La Quaresima come cammino

Inizia la Quaresima, che è soprattutto un cammino spirituale.

La nostra parrocchia, rappresentata nel Consiglio Pastorale Parrocchiale, ha deciso di scandire questo cammino con alcune attenzioni, mirate specialmente a vivere bene la Settimana Santa.

Per questo, si è deciso – nei giorni della Settimana Santa – di impostare un percorso che, al termine della Quaresima, ne ricapitoli tutto l’itinerario e, allo stesso tempo, scandisca l’ultima preparazione. Lo indichiamo fin d’ora, perché possiamo esserne pienamente consapevoli.

Si tratterà, quindi, di privilegiare le tre principali celebrazioni eucaristiche (Palme, Cena del Signore, Pasqua) e di sostituire la messa serale del lunedì santo, martedì santo e mercoledì santo, con tre momenti di cammino spirituale a cui convocare tutta la comunità, sempre alle ore 19, in modo da permettere a tutti di partecipare.

Il primo, il lunedì santo, vivremo un momento di Lectio divina, sul vangelo dell’Unzione di Betania, che apre la preparazione alla Settimana Santa. L’intento è di dare spazio al raccoglimento e alla preghiera personale a partire dalla Parola di Dio, cosa che spesso nella liturgia eucaristica è un po’ sacrificata. Guiderà la Lectio Suor Chiara Cavazza, così da ascoltare una voce femminile che ci aiuti ad entrare nel grande gesto della donna che unse Gesù, trascinata dall’amore per lui.

Il secondo, il martedì santo, ci sarà la celebrazione penitenziale comunitaria. L’idea è che tutta la comunità cristiana entri nel clima della Pasqua in un atteggiamento penitenziale condiviso, che sia una cosa fatta insieme, e non un’impresa personale. Ascolteremo ancora il brano dell’Unzione di Betania, cercando di raccogliere dalla meditazione spirituale del giorno precedente, spunti per una revisione concreta di vita. Ci sarà anche la possibilità di confessarsi.

Il terzo passaggio – il più importante di tutti – il mercoledì santo, sarà un momento di preghiera nelle case della nostra parrocchia. Avete capito bene: nelle case; per essere più precisi: in tutte le case della nostra parrocchia. Vorremmo che ogni famiglia, ogni nucleo familiare e ogni gruppo di amici si riservasse mezz’ora prima di tutto per radunarsi, e poi per vivere insieme un momento di preghiera che sarà uguale per tutti. In quella settimana così ricca e impegnativa, dal punto di vista della richiesta di partecipazione, ci sarà così un momento in cui non si chiede alle persone di uscire di casa per andare in chiesa, ma di respirare un momento di pace nella propria casa, con gli affetti più cari: un incontro che, spesso, magari si dà per scontato e non ci si fa troppo attenzione.

Come nelle case degli antichi ebrei, prima della fuga dall’Egitto, così immaginiamo che quel giorno il Signore possa udire un brusio di preghiera da tutto il nostro territorio parrocchiale, per chiedergli di custodire i nostri legami più cari, di illuminarli con la luce della resurrezione di Gesù e di stringerli in una rete che sappia edificare la Comunità.

Dopo questo breve itinerario, ci auguriamo così di potere raccogliere tutta la ricchezza delle celebrazioni del Triduo Santo e che cresca il desiderio di non mancare a questo appuntamento, che è il più importante dell’anno.

Per vivere bene questi appuntamenti, soprattutto quello del mercoledì santo nelle nostre case, è quanto mai opportuno mettersi nell’ottica fin da adesso di riservare il momento. Talvolta, infatti, è difficile incontrarsi persino in famiglia. Stabilite fin d’ora la mezz’ora in cui trovarvi tutti, per fare questo momento di preghiera insieme. Stabilite fin d’ora chi invitare eventualmente nell’intimità della vostra casa. Guardate se nel vostro condominio c’è qualcuno che potrebbe rimanere solo e invitatelo, organizzatevi perché lo possa vivere con voi e non rimanga solo, affinché nella casa di ognuno possa essere preparata la Pasqua.

Don Davide




La Giornata Mondiale del Malato

Domenica prossima, giorno della B.V. di Lourdes, celebreremo la Giornata Mondiale del Malato, con una messa (quella delle 11) dedicata all’Unzione degli Infermi.

Già di per sé, celebrare la Giornata “del Malato” risulta essere un atto in controtendenza: primo, perché la malattia, come la morte, tende a essere rimossa, ad essere considerata un’infamia e una vergogna, oltre che una sfortuna, e quindi chiamare qualcuno “malato” risulta essere poco delicato, non rispettoso o discreto. In secondo luogo, perché associare la parola malattia all’idea di una celebrazione, potrebbe essere sgradevole, quasi blasfemo, come se fosse un rigurgito masochista della fede cristiana.

Invece, tenacemente, la Chiesa continua a non rimuovere le parole più scomode della nostra cultura, quali ad esempio “malattia”, e a celebrare questa giornata, per renderci sensibili ai problemi, e non farci percorre la via più facile, che sarebbe quella di trascurarli.

