei legami tra le persone, e che snatura i vincoli familiari. L’azione pastorale deve mostrare ancora meglio che la relazione con il nostro Padre esige e incoraggia una comunione che guarisca, promuova e rafforzi i legami interpersonali. Mentre nel mondo, specialmente in alcuni Paesi, riappaiono diverse forme di guerre e scontri, noi cristiani insistiamo nella proposta di riconoscere l’altro, di sanare le ferite, di costruire ponti, stringere relazioni e aiutarci “a portare i pesi gli uni degli altri”» (EG 67).

L’individualismo produce nella città degli uomini tante patologie di solitudine. Basti pensare alle dipendenze. Uno degli inganni dell’individualismo è che illude di potere vivere bene da soli. Invece senza la comunità non c’è individuo. E la comunità non è una somma di individui! Non stiamo bene quando siamo isolati. La persona, l’uomo è relazione. Il male ci vuole divisi, magari con tutti i confort, ma individualisti. Anzi. Perché l’uomo è relazione e senza questa si perde, si dispera, si chiude. La Chiesa non vuole una città di individui senza il noi, ma una piazza dove impariamo tutti a riconoscerci ed aiutarci.

Indifferenza, sorella dell’individualismo

L’individualismo ha una sorella: l’indifferenza. Si trucca molto bene. Non la si distingue subito. Anzi. Qualcuno pensa che non la ha «perché soffro tanto» o che basti un po’ di bonomia per dimostrare interesse verso l’altro. L’indifferenza si rivela nel non fare, nell’accontentarsi (per gli altri!), nel difendersi con la logica di Caino: «A me che importa?», «io che c’entro?», «non è possibile!». Non fare niente, anche se con eleganza, fa sempre male!

A volte insinua il banale assuefarsi al dolore degli altri. «Questo nostro tempo richiede di vivere i problemi come sfide e non come ostacoli: il Signore è attivo e all’opera nel mondo. Voi, dunque, uscite per le strade e andate ai crocicchi: tutti quelli che troverete, chiamateli, nessuno escluso (cf. Mt 22,9). Soprattutto accompagnate chi è rimasto al bordo della strada, “zoppi, storpi, ciechi, sordi” (Mt 15,30). Dovunque voi siate, non costruite mai muri né frontiere, ma piazze e ospedali da campo» (Discorso di Papa Francesco a Firenze). Piazze e ospedali da campo. C’è bisogno. La folla non può aspettare, ha bisogno di pane.

 Matteo Maria Zuppi,

Arcivescovo di Bologna

 

Continuiamo a proporre il discorso del Vescovo a conclusione dell’Assemblea Diocesana del Congresso Eucaristico, che ha un forte sapore programmatico per la pastorale della Chiesa di Bologna. – 3° parte.

 ACCOGLIENZA E CONDIVISIONE

Questa sera abbiamo ascoltato anche tanti problemi. Sono sempre nuovi. Noi non vogliamo affatto immaginare una città che non esiste e pensiamo che ogni città degli uomini può cambiare! E parlare dei problemi che ci sono non significa mai minimizzare le cose che facciamo già! Anzi. Siamo consapevoli di appartenere ad una delle regioni del nostro paese e dell’Europa con tantissima storia e più in crescita. L’accoglienza è la nostra forza e ereditiamo tanta sapienza umana e spirituale! […] Questo è il metodo con cui si possono affrontare i problemi. Finite le ideologie non vogliamo inizino i personalismi! E dobbiamo anche dire: quante occasioni sprecate, quando non dialoghiamo e sciupiamo i tanti mezzi per “scarsi e rachitici fini”.

Per noi la città degli uomini non potrà mai essere un luogo anonimo. Al contrario! (EG 210). «Come sono belle le città che superano la sfiducia malsana e integrano i differenti, e che fanno di tale integrazione un nuovo fattore di sviluppo! Come sono belle le città che, anche nel loro disegno architettonico, sono piene di spazi che collegano, mettono in relazione, favoriscono il riconoscimento dell’altro!».

Bologna e tante nostre città, scusate se insisto ancora su questo, da sempre hanno avuto, anche nella loro stessa caratteristica architettonica, il gusto di essere accoglienti e protettive per tutti, ad iniziare dal forestiero. Humanitas e Dignitas fanno tanto parte di essa. I portici altro non sono che i corridoi di questa casa comune.

