Gratitudine sulle spalle, davanti l’entusiasmo

Sono orgoglioso di potere celebrare 100 anni di esistenza dell’Azione Cattolica nella “mia” – meglio: nostra – parrocchia. È una ricorrenza che sento non solo con quella gratitudine che si prova per le cose importanti che accadono in parrocchia, ma soprattutto come un’occasione per un ringraziamento personale per tutto quello che l’Azione Cattolica ha dato alla mia vita di cristiano e di prete.

Ricordo nitidamente l’emozione quando capii da ragazzo che associarsi consapevolmente era una via maestra per fare esperienza di chiesa. Non una via competitiva, unica o esclusiva, ma una via maestra, che mi insegnava, nel vero senso della parola, un metodo per educare, per curare la mia formazione personale, per edificare la mia comunità parrocchiale e per essere chiesa. L’esperienza da giovane di Azione Cattolica è stata la ricchezza che mi sono portato nei primi anni di seminario: un ritmo di preghiera personale, la scelta di confessarmi e farmi accompagnare nei miei passaggi, l’abitudine a qualche lettura formativa, la consapevolezza orgogliosa di avere un ruolo nella chiesa. Sono stati gli assi che su cui si è arricchita anche la mia formazione seminaristica.

All’Azione Cattolica, lego anche molte delle esperienze più gioiose e belle della mia vita da prete. Come emblema di tutte, vorrei ricordare una serata di preparazione di un campo estivo, con un’equipe eccellente di educatori e di seminaristi. Un seminarista, ormai a tarda notte, mi dice stupefatto che era rimasto impressionato dalla competenza e dalla autorevolezza con cui gli educatori proponevano chiavi di lettura e idee. Aveva colto nel segno: l’AC mi ha consegnato sempre il confronto con persone alla pari e questo è una ricchezza impareggiabile nel ministero di un prete, che permette di non clericalizzare e di amare la Chiesa. Una ricchezza che si traduce poi concretamente in scambi preziosi, amicizia e conforto.

Sento già l’obiezione nell’aria, che non è solo l’Azione Cattolica a offrire questo. È vero. Non ho nessun imbarazzo a riconoscerlo, perché ho amiche e amici carissimi, laici esemplari nella vita della chiesa e del mondo, che si sono formati negli scout o nei movimenti o solo in parrocchia. Il punto è che l’AC allena questo metodo come suo obiettivo primo e lo fa strutturalmente al servizio delle parrocchie, cioè del cammino ordinario della chiesa.

All’Azione Cattolica parrocchiale, specificamente, riconosco inoltre il merito di continuare ad essere un luogo non solo di formazione, ma anche di pensiero e di avere un affetto manifesto per i giovani e la loro formazione.

Sarei tentato di esporre cosa mi attendo e spero per i prossimi cento anni di vita della nostra associazione. Ma ci sono sfide e opportunità all’orizzonte della nostra chiesa locale più vicine, perciò vorrei provare semplicemente a tracciare alcuni auspici per questo tempo pastorale prossimo.

Dal punto di vista personale, chi si impegna nell’Azione Cattolica deve allenare la propria comprensione della pastorale della chiesa. Dovrebbe essere un uomo o una donna capace di riconoscere quali sono le dinamiche essenziali nella vita di una comunità cristiana (parrocchiale e non) ed avere l’attitudine al discernimento, a capire quali leve e quali metodi bisogna usare e quali no. Questa competenza non è clericale. Non riguarda solo le scelte di parrocchia, ma soprattutto una visione complessiva e ordinata su come concretamente il vangelo può essere testimoniato e riconosciuto all’opera. Chi fa parte dell’Azione Cattolica dovrebbe sentire questo compito come la condizione essenziale per la propria appartenenza.

Dal punto di vista associativo, auspico un gruppo di persone che sappiano ripudiare sapientemente la ripetitività del passato: che non si ancorino a formule esauste o a strutture interne più adatte a organismi come l’Onu e la Nato che a piccoli gruppi di cristiani discepoli-missionari. Desidererei, invece, uomini e donne che sappiano discernere quale sia la grande risorsa del cristianesimo nel nostro tempo: che raggiungano delle consapevolezze maturate insieme e condivise, che possano diventare esercizio comune di stile e di vita evangelica. Quali forme, quali metodi, quali linguaggi? È fonte di ispirazione la conclusione del Vangelo di Marco nell’accenno al parlare “lingue nuove” (Mc 16,17), perché il cammino del discepolo-testimone, mentre guarisce la sua stessa incredulità, gli doni anche questi nuovi “segni” per comunicare la ricchezza della fede.

In parrocchia, mi aspetto che l’Azione Cattolica sia un appoggio affidabile per accompagnare ogni cambiamento strutturale che la nostra Chiesa di Bologna dovrà fare, senza nostalgie di inutili campanilismi o barricate pastorali a oltranza. Desidero, infine, che l’AC parrocchiale sia come il motore che garantisce l’amore per i giovani: una sorta di predilezione per le loro vite, che si esprime nel desiderio di essere veri adulti, senza alcun rimpianto di giovanilismo o assurda competizione nei loro confronti. Che tutti coloro che amano i giovani delle nostre strade (non solo quelli “di parrocchia”, ma anche quelli “di fuori”) possano sapere di trovare un gruppo con cui fare squadra e e attrezzarsi ad accompagnare le giovani generazioni con tutta la custodia, l’amore e la sapienza educativa verso la loro vita adulta nel mondo.