La prima cosa che la Giornata del Malato smaschera è il nostro rapporto difficile con la malattia, perché rischiamo di avere un approccio distorto alla vita. La malattia, quando compare, materializza tutte le nostre paure più recondite. Se compare in noi, rende concreta la percezione di essere più sfortunati degli altri, di non essere benedetti, di essere delle vittime. Se compare in qualcuno che ci è vicino, ci terrorizza per quello che potrebbe accadere, ci fa toccare con meno le nostre debolezze, quando vorremmo fuggirla eppure dobbiamo avvicinarla. La malattia, in qualunque modo, incrina la nostra speranza di una vita perfetta, priva di dolore, non toccata dalla difficoltà. Soprattutto, infrange il mito della vita per sempre, l’idea che il corpo non declinerà mai… La malattia, quindi, ci chiede di avere un rapporto onesto con l’esistenza e con la nostra vita. Spesso, oltre al dolore che diventa insopportabile, può essere questa mentalità sbagliata che crea le sofferenze più inaccettabili.

La seconda cosa su cui la presenza della malattia ci interpella, è che visione abbiamo di Dio. Perché è con lui che la facciamo, non appena siamo colpiti. Ci immaginiamo un Dio che tenga in mano un mondo dove non c’è nessuna esperienza negativa, ma non è così. Il mondo è creato, avviato e lasciato libero. Nemmeno il Figlio di Dio è stato risparmiato dall’ingiustizia, dalla sofferenza insensata, dalla violenza gratuita e dalla morte. E tuttavia, Dio prende posizione accanto a noi e ci dice che lui non sta mai dalla parte della sofferenza, ma sta dalla parte nostra, in questa lotta. Dio non vuole la malattia, ma lotta con noi, toccando il nostro cuore e la nostra libertà, per vincerla. La malattia, quindi, interpella la nostra responsabilità: ci mette in gioco nella solidarietà, nella cura, nella compassione… come fa lui stesso con noi. Lui non ci lascia soli; noi non dobbiamo lasciare solo nessuno. Lui si prende cura di noi; noi dobbiamo prenderci cura dei nostri fratelli e sorelle. È così che funziona.

Da ultimo la malattia associa chi soffre alla sofferenza di Cristo, e Gesù stesso viene a portare quella sofferenza. Gesù diventa il Buon Samaritano e il Cireneo al tempo stesso. Non significa che la malattia è una cosa buona. Significa che come la Croce di Gesù, che non era buona, ma Gesù l’ha cambiata per il bene degli uomini, così anche chi vive la sofferenza può scegliere di cambiarla in un cammino di purificazione, in un esercizio di pazienza, in un’offerta associata all’amore di Dio per la salvezza di qualcuno… Come avvenga questo, è un mistero che solo chi l’attraversa lo può dire. Tuttavia, molti santi e persone comuni hanno testimoniato che, ad un certo punto, anche la sofferenza peggiore poteva essere vissuta in modo buono.

A tutti quelli che non sono malati nel fisico, spetta il compito della vicinanza e dell’aiuto, perché nessuno sia lasciato solo, nessuno si senta troppo fragile o in difficoltà. Il senso del Sacramento dell’Unzione degli Infermi è esattamente questo: la sollecitudine della Chiesa che, nella fede, e con un sacramento del conforto, prova a fare sentire la sua vicinanza a tutti i malati, li affida alla grazia di Gesù e infonde loro la capacità di vivere la sofferenza come un’esperienza dell’esistenza, come una cosa che ci chiede di fare verità su noi stessi e su Dio e come una cosa che possiamo vivere insieme alla Croce di Cristo.

Il Sacramento dell’Unzione, nella fede della Chiesa, ha il potere di guarire. Alcune volte guarisce nel corpo e protegge. Ma sempre guarisce nel senso che infonde questa capacità di visione, che permette di affrontare quello che è, spesso, il più doloroso dei viaggi.

Don Davide




L’autorità di Gesù

Gesù ha iniziato ad annunciare l’amore di Dio Padre. Ha chiamato i suoi discepoli, è appena entrato in sinagoga e subito la sua autorità travolgente si manifesta e non può non essere riconosciuta.

È un’autorità che comunica un amore che trasforma, una parola che guida alla verità (prima di tutto del cuore) e che ha il potere di strappare dalla nostra vita le inclinazioni maligne. È la parola che ci apre alla fraternità e alla guarigione.

Questa autorità di Gesù è quella che produce gli effetti del Vangelo. Gesù compare sulla scena e succede di tutto: gli spiriti maligni vengono scacciati, i lebbrosi accolti e guariti, i malati sanati, gli ipocriti smascherati, i poveri diventano oggetto di attenzione, gli sconsolati recuperano un senso alla loro vita.

Oggi abbiamo il dono essere richiamati a questa autorità di Gesù, quasi come premessa dei tanti discorsi che sono stati fatti, e che faremo, sui grandi temi del mondo di oggi: i poveri, gli emarginati, i migranti, le sfide della carità, il rinnovamento pastorale della nostra diocesi, la chiesa “in uscita”.

Al centro di tutto, come fonte irradiante; prima di tutto, come inizio generativo, ci sta Gesù, l’incontro con lui, il risuonare della sua parola nella nostra vita, il fatto di vedere raccontato nel suo essere l’amore del Padre. Siamo messi di fronte alla sua autorità: è quest’esperienza che ci trasforma e ci dà l’energia necessaria.

È l’incontro con Gesù che ci spinge ad essere discepoli-missionari autentici. È l’assiduità con lui che ci rende più sensibili alle esigenze dei poveri, a cui “è annunciata la buona novella”. È lo sguardo posato su di lui che ci fa vedere negli emarginati, nei migranti il suo stesso volto. È assimilando i suoi criteri che noi possiamo rinnovare la Chiesa perché sia ancora e sempre testimone della resurrezione.