Ecco cosa vuole la Chiesa, con fermezza e con tanta vicinanza. Perché Dio è nella città. (EG 71). «La presenza di Dio accompagna la ricerca sincera che persone e gruppi compiono per trovare appoggio e senso alla loro vita. Egli vive tra i cittadini promuovendo la solidarietà, la fraternità, il desiderio di bene, di verità, di giustizia. Questa presenza non deve essere fabbricata, ma scoperta, svelata. Dio non si nasconde a coloro che lo cercano con cuore sincero, sebbene lo facciano a tentoni, in modo impreciso e diffuso».

Le nostre città sono cambiate. Per certi versi dobbiamo scoprirle di nuovo e interrogarci sul loro futuro e che cosa questo ci chiede! A Bologna ogni dieci anni cambia uno su cinque dei suoi abitanti! Quasi la metà degli appartamenti è abitata da un single. A Bologna risiedono 60.000 stranieri, che lo sono come definizione, ma non possono esserlo per i discepoli di Colui che si riconosce nei forestieri e dice che qualsiasi cosa abbiamo fatto a uno di loro la abbiamo fatta a lui. Ottomila ci sono nati e speriamo abbiano presto regole chiare per diventare anche di diritto quello che sono già, italiani.

C’è tanta mobilità. Ogni anno da Bologna vanno nell’area metropolitana più di 4.000 persone. La mobilità spesso significa anonimato.

Non possiamo accontentarci di risposte burocratiche. Queste sono le più pericolose, perché danno la convinzione, la presunzione, di avere fatto. C’è tanta sofferenza nascosta. La vediamo solo se ci fermiamo, se andiamo vicino, se non la accettiamo come normale o se non aspettiamo solo che passi.

Quante sfide! Quanta insopportabile ineguaglianza. Sentiamo la passione che nasce dalla sofferenza di tanti!

Matteo Maria Zuppi,

Arcivescovo di Bologna

 

Continuiamo a proporre il discorso del Vescovo a conclusione dell’Assemblea Diocesana del Congresso Eucaristico, che ha un forte sapore programmatico per la pastorale della Chiesa di Bologna. – 4° parte.

IL VANGELO CHE POSSIAMO ESSERE NOI

Oggi diciamo che le risposte dipendono anche da noi! L’invito di dare da mangiare è rivolto a “voi”. Cioè “noi”. «Voi stessi date loro da mangiare». In un momento in cui è facile credere che il problema non ci riguarda o che debbo pensare a me, la Chiesa vuole dire che sente tutta la responsabilità di trovare il pane per chi ha fame e che lo offre gratuitamente.

La gratuità è una dimensione fondamentale per vivere bene nella città, soprattutto quando sembra che tutto abbia un prezzo e il consumismo ci ha reso tutti più diffidenti e calcolatori. La gratuità non è un problema di mezzi! Mi ha sempre sorpreso l’avarizia dei ricchi! La Chiesa ha sempre solo cinque pani e due pesci, ma crede che solo dividendo il pane si moltiplica. Vorremmo che tutti possano contemplare nelle nostre comunità e nelle nostre persone quel volto di una Chiesa lieta col volto di mamma, che comprende, accompagna, accarezza che papa Francesco ha indicato come programma alla Chiesa italiana.

Lo aspettiamo qui a Bologna, in quella che sarà la prima giornata della Parola e la conclusione del nostro CED. La Parola da cui nasce e si ricrea tutto, voce di quel Corpo che contempliamo! Vorremmo che il 1° ottobre ci confermi in questa scelta e vogliamo presentargli una Chiesa così. «Sognate anche voi questa Chiesa, credete in essa, innovate con libertà. L’umanesimo cristiano che siete chiamati a vivere afferma radicalmente la dignità di ogni persona come Figlio di Dio, stabilisce tra ogni essere umano una fondamentale fraternità, insegna a comprendere il lavoro, ad abitare il creato come casa comune, fornisce ragioni per l’allegria e l’umorismo, anche nel mezzo di una vita tante volte molto dura», ci chiedeva a Firenze. Farlo inizia da chi resta ai margini. Le nostre comunità possono essere ancora di più una geografia affettiva nella città per tanti che hanno bisogno di protezione e relazione. La Chiesa non pensa affatto in termini buonisti, come quelli che in nome di falsa misericordia fasciano le ferite senza prima curarle; che assistono, ma senza capire e combattere le cause e senza trovare le soluzioni, anche a costo di sacrificio.