Don Davide




L’Avvento e le tre parole

Papa Francesco, al termine della messa allo stadio di Bologna, ci ha lasciato tre consegne: il Pane, la Parola e i Poveri. Tutti e tre scritti con l’iniziale maiuscola, perché sono i modi in cui il Cristo si rende presente tra noi.

Il cammino della chiesa di Bologna, dopo avere dedicato l’anno del Congresso alla riflessione sul Pane condiviso, si concentra ora sull’ascolto della Parola di Gesù. È una continuazione del percorso precedente, non solo per la successione che ci ha proposto papa Francesco, ma soprattutto perché la parola che continua a suscitare echi, nel nostro cuore, è quella che abbiamo fatto risuonare tante volte nell’anno passato: “Date loro voi stessi, da mangiare!” (Mt 6,37). Dai te stesso! Non fare mancare il tuo contributo. Sei tu, chiamato a essere discepolo. Scopri che nel consumarti c’è la bellezza della risposta alla chiamata all’amore.

I poveri, fortunatamente, sono sempre al centro dell’attenzione e dell’opera del papa e del vescovo, che così danno una testimonianza luminosa alla chiesa e al mondo, e incoraggiano ogni comunità cristiana a fare altrettanto.

Sarebbe bello se fossimo capaci di fare di questo ascolto che ci è chiesto, una vora occasione di rinnovamento, a partire dalla condivisione di quello che la parola di Dio ci ispira. Se fossimo attenti nel sentire cosa Gesù ci dice, avremmo sempre una spinta rivoluzionaria, anche se fossero piccolissime cose, perché avrebbero la potenza di quella trasformazione evangelica che ha scatenato lo Spirito dopo la Pentecoste.

Alla fine di questo anno liturgico, poi, si celebrerà il Sinodo dei Giovani. O meglio: sinodo dei vescovi (che giovani non sono) per pensare ai giovani e dire loro qualcosa di vicino. Ma il papa, nel meraviglioso discorso che ha fatto per indire il Sinodo [cercatelo digitando su Google “Papa sinodo giovani”, ne vale la pena!], dice che invece vuole che si ascoltino i giovani, e tutti i giovani, anche quelli non cattolici e atei… perché sia veramente un Sinodo dei giovani.

Dovendo fare un discernimento del percorso che il papa e il nostro vescovo ci hanno fatto fare fin qui, direi che sono quattro le domande a cui dobbiamo rispondere:

  1. Come dobbiamo trasformare la nostra pastorale per essere chiesa in uscita, e noi stessi discepolimissionari?
  2. Quali scelte dobbiamo fare per essere in aiuto dei poveri operativamente e più di prima?
  3. Come dobbiamo cambiare l’assetto delle nostre parrocchie nel Centro storico?
  4. Quali rivoluzioni dobbiamo accettare perché i giovani tornino a sentire la chiesa vicina e ad esserne parte?

Il tempo di Avvento inizia con un grido: “Oh, se tu squarciassi i cieli e scendessi!” (Is 63,17). È un grido pieno di nostalgia e di bisogno: un bisogno di speranza quasi disperato per la situazione compromessa del popolo del Signore.

Non ce lo vogliamo nascondere: alcune volte abbiamo la sensazione che anche la nostra esistenza di chiesa sia gravemente compromessa. Contro la tentazione di pensare così, il vescovo ci esorta a credere nella trasformazione del cuore che l’ascolto della parola di Dio può operare, e noi raccogliamo questo invito, con atteggiamento umile e spirito rinnovato, a partire dal dono della parola che il Signore ci fa ogni anno, ogni domenica e ogni giorno, nella liturgia.

Don Davide




L’anno della Parola

Quest’anno, l’arcivescovo ha consegnato alla Chiesa di Bologna “l’Anno della Parola” come cammino pastorale.

Leggiamo le sue indicazioni.

 Dalla Lettera pastorale dell’Arcivescovo:

Non ci ardeva forse il cuore?

“L’incontro con la Parola non è una lezione, un programma. È tutto il programma, da cui comprenderemo i nostri passi. È il Verbum Domini che ci è rivolto, perché ci accorgiamo finalmente della sua presenza in mezzo a noi, ci liberiamo dalla paura, affrontiamo il male che ci vuole isolati, che ci fa sentire abbandonati, che fa credere che dobbiamo fare da soli, confidare solo nel nostro orgoglio per stare bene e conservare quello che abbiamo per non perderlo.

Esattamente il contrario dell’amore che Dio ci annuncia. Nella Babele delle nostre parole si presenta quella del pellegrino, la Parola, che cammina con noi e ci vuole scaldare il cuore e fare sentire la sua speranza oggi. È la verità che cerchiamo per capire la nostra vita e quella di un mondo così complicato e difficile da comprendere. Non è chiesto al discepolo di capire tutto, ma di aprire il cuore e la mente…

Iniziare la riflessione sulla Parola di Dio ci aiuterà a rivedere anche gli aspetti concreti della nostra vita personale e di comunità. Penso alla liturgia, alla carità, alla catechesi (per l’iniziazione cristiana, per la preparazione ai sacramenti, per i fidanzati) e all’intero campo della pastorale (familiare, giovanile, anziani, e così oltre), perché siano sempre più sostenuti e illuminati dal semplice e decisivo incontro con la Sacra Scrittura. Sarà il cammino dei prossimi anni.