Mentre ci dedichiamo e ci preoccupiamo giustamente delle tante sfide concrete che ci si pongono come credenti e come comunità cristiana, la domenica di oggi ci dà l’opportunità di ricordarci che tutte queste cose trovano la loro unica risposta autorevole a partire da Gesù, dalla fede e dal nostro rapporto con lui, di cui ci dovremmo preoccupare in maniera NON meno concreta del resto.

Colgo pertanto l’occasione, pertanto, di proporre una piccola verifica del nostro legame personale con Gesù come suoi amici e discepoli.

  1. Che intensità relazionale ho con Gesù? Lo credo una persona viva e presente? Ho un modo concreto e personale (come si ha con tutti gli amici) di stare con lui?
  2. L’amicizia con Gesù orienta la mia vita? Determino le mie scelte, i miei comportamenti, il mio stesso modo di amare, in base a quello che riesco a capire di Gesù, dal Vangelo?
  3. La mia preghiera ha una dimensione affettiva con Gesù? Quando prego, prego magari con fede, ma solo in maniera precisa o comunitaria, oppure riesco a metterci qualcosa di mio? Dialogo con Gesù? Gli dico i miei sentimenti, i miei stati d’animo, le mie emozioni, i miei progetti, il bisogno di chiarezza nelle mie scelte?

In questo modo, la nostra amicizia con Gesù non sarà come quella con qualsiasi altro maestro, ma come quella con uno che ha autorità sulla nostra vita: un’autorità che ci rende liberi e che ci inclina al desiderio di amore… e DI AMARE.

Don Davide




La Giornata Mondiale della Pace dell’AC

(I ragazzi del catechismo e dell’ACR vivono oggi la Giornata diocesana della Pace. Noi li accompagniamo con questa riflessione)

«Sono un fotografo di guerra che spera di essere disoccupato»: è una delle amare considerazioni che ricorrevano spesso nelle interviste rilasciate da Robert Capa, il più famoso fotografo di guerra del Novecento, testimone, suo malgrado di una serie interminabile di episodi tragici, di morti ingiuste, di dolori incommensurabili. Eppure la carriera di Capa è costellata da una miriade di presenze sui campi di battaglia: dalla guerra civile spagnola alla seconda guerra mondiale, dalla guerra arabo-israeliana alla prima guerra in Indocina, il fotografo ungherese non ha smesso mai di gettare il suo sguardo su una delle più brutali manifestazioni dell’umanità che ancora oggi continua a segnare il presente della nostra Terra. L’esperienza di Capa, testimonia come nel cuore del noto fotoreporter fosse vivo il desiderio di raccontare al mondo l’assurdità della guerra perché appunto presto ci si rendesse conto della sua inutilità ed egli potesse restare a tutti gli effetti senza occupazione. […] È lo stesso desiderio di pace che renda ancora necessario oggi celebrare e vivere un mese dedicato alla pace nei nostri contesti civili ed ecclesiali. […] Anche quest’anno l’AC vuole farsi portavoce di un messaggio di pace che proclami l’inutilità della guerra, che racconti della bellezza di un mondo senza guerre, che aiuti l’umanità a guardare a se stessa per scorgere quei barlumi di bellezza che nemmeno il più orribile dei mali potrà mettere a tacere, e che hanno il nome di solidarietà, voglia di vivere, aiuto umanitario, progetto di solidarietà.

Sguardo attento e cuore aperto In questi mesi ci stiamo confrontando con la pagina del Vangelo di Marco nella quale, dentro il Tempio, Gesù offre ai suoi discepoli un insegnamento a partire dagli atteggiamenti delle persone sulle quali si posa il suo sguardo. Nel Mese della Pace anche lo sguardo dei ragazzi, dell’Azione Cattolica vuole, per quanto possibile, farsi ancora più attento alla realtà. Anche questo possiamo imparare da questo Vangelo: è a partire dalla realtà che Gesù fa emergere tanto le contraddizioni (gli scribi) quanto i semi di Vangelo sparsi nella vita degli uomini e delle donne di buona volontà (la vedova). Davvero noi siamo invitati ad invocare dal Signore questa capacità permanente (che cioè sa andare ben al di là di un tempo circoscritto come il “Mese della Pace”) di saper osservare la realtà come il luogo attraverso il quale Dio si manifesta; come il luogo nel quale siamo chiamati ad essere segni della sua presenza; come il luogo nel quale siamo impegnati ad arginare il male, diversamente dilagante. […] Sì: uno sguardo attento è il segno di un cuore aperto!

L’invito del Vangelo ad avere “sguardo attento e cuore aperto” si traduce, durante il Mese della Pace, nell’impegno da parte di tutti a guardare alla realtà che li circonda e, in una prospettiva allargata, a quella mondiale con l’occhio di chi si fa attento ai bisogni – soprattutto il bisogno di pace – e, nel contempo, riesce a scorgere il bene, il bello laddove esso si manifesta. Per i ragazzi, quest’anno l’invito è quello di assumere uno sguardo “fotografico” per individuare l’impegno di uomini e donne che costantemente si adoperano per la pace, raccogliere le loro azioni di gratuità, di dono spontaneo di sé, di condivisione fraterna e tensione alla carità.