Abbiamo bisogno di vere belle notizie! Non sono quelle che hanno gli onori della cronaca, ma quelle che cambiano la vita per davvero. Tutti possiamo dare questa bella notizia. Infatti c’è in ogni uomo il desiderio di essere accolto come persona e considerato una realtà sacra, perché ogni storia umana è una storia sacra, e richiede il più grande rispetto.

Diceva papa Benedetto: «La città, cari fratelli e sorelle, siamo tutti noi! Ciascuno contribuisce alla sua vita e al suo clima morale, in bene o in male. Nel cuore di ognuno di noi passa il confine tra il bene e il male e nessuno di noi deve sentirsi in diritto di giudicare gli altri, ma piuttosto ciascuno deve sentire il dovere di migliorare se stesso!

I mass media tendono a farci sentire sempre “spettatori”, come se il male riguardasse solamente gli altri, e certe cose a noi non potessero mai accadere. Invece siamo tutti “attori” e, nel male come nel bene, il nostro comportamento ha un influsso sugli altri. Spesso ci lamentiamo dell’inquinamento dell’aria, che in certi luoghi della città è irrespirabile. È vero: ci vuole l’impegno di tutti per rendere più pulita la città.

E tuttavia c’è un altro inquinamento, meno percepibile ai sensi, ma altrettanto pericoloso. È l’inquinamento dello spirito; è quello che rende i nostri volti meno sorridenti, più cupi, che ci porta a non salutarci tra di noi, a non guardarci in faccia… La città è fatta di volti, ma purtroppo le dinamiche collettive possono farci smarrire la percezione della loro profondità. Vediamo tutto in superficie. Le persone diventano dei corpi, e questi corpi perdono l’anima, diventano cose, oggetti senza volto, scambiabili e consumabili. La più bella notizia per noi è Gesù. Lui ci insegna a credere e ad essere noi stessi, tutti, una buona notizia di amore per gli altri, per i tanti che abitano la città degli uomini.

Abbiamo bisogno di buone notizie, vere, per combattere la paura e per prevenire il male. Non vogliamo restare prigionieri della disillusione che porta ad accontentarsi e a non cercare il futuro. Siamo in un tempo di paura. I rischi, le minacce, la crisi, i mutamenti. Noi vogliamo costruire oggi quello che saremo domani.

Matteo Maria Zuppi,

Arcivescovo di Bologna

 

Siamo arrivati alla conclusione del discorso del Vescovo all’Assemblea Diocesana del Congresso Eucaristico, che ha un forte sapore programmatico per la pastorale della Chiesa di Bologna. – 5° parte.

 SIAMO SOLO ALL’INIZIO

Il cristianesimo è vicinanza, comunità, popolo, insieme. La missione è incontro e costruzione di amicizia su scenari del mondo che si scoprono nuovi o almeno rinnovati. Vogliamo trasformare deserti in foreste! Quanti deserti nelle città. Avvicinarsi a qualcuno è sempre un rischio, ma anche un’opportunità: per me e per la persona alla quale mi avvicino. Facciamo che non manchi mai la relazione, la prossimità, cioè l’amicizia sociale. Il nostro parlare sia semplice e amico verso tutti. Apriamo il cuore.

La prima bella notizia possiamo essere ognuno di noi, con il nostro sorriso, con la nostra gentilezza, con la visita, con l’ascolto, con l’elemosina, con l’aiuto concreto. Non restiamo sempre ad aspettare, non calcoliamo tutto, non restiamo diffidenti e non ci arrendiamo alle prime difficoltà. Vogliamo città degli uomini dove tutti si comprendano e nessuno sia straniero.

I prodigi della Pentecoste che si possono realizzare sono una solitudine sconfitta, l’abbandono riempito, lo scarto che diventa al centro delle attenzioni, lo straniero che diventa un fratello, un disilluso che rinasce. Questo non è il libro dei sogni, ma proprio i cinque pani che già abbiamo, che non dobbiamo andarci a cercare e possiamo distribuire a tutti.

Niente è impossibile a chi crede! Apri le porte del cuore e il mondo si aprirà all’amore. Non avere paura di sbagliare, non fare nulla è il vero sbaglio. Non cercare subito i risultati. Farlo è già la risposta e l’efficacia! Noi non siamo dei volontari che si sacrificano, ma operai di umanità toccati dall’umanità di Gesù.