I gruppi della Parola, che si riuniscono già in molte parrocchie e che potrebbero iniziare ovunque e con modalità diverse e adatte agli interlocutori, sono proprio come i due discepoli di Emmaus che parlano di sé, si lasciano interrogare da Gesù e ascoltano tutto quello che lo riguarda. Così si genera e si rigenera la comunità dei fratelli” (pp. 71ss).

Dal Sussidio per l’anno pastorale della Chiesa di Bologna

Indicazioni per vivere le tappe dell’anno pastorale

La prima giornata della Parola celebrata da Papa Francesco a Bologna il 1 ottobre scorso apre il nuovo anno pastorale che la nostra Chiesa di Bologna sta iniziando.

È stata per noi una grazia non solo gradita ma provvidenziale, perché ci sollecita a ritrovare la centralità della Parola di Dio nella vita della Chiesa: Dio dialoga e parla con gli uomini per costruire una vera e duratura comunione. Questo dono è stato raccolto dalla Lettera pastorale dell’Arcivescovo, Non ci ardeva forse il cuore?, che costituisce un solido orientamento per la pastorale in senso missionario e che ci accompagna in questo anno.

L’esperienza dei due discepoli di Emmaus, icona biblica scelta dall’Arcivescovo, ci insegna che la Parola di Dio riscalda il cuore e lo rende plasmabile dallo Spirito e capace di comunicare l’amore scaturito dall’incontro con il Crocifisso risorto.

Rimettere al centro della nostra vita e della pastorale la Parola di Dio è il tema generale dell’anno, che si esprimerà in tre momenti per far crescere la nostra consapevolezza di essere discepoli-missionari e vivere fino in fondo la conversione pastorale in senso missionario.

Il metodo per vivere le tappe

Siamo tutti impegnati a vivere le tre tappe, cioè i tre momenti durante l’anno in cui ascoltare, riflettere in maniera comunitaria sulla Parola di Dio, sulle nostre prassi pastorali per orientarci al futuro con una visione coraggiosa, creativa e piena di speranza.

Il metodo con cui svolgere gli incontri proposti, sia la lectio divina sia i successivi due incontri, è quello sperimentato lo scorso anno e cosiddetto “metodo di Firenze”, che favorisce la partecipazione sinodale di tutto il gruppo creando un clima di accoglienza e di arricchimento comune.




Invitare alle nozze

«Mandò i suoi servi ad invitare alle nozze» (Mt 22,2).

In questa domenica, viene conferito il Mandato a tutti i catechisti, educatori e responsabili della nostra parrocchia. È un rito festoso, in cui, a nome di tutta la comunità, si affida ufficialmente l’incarico alle persone disponibili, si ricorda loro che sono al servizio e non dentro un’impresa personale, e che il Signore manda i suoi servi ad invitare alle nozze, non a una cosa triste.

Il servizio ecclesiale dovrebbe essere come quegli amici che organizzano i giochi festosi per gli sposi: richiede impegno, ma con quanto entusiasmo e affetto lo fanno!

Ancora di più, l’appartenenza alla chiesa dovrebbe essere come una festa di nozze: un’esperienza gioiosa, estremamente curata, dove si mangiano cibi succulenti e bevande deliziose – talvolta spirituali, come l’ascolto della parola di Dio, un ritiro, una bella celebrazione; talvolta materiali, come le merende o i bei pranzetti che ogni tanto si fanno.

Ci dobbiamo chiedere: stiamo invitando alle nozze o a un funerale? L’invito è curato? La partecipazione è bella o assomiglia di più a un necrologio? L’abbiamo spedita come si fa a un capo azienda che non possiamo non invitare per buona educazione, o c’è un rapporto personale e riusciamo a dire: “ci tengo che tu ci sia”?

E poi: la festa è pronta? O abbiamo cibo precotto, patatine confezionate, tovaglie sporche, location brutte e sedie scomode?

È interessante notare, nel vangelo, che tutto ciò non basta. Nonostante un invito alle nozze fatto come si deve e un banchetto eccellente, molti invitati rifiutano.

Niente paura. Timone dritto e obiettivo chiaro: qui c’è pronta una festa di nozze, non una merendina. La merendina la puoi rimettere nella scatola e mangiarla un altro giorno; la festa di nozze va goduta e ci sarà sicuramente qualcuno che ha il piacere di farlo. E allora: apriamo le porte! Oltre che una chiesa in uscita, che sia anche una chiesa aperta! Che tutti coloro che vogliono il privilegio di partecipare siano accolti! E che goda chi ha fame e sete!

E alla fine, si scopre che i servi stessi sono invitati alle nozze! Che strana festa, questa! Il padrone è così buono che, pur avendo servi numerosi, ha organizzato un catering esterno, in modo che anche i servi possano fare festa, essere serviti e mangiare leccornie!

Mi auguro davvero che tutti, tutti possiamo avere la chiara consapevolezza di essere invitati a una festa di nozze; che nessuno di noi ritenga il non esserci una cosa di poco conto; che non ci sia bisogno di insistere come il padrone nel vangelo e, anzi, ciascuno desideri non perdersi questa festa per nulla al mondo.

Don Davide




Non ci ardeva forse il cuore?

Non ci ardeva forse il cuore, sabato scorso, quando tutta la città era in fermento e si sentiva l’aria frizzante per l’arrivo del papa? Non ci ardeva di carità quando, al centro per i rifugiati, papa Francesco ha ricordato quelli che non ce l’hanno fatta e che non ci sono più? Non ci ha fatto ardere di buoni propositi quando, all’Angelus, ha chiesto alla città di Bologna di rimanere un esempio nella testimonianza del Vangelo o quando ha raccomandato ai preti e ai religiosi di essere con il popolo, semplici e poveri, per condividere il Vangelo?