È proprio questo richiamo alla fotografia che genera lo slogan dell’impegno di Pace 2018: SCATTI DI PACE, uno slogan che racconta una realtà missionaria articolata e rappresenta il dinamismo del cristiano che vuole portare la causa del Vangelo fino agli estremi confini della Terra. “Scatti di pace” perché in un’era dominata dalle immagini, dai ritratti naturali o artefatti della realtà per mezzo di fotocamere e smartphone, diviene sempre più importante allenare il proprio occhio per gettare lo sguardo “oltre” (sulla scorta dell’esempio di Gesù con la vedova) e cogliere l’esigenza di pace di uomini e donne, bambini e anziani, in ogni parte del mondo. […] Ma “scatti di pace” vuol dire anche altro: il dizionario definisce lo scatto come «il liberarsi rapido e improvviso di un congegno tenuto in stato di tensione da una molla o da un’altra forza»; nel Mese della Pace, quest’anno, siamo chiamati a liberarci rapidamente da quelle situazioni che ci imprigionano nei nostri dubbi, nelle nostre insicurezze, che frenano il nostro andare incontro agli altri e scattare, muoverci, correre verso chi oggi cerca la pace per offrire il nostro impegno appassionato e generoso.

Dall’iniziativa annuale per la Pace dell’Azione Cattolica




Benedire: tanto importante da volere farlo bene

Carissimi/e,

nonostante le “benedizioni” siano un rito ormai decennale e appartenente alla nostra tradizione, molti – in occasione della visita nelle case per la benedizione pasquale – tradiscono un certo imbarazzo, come se non sapessero bene come comportarsi; capita soprattutto ai giovani, magari meno abituati a vivere questo momento.

Nel tentativo di alleggerire questo incontro e di togliere questo imbarazzo, vorrei consegnare alcune indicazioni.

Primo. Le “benedizioni” sono soprattutto un incontro. Un incontro che avviene nelle vostre case, dove il prete o i ministri della parrocchia praticamente si “auto-invitano”. Una volta, nessuno si sognava di non accogliere il prete o un suo rappresentante, ma oggi non è più così. Noi perciò, prima di tutto vi siamo grati per l’attenzione che ci dedicate, per il fatto di aprire la porta, di parlarsi cortesemente. Non lo diamo per scontato e – laddove siamo accolti – entriamo umilmente e senza pretese. L’incontro non è formale, ma amichevole, come in famiglia. Ci salutiamo, scambiamo due parole e ci si aiuta a sentirsi a proprio agio. Perciò non vi preoccupate se la casa non è perfetta o se eravate impegnati in altre faccende! Prima di tutto vi ringraziamo per il tempo che dedicate all’incontro e per la disponibilità a pregare per voi e per la vostra casa.

Secondo. Il rapporto prete/ministri nei confronti della parrocchia è schiacciante: 4 a 6900. Nel caso non ci si conosca perfettamente, se ci aiutate a focalizzare chi siete, se avete vissuto qualcosa di particolare e se c’è qualche necessità, ci aiutate enormemente. Vi chiedo, soprattutto, di segnalarci se c’è stato qualche lutto in famiglia nell’ultimo anno, in modo da potere ricordare i defunti nella preghiera; oppure se c’è qualche malato, che abbia bisogno di una visita o dell’assistenza spirituale; infine, se c’è qualche situazione che vi sta a cuore, per cui la parrocchia potrebbe fare qualcosa.

Terzo. Il sogno di tutti noi preti e ministri incaricati sarebbe quello di potere dedicare più di qualche minuto a ciascuno. Purtroppo non è possibile, per il ritmo serrato che ci è imposto. Abbiamo piacere di fermarci per un breve dialogo amichevole, anche laddove non ci siano situazioni particolari, ma vi chiediamo in anticipo un po’ di comprensione se, ad un certo punto, non possiamo dilungarlo oltre, perché dobbiamo proseguire con le visite. Allo stesso modo, vi chiedo un po’ di pazienza… perché so bene che gli ultimi sono quelli che aspettano di più, ma ovviamente tra l’inizio e la fine può passare un lasso di tempo anche di qualche ora. Purtroppo nessuno di noi ha il dono dell’ubiquità! Per agevolarvi, per quanto possibile cercheremo di seguire l’ordine di progressione indicato sul calendario delle benedizioni.

Quarto. Dopo avere creato le condizioni perché si possa vivere come momento famigliare o amichevole, avviene quindi la preghiera con la benedizione. Diciamo insieme alcune preghiere della tradizione, quelle che sappiamo tutti, per intenderci. In alcuni casi si può leggere un breve passaggio del Vangelo e dire qualche intenzione di preghiera spontanea. Poi chiediamo la benedizione di Dio sulla vostra famiglia, prima di tutto, e sulla vostra casa. Se avete piacere che si benedica dappertutto, basta dirlo: lo facciamo volentieri. Altrimenti, in genere, ci si limita a benedire nel luogo dove siamo accolti, perché magari qualcuno può non avere piacere che si giri per casa! Accompagna questo momento, la consegna di un ricordo, che ha valore soprattutto perché unisce tutte le famiglie cristiane con lo stesso simbolo e perché vi porta il saluto del vescovo. Dopo di ché ci si saluta, così noi continuiamo il viaggio!

Spero che queste poche indicazioni, ci aiutino a vivere le “benedizioni” di quest’anno come un bel momento per tutti. Soprattutto, vi chiedo il massimo della collaborazione per non banalizzare questo momento; di comunicare magari a chi non viene in chiesa queste informazioni, di consegnare questo foglietto e di incoraggiare chi non ha piacere di ricevere la benedizione a dirlo semplicemente.

Il gesto di benedire è una delle cose più belle, più preziose e solenni che possiamo fare nei confronti delle altre persone, e noi vogliamo che sia così per tutte le famiglie e per ogni singolo che lo desiderino.