Chiesa e città sono compagni di viaggio, che tendono alla stessa meta di salvare la persona. Il dialogo di oggi non è una tattica o una strategia. È la visione del futuro e la scelta di iniziare a costruirlo. Sento la consolazione di vedere già tanti frutti, la conferma del talento che abbiamo e anche di come i cinque pani regalati sfamano tanti e producono frutti di accoglienza, di solidarietà.

Sento l’urgenza di farlo per i tanti che aspettano. Sarà la sfida del nostro futuro. Sento anche la gioia di poterlo fare e di poterlo fare assieme, anche se a volte la fatica e la stanchezza ci invitano a chiuderci. Diceva spesso mons. Capovilla: «Tantum aurora est». Sì, siamo solo all’inizio.

Matteo Maria Zuppi,

Arcivescovo di Bologna




Pentecoste

Pentecoste: si compie la rivelazione della Pasqua e si compie, nel vero senso della parola, un lungo e denso cammino che ha riguardato la nostra comunità.

Vale la pena di ripercorrerlo, perché ha coinvolto quasi tutto il tempo liturgico di Pasqua: le Cresime dei nostri ragazzi, la festa della B. V. della Salute con la processione delle “due” Madonne, i due turni delle Prime Comunioni che ci hanno fatto intenerire e la festa di don Valeriano. Senza contare tutto il “prima”: dall’inizio della Quaresima, in stato di nomadismo, per la messa in sicurezza della nostra chiesa principale, è stato davvero un anno pieno.

E anche oggi abbiamo due cammini che si compiono, segnando un traguardo e un nuovo inizio.

Padre Alberto ci saluta, dopo 17 anni di servizio encomiabile nella nostra comunità. La sua disponibilità parla da sola. Ma soprattutto vorrei sottolineare la dedizione alla Confessione, che per molti era diventata un punto di riferimento sicuro nel proprio cammino spirituale. Padre Alberto ha fatto amare e toccare con mano l’esperienza della riconciliazione a tantissimi di noi, e questo è il regalo più grande che ci ha fatto, di cui non lo ringrazieremo mai abbastanza. Il suo percorso con noi finisce, ma inizia un nuovo ministero, ancora più immerso in presa diretta nella vita pastorale, e noi siamo sicuri che lo Spirito continuerà a ravvivare i tanti suoi carismi a servizio della comunità in cui viene mandato.

Oggi si compie anche il percorso di catecumenato di Ylenia Abigàil, che riceve e celebra i sacramenti dell’Iniziazione Cristiana. Siamo contenti di avere l’onore di accoglierla noi nella Chiesa, attraverso la nostra parrocchia. La gioia di vedere che lo Spirito continua a fare nascere nuovi cristiani è incomparabile. Garantiamo anche a Ylenia la nostra preghiera, e che qui in parrocchia si potrà sentire sempre a casa propria.

L’effusione dello Spirito sulla Chiesa, in questo giorno di Pentecoste, compie spiritualmente anche il cammino del Congresso Eucaristico. Lo Spirito Santo spinse gli apostoli ad uscire dal Cenacolo e a testimoniare Gesù con coraggio e con forza di persuasione. Gli incontri erano diventati un’occasione per la presenza del Regno.

Lo stesso fa lo Spirito con la Chiesa di Bologna oggi e, segnatamente, vogliamo pensare che lo faccia con la nostra parrocchia.

Accogliamo volentieri il dono della pace, con una certa serenità non presuntuosa di avere fatto il nostro lavoro. Ringraziamo il Risorto per la responsabilità di essere una comunità che cerca di riconciliare e di vivere la comunione. Con gratitudine guardiamo indietro e con coraggio avanti, chiedendo ancora la forza e l’entusiasmo per uscire, incontrare e testimoniare.

Don Davide




Ascensione. Essere in Cristo

Caro don Valeriano,

sarebbe giusto che questa lettera aperta, in un’occasione così speciale, fosse indirizzata a te, invece voglio dedicarla alla nostra comunità.

Se non mi sbaglio, secondo le regole della grammatica, nostra è un pronome possessivo, ma in questo caso non indica alcun possesso, bensì appartenenza. È la nostra comunità, nel senso che ne facciamo parte, che le apparteniamo, e come preti prestiamo in essa e per essa il nostro servizio.