E non ha fatto come Gesù, riattualizzando d’un colpo le parole dei profeti, sedendo a mensa con i poveri e tutti coloro che avevano bisogno di riscatto?

E non ha letteralmente infiammato i nostri cuori con il suo discorso all’Università, parlando di cultura, di speranza e di pace, nell’orizzonte di un’Europa unita, contro tutti i populismi e le retoriche, come non si sentiva fare da anni?!

Sì, l’abbiamo riconosciuto nello spezzare il pane… ma non lui, cioè papa Francesco. Grazie al papa, e soprattutto grazie al suo rapporto così schietto e sulle stesse corde con il vescovo Matteo, nel catino suggestivo e trepidante dello stadio, trasformato in una cattedrale contemporanea, abbiamo riconosciuto Gesù risorto! Sì, Gesù risorto, vivo, presente in mezzo e insieme alla sua Chiesa, che ci ha confortato, ha fatto risuonare la sua parola con mille sfumature e ci ha dato la direzione.

Una Chiesa non clericale, fatta di pastori davanti, in mezzo e dietro al popolo; una Chiesa richiamata ai tratti (non ai valori) inconfondibili del Vangelo: i poveri, l’annuncio del Regno agli ultimi, la misericordia data e ricevuta. Una Chiesa tesa a raggiungere tutti e ad aprire una via per ciascuno.

Il vescovo Matteo, il giorno di San Petronio, ha ringraziato la città, per la preparazione della visita del papa, lo svolgimento della giornata e l’accoglienza profonda che Bologna gli ha riservato. Era da tempo che il giorno del patrono non si sentivano parole gentili nei confronti della città, piuttosto che rimproveri, provenienti da una supposta posizione di superiorità. È uno stile che, inequivocabilmente, i nostri pastori ci consegnano. Non perché non ci siano i problemi o perché la Chiesa debba abdicare al suo compito critico e di vigilanza, ma per costruire rapporti di vera amicizia, aiutarsi e camminare insieme.

Così, oggi, giorno della conclusione del Congresso Eucaristico nelle nostre parrocchie, il vescovo ci consegna la sua nota pastorale, per confermarci nella direzione di questo cammino, dal titolo: Non ci ardeva forse il cuore?

Incoraggiati da questa consegna, iniziamo il nuovo anno pastorale con l’immagine bellissima di Gesù che, dopo avere spiegato il significato profondo delle Scritture, essere stato ospitato a tavola e avere spezzato il pane con i segni dell’Eucaristia, ci fa percepire nitidamente che cosa fa ardere il cuore e brillare il volto.

L’egoismo ci spegne, il Vangelo ci infiamma. La divisione perde, la comunione vince. L’odio ci fa morire, l’amore ci fa vivere.

Don Davide




La Scuola di Formazione Teologica

Il grande Aristotele, nella sua opera più famosa scriveva che la teologia è la scienza più importante di tutte e la meno utile.

Forse è questo il motivo per cui tanti sarebbero interessati a conoscere la teologia, magari anche a studiarla seriamente, ma poi non si sceglie perché non si veda come possa tornare utile (come si dice in gergo) per portare a casa la pagnotta…

È anche per venire incontro a queste esigenze che la Scuola di formazione teologica di Bologna, sotto l’alto patrocinio della Facoltà di teologia dell’Emilia Romagna, propone un corso base di teologia strutturato in modo che ciascuno possa partecipare, senza dover rinunciare ai suoi oneri quotidiani. Il corso base prevede infatti lezioni serali, un giorno alla settimana, di una o due materie a semestre. I quattro corsi che compongono il corso base sono: Teologia fondamentale; Mistero cristiano; Introduzione generale alla Sacra Scrittura e Ecclesiologia. Tradizionalmente, la scuola di formazione teologica (sigla SFT), oltre alla sede principale del seminario, ha altre sedi dislocate sul territorio.

Quest’anno, per la prima volta, si apre una sede anche nel vicariato ovest, che prevede un corso di Teologia fondamentale il martedì a partire dal 16 di febbraio, presso le nuove strutture della parrocchia di Ponte Ronca.

A questo punto, a molti verrà la domanda: e perché studiare teologia?

Per rispondere al nostro amico Aristotele, diremmo noi! Studiare teologia, infatti, da una parte ci permette di uscire dalla logica delle cose che ottengono un risultato a breve termine, dall’altra ci permette di dare un respiro alla nostra fede. Nella vita delle nostre parrocchie, soprattutto per chi è più impegnato, si rischia sempre di fare una formazione finalizzata ad acquisire capacità di fare qualcosa: un incontro, un’animazione ecc. Lo studio della teologia ha una finalità di più ampio raggio: esso intende dare al credente disponibile qualche struttura fondamentale per operare un discernimento evangelico, di fede ed ecclesiale in maniera minimamente attrezzata alle grandi sfide dei nostri giorni. Studiare un po’ di teologia, quindi, è un investimento a lungo termine, sia per i singoli – che ne avranno sicuramente da guadagnarci – sia per le parrocchie – che possono solo beneficiare da un investimento a lunga scadenza. A questo proposito, sarebbe bello che per ogni parrocchia non ci fossero solo dei singoli a frequentare questi corsi, ma magari un piccolo gruppo, in modo che possa diventare anche un’esperienza condivisa e da riportare nella propria comunità.