Vi saluto con amicizia e vi do l’appuntamento a presto,

Don Davide




Le “benedizioni” pasquali

Anche quest’anno, a partire da lunedì 15 gennaio, riprenderemo le tradizionali “benedizioni pasquali”. Questo appuntamento nacque fin dall’inizio come un gesto di vicinanza, come un rito liturgico da fare nelle case (e non nelle chiese), inteso come un segno per confermare la fede delle famiglie. Oggi molto più significativo se compreso come una visita alle famiglie per vivere un incontro, per rinforzare un’amicizia, per conoscersi meglio e per avvicinarsi alle situazioni di bisogno.

La visita alle famiglie, quindi, avviene così: ci si saluta amichevolmente; se non ci si conosce ci si presenta; se c’è qualche problema di cui la famiglia ha piacere di parlare si può dedicare un po’ di tempo all’ascolto; poi – se i padroni di casa hanno piacere – si dice una preghiera insieme e si invoca la protezione di Dio e le cose buone che si chiedono attraverso la benedizione.

Nella fede cristiana, i luoghi della nostra vita, come anche gli oggetti che  ci accompagnano quotidianamente, sono considerati come un bene per la persona, quindi si benedicono. Per questo si benedicono le case, o anche le cose più care.

La benedizione, dunque, è per le case, ma sempre e soprattutto per le persone che ci vivono, quelle a cui vogliamo bene, quelle che verranno ospitate nelle nostre case.

Per vivere bene questo momento, mi sento – con rispetto – di proporvi alcune piccole attenzioni:

  • Nelle case dove ci sono dei bimbi o dei ragazzi. Sarebbe bello che tutti partecipassero a questo momento di incontro: interrompere momentaneamente i giochi, il computer… addirittura lo studio e vivere insieme i pochi minuti della visita.
  • Nelle case degli studenti universitari. Abbiamo piacere di incontrarvi e di salutarvi, anche se abitate nella nostra parrocchia solo per il tempo degli studi. Siete una presenza preziosa! Vi chiedo inoltre di non avere paura a dirci con chiarezza se avete piacere di pregare insieme e di ricevere la benedizione, oppure no. Si evitano inutili imbarazzi e ci si può salutare cortesemente comunque, e farci gli auguri.
  • Negli uffici o nei negozi. Per rispetto e delicatezza veniamo solo se la visita è gradita e se non rechiamo disturbo. Se qualcuno ha piacere, basta che lo dica, facendolo presente in parrocchia o al ministro che passa nella zona. In quel caso, chiediamo di fermare le attività il tempo della preghiera e della benedizione.

La benedizione è totalmente gratuita. Lo è perché non è una “prestazione religiosa”, ma una visita, un incontro di amicizia, e come tale non si paga.

C’è la tradizione, in questa occasione, di lasciare un’offerta per le tantissime spese della parrocchia o per le attività destinate alla carità. Se avete piacere di lasciare un’offerta, vi chiedo preferibilmente di metterla in una busta e vi ringrazio di cuore anticipatamente. Se avete piacere che la vostra offerta venga destinata esclusivamente alla carità o a opere di beneficienza, basta segnalarlo chiaramente sulla busta, e non verrà usata per altri scopi che per gli aiuti forniti dalla Caritas parrocchiale alle persone.

Per ora vi faccio il più caro augurio di buona ripresa delle attività dopo le feste natalizie, in attesa di incontrarci personalmente.

Don Davide




Ancora sui giovani, attraverso Star Wars

star wars

Ho trovato molto stimolanti per alcune intuizioni i recenti interventi su Settimana News di Thies Münchow (17/12/2017) e di Andrea Franzoni (24/12/2017), pur discordando dalle loro conclusioni riguardo l’interpretazione del vissuto dei giovani e del rapporto tra le generazioni.

Su ogni film degli Jedi ormai viene detto di tutto, con il sospetto che le valutazioni siano più o meno parziali a seconda che ci si posizioni tra quelli come me, che si accontentano di due spade laser, una battaglia spaziale e qualche creatura strana, e quelli che cercano in Star Wars un film d’autore, magari un po’ alla francese. Ho volutamente enfatizzato gli estremi, per introdurre la prima considerazione.

Quando si tratta di un prodotto della cosiddetta cultura pop si avverte subito un sospetto per il fatto di essere mainstream, di strizzare l’occhio al merchandising e di essere solo l’ultimo atto di un impero come la Disney che – come recitava un simpatico post su Facebook in questi giorni – fra qualche decennio conquisterà l’intera galassia a forza di acquisizioni miliardarie. E sempre si sfugge, con un certo atteggiamento di superiorità, alla vera domanda: come mai una cosa così parla a tutti, mentre altre rimangono strette in una supposta cultura alta, per lo più autoreferenziale?

Bisognerebbe, inoltre, essere molto più cauti nello stabilire giudizi di appartenenza cristiana o non cristiana a storie che non hanno un obiettivo religioso. La considerazione di una concezione «neo-pagana dell’universo che è anche fortemente anticristiana»[1] sta alla storia di Star Wars come se volessimo giudicare il Signore degli Anelli anticristiano perché gli elfi sono immortali. Sarebbe molto meglio interrogare le storie senza pregiudizi o post-giudizi inappropriati e chiedersi invece: che cosa interpretano con il loro potere di affascinare? In altre parole: che cos’è che Star Wars dice meglio di altri, pur con tutti i suoi (presunti) difetti?