È profondamente appagante sentire questo “nostra” così vero: in questi giorni mi ha fatto pensare che – al di là di quello che si vede o delle nostre valutazioni pastorali (spesso dettate da un giudizio solo umano e poco capace di riconoscere il corso segreto degli affetti) – in cinquant’anni tanti semi piantati con larghezza portano frutto e crescono. Quello che si raccoglie magari non sono i grandi successi pastorali, o i modelli di una chiesa trionfante, ma la qualità delle relazioni e la consapevolezza del valore di legami umani e spirituali tessuti nel corso di una vita.

È la meravigliosa realtà che Paolo descrive con l’essere in Cristo, ossia quel vincolo di comunione che costituisce la comunità, ben al di là dei legami visibili e ne fa una cellula del Regno di Dio.

Allora riprendo questo testo da capo e ricomincio così:

Cara Comunità,

non so davvero come ringraziarti per l’impegno di questi giorni, e in generale in questo maggio di fuoco.

Come parroco, alcune volte ho lo scrupolo di chiedere troppo. Poi vedo tanto entusiasmo, così tanta disponibilità e provo semplicemente a godermi questo fiume di gratuità che scorre e sana, e disinfetta la vita.

Sapete, alcune volte mi capita ancora di parlare del “parroco” e di pensare a don Valeriano. Non penso che sia mancanza di responsabilità o velleità di sfuggire al mio ruolo, ma solo l’esperienza affettuosa di sentire una presenza affidabile che mi fa compagnia.

Guardando la passione e la partecipazione di questi giorni penso che succeda lo stesso anche a voi e ne sono felice.

Nel riconoscere questi cinquant’anni di dedizione alla chiesa di don Valeriano, io penso anche a ciascuno di voi: ai ragazzi che fanno gli esami, a quelli che hanno assunto i primi incarichi nella nostra comunità, a quelli che hanno compiuto diciott’anni, a chi inizia l’università e a chi la finisce, a chi inizia o cambia il lavoro, a chi si fidanza, chi sceglie di sposarsi, chi vive giorno dopo giorno la sua fedeltà, chi cambia la vita perché sono arrivati dei figli, chi festeggia gli anniversari, o la pensione o, più semplicemente, il raggiungimento di qualsiasi obiettivo, o l’adempimento di un impegno.

Penso ad ogni traguardo, insomma, piccolo o grande, della vita o di questo tempo presente, con la consapevolezza che sono tutti  rispecchiati in quello di don Valeriano e nella grande partecipazione della nostra comunità.

Don Davide




L’entusiasmo di Filippo

Filippo, il protagonista della prima lettura, è un diacono: ha ricevuto un ministero dagli apostoli, per permettere al Vangelo di propagarsi, per far sì che i più bisognosi continuassero a venire accuditi e perché gli apostoli potessero continuare a dare un primato alla predicazione missionaria della Parola di Dio e non fossero attanagliati da un eccesso di questioni pratiche e gestionali.

Eppure vediamo che il ministero di Filippo va ben oltre i suoi incarichi. La sua accoglienza del Vangelo cresce in lui, e lo spinge a farsi missionario. Le sue parole sono coinvolgenti, i suoi segni grandiosi: una pletora di spiriti cattivi se ne fugge a gambe levate, e la gente, nel contatto con lui, guarisce.

Non è l’unico tra i ministri della Chiesa apostolica a compiere tali opere: dall’ombra di Pietro in poi, l’entusiasmo della resurrezione provoca meraviglie.

È bellissimo questo incoraggiamento che riceviamo dalle letture di oggi, verso la fine dell’anno pastorale e nel giorno in cui un’altra parte dei nostri bimbi fa la Prima Comunione. Il Vangelo cresce. Quello che inizia con dei segni piccoli, cresce in modo grande. E tale è anche la speranza per questi nostri amici più piccoli che oggi ricevono l’Eucaristia per la prima volta. Noi confidiamo che possano diventare “grandi” non solo di età e di fisico, ma grandi nell’animo, e di potere ammirare gioiosi e stupiti le loro opere.

La prima lettura di oggi è anche un esercizio di verifica nella fede del nostro anno pastorale. Cos’è cresciuto? Cos’è stato animato dallo Spirito e cosa no? Ci sono stati degli spiriti maligni che sono stati scacciati?