Credo che la scelta molto forte e voluta del vicariato ovest di avere una sede nel proprio territorio vada in questa direzione.

La seconda domanda che a qualcuno potrebbe saltare fuori è la seguente: e che cos’à la teologia fondamentale? Beh, per questa risposta… vi rimandiamo al corso! Possiamo solo dire che è la disciplina che si interroga su come si fa a rendere ragione della speranza che è noi (cfr. 1Pt 3,15).

Rendere ragione della speranza è la sfida delle sfide, come vedremo. Il papa stesso ci ha richiamati nelle ultime due encicliche alla dimensione della speranza e alla dimensione di una carità fattiva. Bisogna cioè sperare e credere in maniera che sia credibile la testimonianza del nostro amore. La teologia fondamentale prova a capire quali sono le sfide di oggi e quali sono stati i percorsi della chiesa nella storia per corrispondere a questa responsabilità.

In genere, un corso di teologia riserva piacevoli sorprese, anche per la propria fede.

Speriamo vivamente che questa occasione possa fare riscoprire anche la gioia, l’entusiasmo e la convinzione di essere credenti.

Don Davide




Generazione Selfie

Una fotografia dei giovani a fine estate non può trascurare la canzone di Lorenzo Fragola e Arisa dal titolo Generazione Selfie, che ha imperversato in tutte le spiagge e in tutte le radio accese nei giorni del solleone. Perché i giovani scattano i selfie e, a dire la verità, anche i meno giovani, gli adulti e qualche anziano, secondo quel principio contemporaneo che tutti tendono a ciò che è giovanile.

Una coincidenza interessante accompagna queste considerazioni, almeno per chi si sta impegnando in questi giorni a programmare l’attività pastorale dei gruppi nelle proprie parrocchie. L’Azione cattolica italiana, infatti, ha proposto come immagine guida dei sussidi dei ragazzi proprio quella della fotografia, con lo slogan: “Pronti a scattare”. Metafora ricchissima, ci basti pensare che, quando Gesù raccontava le parabole, faceva la stessa operazione di un bravo fotografo: fissava una realtà che era davanti ai suoi occhi, osservandola sotto una particolare luce e con una specifica angolatura e messa a fuoco. Se avesse avuto in mano una Canon, o uno smartphone, avrebbe scattato una foto.

Il selfie è più bello

Sono stato testimone qualche giorno fa della passione per i selfie. Un gruppo di ragazzi ammucchiati decide di farsi una foto, più precisamente un selfie, con lo sfondo delle Dolomiti. Inquadratura impossibile, loro sono troppi, il telefono a distanza di braccio è troppo vicino e l’orizzonte invisibile. Dico: “Dai ragazzi, ve la faccio io la foto!”. Risposta: “Ma il selfie è più bello!”.

Il selfie è più bello?! Dal punto di vista tecnico non c’è una sola ragione che renda un selfie più bello di una foto scattata da un altro. Inoltre, l’elemento paradossale è che, a dispetto del titolo, che si è imposto come una sorta di consacrazione del selfie, la canzone di Arisa e Fragola esprime in maniera intelligente una notevole problematizzazione di quest’esperienza:

«Siamo l’esercito del selfie, di chi si abbronza con l’iPhone,
e non abbiamo più contatti,
soltanto like a un altro post…
Ma tu mi manchi, mi manchi, mi manchi,
mi manchi in carne ed ossa».

A dispetto di tutto ciò, il selfie è davvero in grado di raccontare una generazione o almeno qualche suo riflesso.[1] Che cosa dunque fa percepire il selfie più bello, a parte la moda?

La percezione

Quello che fa la differenza, prima di tutto, è la percezione. Nel selfie c’è la percezione di essere infinitamente più protagonisti di quello che sta accadendo, la convinzione di potere curare se stessi fino a creare un personaggio, la suggestione di mostrare di sentirsi vivi. A ben guardare, è più che altro questione di percezione, ma è appunto questa che fa la differenza. Lo ripeto: la generazione selfie ci insegna che la percezione fa la differenza.

Tutto ciò non è esente da problemi, ma almeno inizialmente dovremmo assumerlo con tutta la serietà del caso. A dispetto della tentazione retorica per cui la Chiesa non si curerebbe della percezione perché baderebbe alla sostanza, dobbiamo preoccuparci di non allontanare i giovani con la prima impressione che diamo. Ambienti brutti, incontri scialbi e quell’alone di non vero interesse per le loro cose: non si può scaricare la colpa su di loro, dicendo che sono superficiali e che non è giusto giudicare frettolosamente. Questo è vero, ma va insegnato di nuovo e non certamente come primo atto.

L’impatto iniziale, immediato, irrazionale, emotivo è il primo ponte gettato verso quel famoso nuovo annuncio di cui ancora stiamo abbozzando i primi passi. C’è un modo altezzoso o trasandato, formale o eccessivamente scialbo che caratterizza ancora un certo stile di Chiesa e degli ecclesiastici che va curato con più attenzione, senso dell’opportunità e bellezza. Non si tratta certo di legittimare la moderna ossessione per l’apparenza, ma di permettere che il processo dell’incontro, che va sempre dall’esteriorità all’interiorità, non trovi ostacoli prima di potere giungere alla meta.

Il primato del dirsi

L’altro elemento che fa la differenza è il primato del “dirsi” piuttosto che dell’essere detti. Il selfie è un modo di raccontarsi in cui l’azione soggettiva (e la successiva possibilità di essere riconosciuti, magari con un «like a un altro post») vale più di tutti gli altri elementi della comunicazione.[2] Pensiamo a Gesù che dilata il dialogo con il giovane ricco per farlo parlare e venire allo scoperto, oppure quando chiede: «Che cosa vuoi che io faccia per te?».