Rottamazione

Thies Münchow individua, e io concordo, il punto più alto del film quando Kylo Ren e Ray si sbarazzano del Leader Supremo Snoke e poi giocano come alla Playstation contro le sue guardie. Il signore dei cattivi, pur riconoscendo nel suo apprendista una Forza indomita e senza pari, lo ha trattato fino a questo momento come un giovane garzoncello, umiliandolo addirittura per imporre i suoi scopi e la sua visione del potere. Kylo Ren, in tutta risposta, lo inganna proprio mentre questi commette un errore provocato della propria supponenza.

Ray si trova lì in quel momento, perché anche lei – a suo modo – si è dovuta «sbarazzare» di Luke Skywalker, che si ostinava a rifiutarsi di darle il suo aiuto. La scena è oggettivamente molto bella: con uno sfondo pompeiano in cui cadono i lapilli e le macerie di un mondo esploso, per un istante i due si trovano alleati, in equilibro perfetto di bene e male, in cui uniti potrebbero diventare sovrani invincibili della galassia. In tale gesto di ribellione di Kylo Ren (e Ray) c’è un atto supremo di rottamazione.

Per la prima volta il potere non viene trasmesso dall’oligarchia dei cavalieri (buoni o cattivi che siano) per diritto/dovere di successione – atto che ha la sua origine sempre in chi lo precede – ma perché viene preso – atto che ha come protagonista chi viene dopo, colui che emerge sulla scena. In fondo, la Forza stessa è un po’ anarchica: Luke e Leia hanno sangue reale, ma la Forza, in Anakin, veniva dal nulla e Ray è figlia di due signori nessuno.[2]

L’evento di Kylo Ren e Ray non ha precedenti, perché non si tratta qui di un passaggio al male con la presenza dei maestri buoni dall’altra parte (come nel caso di Anakin con ObiWan in Episodio III), o viceversa (come nel caso della redenzione di Darth Vader al cospetto di Lord Sidius in Episodio IV). In quei momenti c’era sempre l’alter ego predecessore. Qui invece, finalmente, i predecessori sono spazzati via. L’unico alter ego è giovane ed è perfettamente alla pari.[3]

Cari giovani, prendete parola

Non si tratta tanto della riflessione sull’uso e l’abuso del potere, quanto su come ci si sbarazzi di una presenza egemonica che non lasci spazio.

In questo momento del film ci si trova a una specie di punto zero. Un evento altissimo, anche cinematograficamente. «L’evento porta necessariamente con sé la decisione. E la decisione soltanto implica parzialità» scrive Thies Münchow nelle sue interessantissime considerazioni. Ma nella decisione che ne consegue, lui rileva la caduta di stile del film, un ritorno ai soliti schemi di bene e male, laddove tutto invece poteva accadere. Lo sviluppo della narrazione negherebbe la vera svolta della saga.

Io ritengo, invece, che la svolta sia già tutta contenuta nella scena precedente. Dopo la decisione dei due protagonisti la narrazione non può che riproporre l’unico tema a cui effettivamente corrisponda la realtà: cosa ne sarà dell’ultimo alfiere della rivoluzione? «Ho visto tutti i viventi che si muovono sotto il sole stare con quel giovane, che era subentrato al re. Era una folla immensa quella che gli stava davanti. Ma coloro che verranno dopo non si rallegreranno neppure di lui. Anche questo è vanità, un correre dietro al vento.» (Qo 4,15-16). Non appena costui/costei sceglie di nuovo il potere, il potere stesso genererà di nuovo la lotta tra il bene e il male. Nemmeno Tolkien ha potuto sfuggire a questo, tanto che il famoso anello non può che essere distrutto. Così, la scena di Kylo Ren e Ray che si contendono (e spezzano a metà) la spada laser, simbolo supremo di questo nuovo spazio acquisito, è certamente di nuovo la storia di chi sceglie il potere e di chi cerca un’altra via per dare seguito alla rivoluzione.

star wars ultimi jedi

La cosa veramente nuova, in questo caso, è che entrambi la rivoluzione l’hanno già fatta. Il messaggio per i giovani è: «Cari giovani, c’è davvero bisogno di una rottamazione, di una rivoluzione. Non avverrà un passaggio di consegne: prendete parola, prendete i vostri “eventi”, ma prendeteli. (Se penso alla vita della Chiesa, non posso che riscontrare la profonda corrispondenza di questo invito alle sfide che si manifestano). Però sappiate che appena vi ritroverete la spada laser in mano, tornerete subito ad avere il problema di come gestire i cambiamenti che avrete portato. Le ombre delle rivoluzioni fallite o sfociate nel loro contrario saranno sempre il vostro Lato Oscuro. E Kylo Ren e Ray perennemente il vostro monito. Ogni volta che dovrete prendere una decisione, non potrete non pensare a loro due che si contendono (e spezzano) una spada laser».

Discepoli e maestri

L’altro insegnamento de Gli ultimi Jedi è riguardo al ruolo dei maestri. Stabilita la rottamazione operata dai giovani, cosa ne rimane del rapporto dei maestri con i loro discepoli? Saranno maestri offesi di questo rifiuto? Che tipo di maestri saranno costoro su cui ricadono, proprio per questo, responsabilità sempre più grandi?

Trovo importante notare, innanzitutto, che la Ray inesperta ritiene inizialmente di potere fare qualcosa soltanto con la guida di un maestro, ma compie il suo passo decisivo solo nel momento in cui si scontra con il fallimento/rifiuto del proprio mentore. Forse è necessaria questa delusione e una tale dolorosa presa di distanza, perché un apprendista possa tirare fuori veramente qualcosa di nuovo.