Se quest’ultima domanda trova una risposta affermativa, allora possiamo davvero ringraziare il Signore, chiedendo la grazia di essere ancora e continuamente pronti a rendere ragione della nostra fede: non solo attraverso ragionamenti precisi e pertinenti, ma soprattutto attraverso la bellezza e l’entusiasmo di una testimonianza. Come quella di Filippo.

Don Davide




Il soccorso e la salute

Come sempre, Maria ci spinge a una singolare adesione alla vita della nostra chiesa. Il papa e il vescovo ci hanno ripetutamente detto di uscire dai nostri confini, che preferiscono una chiesa magari un po’ sgangherata, ma che vada fuori, per le strade, e incontri le persone con una testimonianza di fede semplice e gesti di amicizia.

La Madonna, in una duplice veste, aiuta la nostra parrocchia a raccogliere questo invito.

Quest’anno coincidono i due momenti della tradizionale processione della Madonna del Borgo San Pietro, conosciuta anche come Beata Vergine del Soccorso, e la conclusione dell’Ottavario della Madonna della Salute.

Nel 1527, durante l’inizio di un’epidemia di peste, la statuetta venerata nella cappella del Borgo San Pietro venne portata in processione lungo le strade infettate. Al suo ritorno, secondo le cronache, la peste immediatamente scomparve. Il Senato Bolognese allora emise il voto di portare in processione la statua (oggi l’immagine) della Madonna del Soccorso, fino al Borgo del Pratello e all’Oratorio di San Rocco (vicino al quale c’era il cimitero degli appestati e dei lebbrosi), come ringraziamento per essere scampati all’epidemia. Da allora, quella processione, pur sempre più esigua, si ripete ogni anno.

La nostra parrocchia, dal canto suo, usualmente conclude l’Ottavario di preghiera alla Beata Vergine della Salute con una processione.

Si è deciso, pertanto, di unificare i due momenti, e di ravvivare così una delle processioni più antiche della nostra tradizione cittadina. Questa scelta ci spingerà a camminare lungo Via del Pratello, recuperando la storia della nostra città, e offrendo un segno di amicizia semplice a tutti coloro che affiancheremo.

Vorrei, infatti, che non fosse una processione “militante”, ma fraterna e testimoniale: testimoniamo, appunto, il soccorso che ci viene dalla fede, e la supplica per la salute (corporale e spirituale) che tutti cerchiamo e di cui tutti abbiamo bisogno.

In quest’occasione, la nostra parrocchia unita alla comunità del Borgo San Pietro rappresenteranno davvero la chiesa come un ospedale da campo, secondo la nota immagine del papa: un posto dove si cerca un po’ di soccorso per la propria salute e – per chi è più sensibile – per la propria salvezza.

Mi piacerebbe che, oltre la gioia dei palloncini dei bimbi che saranno lanciati al cielo, e i colori dei fiori che saranno regalati come segno di amicizia, lasciassimo dietro ai nostri passi una piccola traccia di gioiosa vitalità per la nostra città.

Don Davide




Le ferite tra le dita

Il Risorto viene ripetutamente incontro ai suoi, riuniti, mostrando loro le mani e il capo con le ferite trasfigurate, per vincere la loro incredulità.

Lo sfortunato Tommaso è l’unico non presente alla prima edizione di questo memorabile appuntamento. Gli altri, e la chiesa dei millenni successivi, gli danno dell’incredulo, perché anche lui vorrebbe vedere e toccare le piaghe del Signore risorto.

È esattamente la posizione degli altri discepoli: loro hanno visto e hanno creduto; Tommaso fa un proclama che potremmo definire “da spaccone”, dice che se non vede e non tocca lui non crede. Ma alla fine, poi, come per tutti gli altri, vedere il Signore risorto che gli viene incontro è più che sufficiente perché sbocci in lui la migliore professione di fede che ci potremmo aspettare: mio Signore e mio Dio.

Quello che chiede Tommaso è di fare anche lui un’esperienza vivida dell’incontro con Gesù risorto, come gli altri che ne avevano già avuto il dono.

Noi abbiamo in mente, grazie a Caravaggio e a molti altri pittori, che Tommaso metta il dito nella piaga del costato di Gesù, ma leggendo il testo del vangelo scopriamo che questo particolare non viene raccontato. Non è così.