La nostra pastorale, invece, sottovaluta in molti aspetti – talvolta inconsapevolmente, talvolta colpevolmente – questo bisogno. Il famoso metodo esperienziale, che intercetti in modo non banale la loro domanda di vita, è ancora messo in discussione o solo balbettato. I documenti ufficiali, così come molti sussidi catechistici, dicono tantissime cose dei giovani, con il dubbio che li abbiano mai lasciati parlare veramente.

Infine, mentre i viceparroco sono una razza in via di estinzione e le risorse pastorali in favore dei giovani vengono razionalizzate (magari affidando al clero molteplici incarichi), si mantiene saldamente una struttura e un’organizzazione ecclesiale che impedisce in ogni modo ai preti di perdere tempo coi giovani, di ascoltarli e di accompagnarli a lungo.

La mia amara, personale esperienza è il rischio di risolvere le cose con qualche consiglio e poche istruzioni moraleggianti… e così continueranno con i selfie, in scenari ben diversi dai nostri. E qualcuno condannerà ancora la loro autoreferenzialità e lasceremo che Apple, Facebook o qualcos’altro intercettino i loro stili e i loro bisogni.

Il desiderio di avere in mano una reflex

Invece sarebbe bello potere reagire e riuscire a comunicare ai giovani che la foto vogliamo farla insieme, come vogliono loro, ma con una reflex, in modo che si vedano bene i volti, i sorrisi e la luce dei loro occhi, e anche le Dolomiti sullo sfondo, e poi farne un ingrandimento e tenerla tra le nostre cose più care.


[1] [Redazione], Selfie. La cultura dell’autoscatto che racconta una generazione, in Wired 20/11/2017.
[2] A questo proposito è impressionante digitare su Google: “generazione selfie” per vedere quanti articoli molto critici o addirittura catastrofici si trovano scritti dagli adulti, e poi scovare un intervento fresco, positivo e pieno di energia che riporta, guarda caso, la prospettiva dei ragazzi di Radio Immaginaria: vd. F. Taddia, Selfie di una generazione: “Vedrete, diventeremo adulti felici”, in La Stampa 25/08/2017.

Don Davide

 

Testo scritto per SettimanaNews il 12 settembre 2017




Il virus benefico dell'”Estate Ragazzi”

Estate è tempo di centri estivi, un meraviglioso virus che colpisce i ragazzi dopo la scuola, provocando in loro sintomi di incondizionata generosità, serenità, allegria e voglia di vivere che, alle volte, pare soffocata tra i banchi delle loro aule. Perciò, come se fossimo in un laboratorio di microbiologia, procedo in questa riflessione estiva con un’osservazione sperimentale di questo virus di cui i giovani sono portatori sani.

Un’osservazione sperimentale

La scena è quella della verifica delle attività a fine giornata. Li osservi, i ragazzi e le ragazze: sono le 6 del pomeriggio ed è ancora un caldo che ti sciogli e pensi che loro sono stati lì a correre e a giocare con i marmocchi da almeno sette ore. Hanno la maglia lercia, nelle mani residui di vernice, terra e ogni altro materiale utilizzato. Stanno abbracciati gli uni con gli altri, qualcuno poggia la testa sulla spalla di un’amica, qualche sentimento si manifesta in modo palese dalle posture dei corpi.

Non importa se sono ufficialmente impegnati, immorosati (come si dice a Bologna) o fidanzati. Quello che conta è che vivono spontanei; per una volta non hanno timore che il don li rimproveri. Infatti fumano, anche. Non tutti, ma alcuni, liberamente, in questo momento di relax al riparo dei bambini, fumano, recuperando immediatamente la loro tensione all’età adulta.

Nel frattempo si confrontano su come sia andata la giornata, talvolta anche aspramente. Ogni tanto pare che litighino. Il don, che cerca di supervisionare tutto senza ingerire, nutre qualche timore che le cose siano andate male.

Invece, appena i responsabili dichiarano chiuso il momento di verifica, partono le battute, tutti sorridono, arrivano i gelati e le merende, scattano tornei mondiali di calcetto, basket, pallavolo o il mitico schiacciasette. E pronti per una nuova giornata, si riparte.

Tre osservazioni

Da questa esperimento raccolgo alcune osservazioni.

1. Il sudore (che non è mai un problema) dice quante energie i giovani abbiano da tirare fuori. Penso a tre ambiti in cui quest’esperienza contrasta completamente con la vita di fede che offriamo loro.

a) La liturgia. Sembra che non ci sia niente di meno energetico o dinamico di una liturgia cattolica. Talvolta pare quasi che ci si compiaccia di una certa pesantezza e lentezza, come se fosse l’unico modo di elevarsi a Dio, quando invece è l’unico modo di schiacciare un sonnellino. E si vedono le energie dei giovani implodere, come se non desiderassero altro che questa tortura finisca al più presto.

b) Gli incontri di formazione. Più che di incontri, bisognerebbe parlare di modelli: i nostri modelli di formazione sono per lo più teorici, concettuali, mentali. È rarissimo che ci siano delle dinamiche che coinvolgano il corpo in maniera non artificiosa, e diventa quasi impossibile che l’esperienza della fede passi dalla mente al corpo, dalla testa alla vita.

c) La carità. Dovremmo trovare modi e tempi per proporre esperienze attive di carità, roba da fatica di muscoli e sudore sulla pelle. Qualcosa che però faccia poi toccare tangibilmente il frutto di questa fatica: l’incontro con la famiglia per la quale si è fatta la raccolta o l’utilizzo dello spazio che si è andato a risanare.