Non a caso il grande Yoda, consapevole di ciò, salutò prematuramente con la propria morte il giovanissimo Luke prima che lui ritenesse di essere pronto, per lasciargli lo spazio necessario al suo vero apprendistato, quello della realtà (Episodio V). La rottura tra Ray e Luke, ingabbiato nel suo fallimento, permette almeno a Ray di seguire le proprie intuizioni.

L’interpretazione di Andrea Franzoni legge in questo processo un esito decadente: i maestri abdicano al loro ruolo, «il futuro si costruisce sul fallimento dei maestri, da soli e senza una guida».[4] Ma questa analisi coglie solo una parte del messaggio, e perciò inevitabilmente lo distorce.

Meraviglioso insegnamento

Il punto vero, come dice l’emblematica scena del dialogo tra Yoda e Luke, non è che le nuove generazioni si formano sugli sbagli dei loro maestri: in questo modo la costruzione verrebbe edificata storta, una rovina compromessa dalle fondamenta, e l’unica possibilità di ovviare a tale problema sarebbe che un maestro fosse perfetto, cosa impossibile. Il punto vero è che i maestri devono convertire la loro ridicola presunzione oligarchica, dice Yoda. In tal senso, Luke sostiene il vero quando afferma che, proprio all’apice del loro potere, i Maestri Jedi hanno permesso l’ascesa di Lord Sidius.

Quale meraviglioso insegnamento, questo, laddove i nostri maestri, i fondatori, i custodi, i garanti della tradizione, pretendono una tale purezza da non riuscire più a cogliere i veri problemi dei giovani e del mondo! Yoda insegna a Luke che non c’è cosa che si trovi nei libri che Ray non sappia già dall’inizio (come a dire: quel tipo di sapere non serve più a nulla!) e che la questione decisiva è che i maestri imparino dai fallimenti e che trovino un nuovo modo di «non perdere»[5] i propri apprendisti. Ciò che non si deve in alcun modo fraintendere è che i maestri devono imparare dai propri fallimenti, non i giovani dai fallimenti dei maestri, come invece pare che affermi l’interpretazione di Franzoni. Esito a cui approda il film, in effetti, e che giustifica il finale dopo la resa dei conti di Kylo Ren e Ray contro Snoke e i suoi scagnozzi.

Infatti Luke, per non perdere anche Ray, non si proporrà più come suo maestro in veste tradizionale, ma le concederà tempo perché possa scoprire in lei stessa le vie della Forza. Contrariamente al giudizio che vede in Episodio VIII una trama incerta e spezzettata, gli autori – probabilmente non del tutto consapevolmente, come accade in questi casi, ma trainati dalla forza della storia – ci propongono un messaggio di estrema coerenza e forza interpretativa dell’oggi.

I giovani devono avere la forza di operare una rottamazione. Non gli sarà concesso da nessuno questo passaggio, che dovranno conquistarsi anche con delle rotture. Quei pochi maestri rimasti, che vorranno non fare i permalosi o gli oligarchi attaccati al potere, potranno avere la massima stima di quei giovani intraprendenti, creare lo spazio e concedere loro tempo finché non trovino la loro strada, poi congedarsi serenamente vedendo due soli: quello che tramonta e quello che sorge.[6]

 

Davide Baraldi

 


[1] A. Franzoni, «Star Wars VIII: Gli ultimi Jedi». La rinuncia dei maestri, in SettimanaNews 24/12/2017.

[2] Bellissima, in quest’ottica, anche l’ultima scena del film, con il bimbo piccolo – un outsider completo con il simbolo della Resistenza – che manifesta le vie della Forza e usa la scopa come una spada laser, guardando l’infinito.

[3] Sulla composizione di questo equilibrio tra Kylo Ren e Ray, il film è costruito meticolosamente.

[4] A. Franzoni, «Star Wars VIII: Gli ultimi Jedi». La rinuncia dei maestri, in SettimanaNews 24/12/2017.

[5] Citazione testuale dello scambio tra Yoda e Luke.

[6] La vocazione di Luke era stata espressa nella celeberrima scena dei due soli su Tatooine (Episodio IV) e ora fa inclusione con la fine della sua vita, in modo eccellente e tutt’altro che improvvisato.

 

Testo scritto per Settimana News il 31 dicembre 2017




Simeone, Anna e una famiglia

Nell’ultimo giorno dell’anno, la liturgia ci propone due figure suggestive: Simeone, per il quale si compì la promessa di non morire senza vedere il Messia, e Anna, profetessa simbolo di un’attesa lunga e paziente.

Simeone è una figura eccezionale: in tutta la lunghissima storia dell’attesa messianica, lui ebbe l’intuizione che quello fosse il tempo giusto… e fu guidato da questo ascolto interiore al grande appuntamento.

Anche Anna spicca per la sua singolarità: non esistevano profetesse al tempo di Gesù. Tantomeno sappiamo di figure femminili rilevanti al Tempio. Invece Anna, con una vita passata nell’autenticità, doveva essersi conquistata un’enorme autorevolezza, riconosciuta da tutti.

A conclusione di questo anno, ci chiediamo: ho saputo cogliere gli appuntamenti di Dio? La mia vita è stata autentica? Ho meritato autorevolezza nei compiti e nelle responsabilità che mi sono stati affidati?