Piuttosto che volere mettere noi il dito nelle piaghe di Gesù, è lui che, per vincere tutte le nostre incredulità, mette le sue piaghe fra le nostre dita. Consegna le sue ferite alle nostre mani, perché noi ce ne prendiamo cura.

“Tocca le mie ferite – dice Gesù – e non essere più incredulo, ma credente!”

Se c’è una via per accendere la fede e riconoscere Gesù come nostro Signore, è questa: le sue ferite, che non vengono cancellate nel suo corpo risorto, ma diventano gloriose, sono il peccato che può diventare esperienza di misericordia; sono l’odio che può essere vinto con l’amore; sono la cura per la vita, dove sembrano trionfare le forze di morte; sono la conversione dalla lontananza di Dio alla gioia dell’essere vicini a lui; sono i poveri che vengono accuditi, i malati che vengono consolati, chi ha bisogno che viene aiutato, i ragazzi e i giovani che vengono accompagnati.

Raggiungi le ferite di Gesù con le tue mani; e non avere paura: fra le tue dita non scorrerà il sangue, ma lo Spirito Santo.

Don Davide




L’angelo che smaschera l’inganno

Non ci sono profumi, nel racconto dell’evangelista Matteo. Le donne, diversamente dalla narrazione di Marco e Luca, vanno al sepolcro di buon mattino, all’alba del giorno dopo il riposo del Sabato, perché era il primo momento in cui potevano farlo.

Non sono spinte da adempimenti che rimanevano da fare: sono mosse dalla commozione, dal dispiacere, dall’amore per quell’uomo così caro che era venuto a mancare improvvisamente, nel pieno della sua età, e ingiustamente.

Nel loro intimo pulsavano ancora le ferite provocate dalla violenza, dalle parole aspre e dalla folla sobillante. Avevano bisogno di lenirle, quelle ferite, come quando si va alla tomba di una persona cara per cercare un po’ di conforto, o quando si parla a un’amica per drenare il dolore.

Ma Gesù se n’è già andato, anche se la tomba è ancora chiusa. Tutto quello che accade, nell’intuizione della resurrezione, accade dal vivo: il terremoto, l’angelo che rotola la pietra e che mostra il sepolcro vuoto. Viene in mente l’immagine dei ragazzini di una volta seduti sul muretto dei giardini, mentre aspettano il resto della compagnia per dare una notizia importante. Qualcuno deve avere paura: le guardie che rimangono tramortite; qualcuno no: le donne, che vengono incoraggiate.

La speranza della resurrezione non nasce da qualcosa di speciale, ma da ogni affetto sincero e amorevole che abbiamo per le persone care: questo bisogno di incontro, quest’esigenza di comunione che non può venire meno. Da qui si fa spazio, come un angelo che smaschera l’inganno, un desiderio di vita che incontra risposte.

«Guardate: i sepolcri si svuotano e chi li difende rimane tramortito!

Via! Coraggio! C’è un tempo di vita da vivere e degli incontri, preziosi, che si preparano!».

 Si dirà che Gesù è risorto, e qualcuno avrà fiducia. Lo si testimonierà, e qualcuno crederà. Si cercherà di mettere in pratica l’amore e ogni uomo e ogni donna lo vedranno.

Si potrà raccontare, e anche scrivere, che la morte viene sconfitta.

Don Davide




La felicità è un’impronta

L’orma del sedere sul divano, o l’impronta del piede sulla strada?

Sembra questa la posta in gioco del papa nella sua partita con i giovani. L’anno scorso, durante la GMG a Cracovia, aveva già parlato della “divano-felicità”: “la tentazione di pensare che la felicità dipenda da un buon divano”. L’aveva definita “la paralisi silenziosa che può rovinare di più la gioventù” e si era lamentato di quei giovani che vanno in pensione dalla vita a vent’anni.

Come un abile giocatore di poker aveva detto: “Ci sto, gioco!”. Aveva messo sul piatto un bel centone e aveva provocato i giovani a raccogliere la sfida. E loro, i giovani, l’hanno fatto. In mille modi, da Cracovia al recentissimo incontro a Milano, hanno risposto all’appello, trascinando il papa a tirare fuori le sue migliori energie, e raccogliendo parole e suggestioni che in più di un’occasione sono parse indimenticabili.