2. Il gruppo. L’incredibile differenza tra l’impegno dei giovani durante l’anno e quello nei centri estivi è la presenza di un gruppo molto numeroso. In questo fenomeno si riconosce il bisogno di coinvolgimento, ma soprattutto il sentirsi parte di qualcosa di più grande. Allo stesso tempo, si vede la necessità di fare un’esperienza di Chiesa che sia vivace e ampia, non ridotta agli spazi angusti del gruppo parrocchiale, che talvolta – pur con tutto il bene che porta – appare più che altro una riunione di sopravvissuti.

3. La responsabilità. Nelle mie evoluzioni da giovane cappellano (sempre in prima linea, armato di braghini corti, cappellino e t-shirt degli animatori) a parroco (costretto, volente o nolente, a delegare molta responsabilità), ho visto che i giovani, accordandosi fra di loro e guidati da qualcuno appena più grande, sono in grado di fare cose impensabili se solo solo gliele chiedesse il parroco, tipo lasciare il cellulare per un’intera giornata, darsi appuntamento prestissimo al mattino, dividersi fra di loro per essere più distribuiti nel pranzo o nelle varie attività. È il prodigio della responsabilità consegnata, quella molla che ti fa capire che vali, che la tua presenza è importante, che puoi fare la differenza. Forse, da questo laboratorio di osservazione, possiamo quindi anche ricordarci che niente è così decisivo, nella formazione dei giovani e nella loro esperienza di fede, quanto la consegna di un ruolo da protagonisti.

Conclusione

Sono le 8 di sera. Sono passate quasi due ore dall’inizio dell’osservatorio sperimentale. Il don è andato a dire la messa ed è tornato per salutare gli ultimi rimasti. Negli occhi dei responsabili nota la stanchezza, ma anche la soddisfazione per un altro giorno messo a bilancio… e un po’ di questo orgoglio lo condivide con loro. Ancora qualche accordo per una birra o un gelato alla sera, poi tutti si disperdono… “Ciao don, a domani”.

“Ciao, a domani!”. Il portone si chiude e anche il cancello del cortile. “Ehi, sono rimasti fuori i palloni! E i vassoi della merenda?! Quante volte vi ho detto di rimettere a posto i vassoi della merenda!?”. Sbam! Sbatte una finestra del primo piano che non è stata chiusa. “Chi va a chiudere?”. Il don si guarda intorno, ma ormai non c’è più nessuno. “Accidenti!”.

Il virus ormai ha terminato il suo effetto. Almeno per oggi non sono più infetti e, per fortuna, nemmeno perfetti.

Don Davide

 

Testo scritto per SettimanaNews l’8 agosto 2017




La felicità è un’impronta

L’orma del sedere sul divano, o l’impronta del piede sulla strada?

Sembra questa la posta in gioco del papa nella sua partita con i giovani. L’anno scorso, durante la GMG a Cracovia, aveva già parlato della “divano-felicità”: “la tentazione di pensare che la felicità dipenda da un buon divano”. L’aveva definita “la paralisi silenziosa che può rovinare di più la gioventù” e si era lamentato di quei giovani che vanno in pensione dalla vita a vent’anni.

Come un abile giocatore di poker aveva detto: “Ci sto, gioco!”. Aveva messo sul piatto un bel centone e aveva provocato i giovani a raccogliere la sfida. E loro, i giovani, l’hanno fatto. In mille modi, da Cracovia al recentissimo incontro a Milano, hanno risposto all’appello, trascinando il papa a tirare fuori le sue migliori energie, e raccogliendo parole e suggestioni che in più di un’occasione sono parse indimenticabili.

Ma ora che è finito il primo giro, il papa si prepara a vedere le carte. Anzi, rilancia sullo stesso tema: “Maria non era una giovane-divano!” dice nel suo videomessaggio per la Giornata mondiale della Gioventù di quest’anno. Implicitamente, chiede: e voi? Sembra quasi di sentirlo, con la sua tipica inflessione spagnoleggiante: Non siatelo anche voi, dai!

Il montepremi che papa Francesco, come i migliori e più temibili giocatori di poker ha fatto accumulare, è niente di meno che la felicità. Dando come tema il grido di esultanza di Maria che apre il Magnificat: “Grandi cose ha fatto per me l’Onnipotente” (Lc 1,49), ha ricordato ancora una volta ai giovani che non c’è esperienza della felicità possibile, se non restituendo ciò che Dio ha fatto per noi. Non seduti sul divano, ma mossi dall’entusiasmo e dalla gratitudine! Viene in mente la terribile immagine di Nietzsche dell’Ultimo Uomo, “il più spregevole”, quello che siede in poltrona, strizza l’occhiolino e dice: “Noi abbiamo inventato la felicità!” (Così parlò Zarathustra, Prefazione, par. 5). Ci possiamo illudere che la felicità sia lasciare la nostra bella orma calda sul divano, ma non è invece la nostra vita un desiderio quasi inconfessato di lasciare un’impronta? Il papa dice: c’è un modo di farlo bene, con onestà, non schiacciati da inutili ambizioni.