Ma ora che è finito il primo giro, il papa si prepara a vedere le carte. Anzi, rilancia sullo stesso tema: “Maria non era una giovane-divano!” dice nel suo videomessaggio per la Giornata mondiale della Gioventù di quest’anno. Implicitamente, chiede: e voi? Sembra quasi di sentirlo, con la sua tipica inflessione spagnoleggiante: Non siatelo anche voi, dai!

Il montepremi che papa Francesco, come i migliori e più temibili giocatori di poker ha fatto accumulare, è niente di meno che la felicità. Dando come tema il grido di esultanza di Maria che apre il Magnificat: “Grandi cose ha fatto per me l’Onnipotente” (Lc 1,49), ha ricordato ancora una volta ai giovani che non c’è esperienza della felicità possibile, se non restituendo ciò che Dio ha fatto per noi. Non seduti sul divano, ma mossi dall’entusiasmo e dalla gratitudine! Viene in mente la terribile immagine di Nietzsche dell’Ultimo Uomo, “il più spregevole”, quello che siede in poltrona, strizza l’occhiolino e dice: “Noi abbiamo inventato la felicità!” (Così parlò Zarathustra, Prefazione, par. 5). Ci possiamo illudere che la felicità sia lasciare la nostra bella orma calda sul divano, ma non è invece la nostra vita un desiderio quasi inconfessato di lasciare un’impronta? Il papa dice: c’è un modo di farlo bene, con onestà, non schiacciati da inutili ambizioni.

La felicità non è già data una volta per tutte, è itinerante, si scopre nel cammino, cambia di forme, si accompagna all’inedito. La tradizione della Chiesa ci consegna l’Eucaristia come cibo dei pellegrini: nutriti da questo cibo, che ci fa rendere lode e trasformare in salvezza ogni giorno il vissuto quotidiano, siamo invitati a saltare giù dal divano e lasciare la nostra impronta nel mondo.

Don Davide




Le Palme, i mantelli, i tappeti

Mentre Gesù entrava a Gerusalemme, osannato come un re, lo coprivano con rami di palma e lo festeggiavano scuotendo rami di ulivo e stendendo mantelli e tappeti al suo passaggio.

Il vangelo non lo dice mai, ma in quel giorno a ridosso della festa di Pasqua, Gesù deve avere pensato, da buon ebreo osservante, anche ad un’altra festa: quelle delle Capanne, che si celebra molto più avanti, in autunno.

Gli ebrei costruivano capanne con rami di palma e frasche, per ricordare di avere dimorato in capanne, durante il cammino nel deserto, e per celebrare i frutti del raccolto.

Osservando quella folla esultante, Gesù deve avere meditato ancora sulla sua vita itinerante – “il figlio dell’uomo non ha dove posare il capo” (Lc) – un cammino di uscita da se stesso per amare ogni uomo e ogni donna. Deve avere ammirato, con una certa tenerezza, gli effetti di un primo raccolto, che aveva conquistato tante persone, anche se lo deve avere guardato con quella benevolenza che si ha con i bimbi, quando ti raccontano un traguardo precario e solo iniziale.

Forse, in quel momento, gli è balenata l’intuizione di un altro itinerario, dentro e fuori Gerusalemme: dalla sera dell’ultima cena, attraverso la veglia nel giardino degli ulivi e la notte dell’arresto, poi di nuovo dentro al pretorio, di fronte a Pilato, e ancora fuori, nel luogo della crocifissione.

Una folla di tutt’altro segno.

Questa è la settimana dei paradossi.

L’uomo che fa il suo esodo non più nel deserto, ma nella città, e il Dio che viene espulso dal Santuario; l’ “Osanna” e il “Crocifiggilo!”; il Figlio di Dio rifiutato e il “figlio del Padre” (= Bar-abba) redento; l’offerta di sé e la paura; la flagellazione e l’Ecce Homo; la morte e la vita; la notte delle tenebre che risplende come luce.

Entrando a Gerusalemme, Gesù, in realtà, inaugurava la festa di Pasqua, la festa che ricordava l’immolazione dell’agnello e il passaggio del Mar Rosso. Gesù vi entra come Re, per finirvi come Agnello.

In questo abissale e mesto gioco di paradossi, la grande festa cristiana ci ricorda che in un mondo pieno di contraddizioni, dove ancora si fanno le guerre e si uccidono i bambini, nonostante tutto e sempre, con una tenacia irreversibile, noi desideriamo allargare gli spazi dell’amore e servire la vita con gioia pacificata.

 

Don Davide