La felicità non è già data una volta per tutte, è itinerante, si scopre nel cammino, cambia di forme, si accompagna all’inedito. La tradizione della Chiesa ci consegna l’Eucaristia come cibo dei pellegrini: nutriti da questo cibo, che ci fa rendere lode e trasformare in salvezza ogni giorno il vissuto quotidiano, siamo invitati a saltare giù dal divano e lasciare la nostra impronta nel mondo.

Don Davide




I giovani, maestri dell'”et et”

Celebriamo la Veglia, che non è breve, con le sette letture in versione integrale e i salmi cantati. Alla fine, ci si ritrova tutti a mangiare una colomba e un uovo di cioccolato. Ben oltre la mezzanotte le due ragazze si avvicinano per salutarmi: «Noi ci fermiamo solo un attimo, perché abbiamo una festa…».

Quattro pensieri

Primo pensiero: «Una festa? A quest’ora?! Dopo la Veglia di Pasqua?!».

Secondo pensiero: «E perché no?!».

Terzo pensiero: «Hanno celebrato la festa con la comunità cristiana. Cosa dovrebbero fare di più? Dovrebbero andare a casa a mantenere il clima spirituale?!».

Quarto pensiero: «Proprio ieri sera, Venerdì Santo, moltissima gente della mia parrocchia è venuta alla Commemorazione della passione di Gesù, e poi è andata a vedere il derby cestistico cittadino…».

Lo confesso: il derby il Venerdì Santo è una condizione limite. Il giovane parroco, che ha la chiesa affianco al Palazzo dello Sport, aveva qualche riserva e non ha ceduto alla tentazione. Ma il resto… perché no?!

Retaggi

In un baleno divento consapevole dei retaggi della mia formazione: alcune cose, solo ad immaginarle, non eri un buon cristiano. E se eri un giovane e volevi essere cristiano, quasi quasi dovevi guardarli un po’ dall’alto in basso quelli che si divertivano veramente… E se proprio volevi essere “moderno” e “vivo”, al massimo pensavi di fare “balotta” (= festa in allegria, nello slang) in parrocchia.

In un baleno, mi si apre anche il cuore: ma che belli questi giovani, che non rinunciano alla Veglia Pasquale, e poi raggiungono i loro coetanei per divertirsi. E magari si trovano a rispondere alla domanda: «Come mai sei arrivato solo ora? Dov’eri?» – «Ero in chiesa, alla Veglia di Pasqua!». E fanno in un secondo quella nuova evangelizzazione riguardo alla quale noi (Chiesa istituzionale) sappiamo solo riempire dei documenti.

Riconosco in questi miei retaggi una tentazione a cui gli operatori pastorali spesso non sanno resistere: quella di fare proposte valide, ma in opposizione alla vita concreta dei giovani. Un esempio lo riscontro nella recente Marcia della pace che si è celebrata nella mia città: la sera del 31 dicembre 2016, occupando dal primo pomeriggio alla sera inoltrata. Era una bellissima iniziativa, e sappiamo che la chiesa celebra la Giornata mondiale della pace il primo gennaio. Ma mi chiedo: c’era proprio bisogno di porre un mare di giovani, appassionati della causa della pace, di fronte alla scelta se festeggiare l’ultimo dell’anno insieme agli amici, magari in cose organizzate da tempo, o partecipare all’evento? Avrebbe davvero perso così tanto di significato farla, ad esempio, il 6 gennaio?! Alla marcia, per nota di cronaca, c’era molta meno gente di quanta avrebbe potuto essercene.

L’uno e l’altro

Si potrebbe definire una regola: l’uno e l’altro, ossia del non creare opposizioni. Un conto è un sano atteggiamento penitenziale il Venerdì Santo, o nei momenti giusti. Un conto è l’arte del discernimento che ci educa – dentro percorsi e sapientemente – alla radicalità della fede. Un conto sono i retaggi.

Allora penso a quel meraviglioso principio della dottrina cristiana dell’et et che regge i migliori dogmi che ci siamo dati, da quello cristologico: «vero Dio e vero uomo», a quello sacramentale: «natura e grazia», fino alle dimensioni pratiche: «misericordia e giustizia».

Ricordo quando ai ritiri spirituali o ai campi estivi non potevi portare la musica… Oggi non c’è minuto della vita di un giovane che non sia accompagnato da una qualche canzone. Ci viene la tentazione di pensare che così siano dispersivi, che non tengano il raccoglimento, appunto… ma è tutto diverso. Magari stanno operando una nuova sintesi e nuovi processi interiori. Sequeri ha scritto che «la musica è il luogo di vero discorso per l’intelligenza degli affetti».[1] Loro elaborano qualcosa di cui i grandi sono analfabeti, e lo fanno da maestri dell’et et, laddove noi, ancora, culliamo nostalgie per l’out out, in nome di una presunta radicalità che non convince.

Quale nuova radicalità, invece, si può trovare in questa capacità di abitare spazi e attraversare mondi diversi? Con una certa naturalezza, loro – i giovani – rendono testimoniale la forma di vita ordinaria del cristianesimo, senza farla percepire importuna e inopportuna, ma anzi con un tratto di amicizia che porta il vangelo in quelle famose periferie dell’umano che, altrimenti, raggiungiamo solo nei nostri proclami pastorali.

Non è questo un modo di vivere l’incarnazione? Un vero segno dei tempi.

Don Davide

 


[1] Sequeri, Gregoriano contemporaneo, in «Luoghi dell’Infinito», n. 169, gen. 2013, 19-23, p. 22.

 

Testo scritto per SettimanaNews il 28 giugno 2017