C’è soprattutto un tema importante riguardante le promesse e le speranze. Tutti confidiamo in una promessa: promessa di vita buona, in equilibrio, felice. Spesso, rispetto a questa promessa, che assume subito i tratti della speranza, ne va della nostra fede in Dio. Se le promesse non sono vane, se la nostra speranza non è frustrata, allora è più facile affidarsi, credere, fare esperienza di Lui.

Ma quando le promesse tardano e le nostre speranze si affaticano? Sappiamo che tutte le promesse di Dio vengono confermate in Gesù (cf. 1Cor), ma come si traduce questo, concretamente, nella nostra vita?

Ci accostiamo, quindi, alla fine del nuovo anno, pensierosi. Quali promesse attendiamo ancora? Quali speranze, ormai, sentiamo con il fiato corto? Come possiamo ascoltare la presenza di Gesù? Come possiamo scoprire che è in lui che possiamo vedere compiuta la Promessa?

Sicuramente siamo invitati a prendere molto sul serio un rapporto ancora più personale, ricercato e intimo con Gesù: la preghiera personale, l’ascolto e il dialogo con la sua Parola, l’amore fattivo per fratelli e sorelle in difficoltà.

Oggi la chiesa festeggia anche la famiglia di Gesù, chiamata la Santa Famiglia. Una famiglia “santa”, certo, ma tutt’altro che esente dai problemi e dalle difficoltà concrete delle nostre famiglie, perciò anche una famiglia che può dare l’esempio alle famiglie, soprattutto in due aspetti.

Il primo: non è stata una famiglia alla quale tutto è andato come pianificato. Le sorprese, che hanno colto Maria e Giuseppe ben più che impreparati, non sono affatto mancate. Anche a loro è accaduto che dopo avere difeso il loro bimbo in ogni modo, è bastata una distrazione per smarrire Gesù diventato ragazzo. Anche a loro sarà toccato affrontare disparità di ruoli e voci maligne. Anche loro hanno dovuto affrontare lo smarrimento di fronte al destino di un figlio impossibile da decifrare. Le cose che mettono le famiglie, soprattutto quelle giovani, di fronte alla propria inadeguatezza, non sono mancate neanche alla famiglia di Gesù, quindi coraggio! Non è segno di stranezza, ma solo di vita reale.

Secondo: da quanto ne sappiamo, la famiglia di Gesù è stato il bacino dove egli stesso ha appreso la sua umanità bellissima e aperta. Da ciò raccogliamo un invito alle famiglie a non chiudersi nelle loro dimensioni, a non dimenticarsi di chi la famiglia non ce l’ha o ce l’ha – come si dice – un po’ scalcagnata. Di non dimenticarsi delle persone sole, delle donne che vorrebbero un figlio e per mille ragioni non lo possono avere; o di quelli per cui la famiglia è solo un ricordo pieno di dolore e di difficoltà. Credo che le famiglie cristiane, che si compiacciono di festeggiare la Famiglia di Gesù e di ritrovarcisi, debbano e possono essere famiglie aperte e attente, che sanno riconoscere quando è il momento di non parlare solo di pannolini, di bimbi o di problemi di figli adolescenti… ma che sanno intercettare il mondo più complesso e arricchirlo e impreziosirlo con la testimonianza di un amore tenero, sincero e bello.

Don Davide




Natale: il giorno della grazia

Cos’hanno a che fare un venditore di teste di pollo e un venditore di trippa con la Natività, splendente sotto una corona di gloria?

E un povero calzolaio che vende scarpe spaiate, un vasaio, un mercante di sedie?

Gesù viene in un’umanità concretissima, rappresentata nel modo più essenziale possibile in un contesto volutamente spoglio di qualsiasi ambientazione, per enfatizzare questo segno: Gesù in mezzo all’esistenza operosa delle persone.

C’è una bellezza inesprimibile in questa scelta di Gesù, che non attira a sé i capi e i nobili del tempo, i sacerdoti o i soldati romani, ma il un popolo normale, ordinario. Questo ha permesso, nei secoli, di rappresentare il presepe in ogni modo e che ciascuno potesse sentire raccontata e accolta la propria storia in quella scena magica.

Gesù bambino non disdegna nemmeno quella parte della nostra umanità più meschina e ingannatrice, quella che tira a campare come meglio può. Nel nostro presepe, infatti, c’è anche un venditore fraudolento. Lo riconoscete? Gesù non vuole che si producano scarti; dunque, che tutti si avvicinino a lui! Che nessuno rimanga indietro, perché quale errore mai potrebbe essere guarito, se non davanti all’innocenza di Gesù bambino? Quale orgoglio si potrebbe sanare, se non di fronte all’umiltà della mangiatoia? Come potremmo sentirci accolti, giustificati, riscattati e in pace, se non in ginocchio davanti al presepe? Che si possa comprare senza spesa ogni bene prezioso, perché oggi è il giorno della grazia!

A ben vedere, però, leggendo “tra le statuine”, possiamo scoprire che il nostro presepe, in realtà, non è senza contesto. Annibale Carracci raccolse nella seconda metà del ‘500 in un’opera dal titolo: Le arti di Bologna, i disegni di un centinaio di mestieri di strada. L’opera andò quasi completamente perduta, ma è conosciuta grazie alle incisioni di Giuseppe Maria Mitelli, che un secolo dopo ricodificò questi mestieri, che hanno ispirato la creazione di queste statue.

C’è un filo rosso che ci rimanda alla storia della nostra città di Bologna e alle opere più importanti della nostra chiesa.

Guardando il presepe, quindi, in un momento di silenzio interiore, noi possiamo ascoltare il racconto dell’esistenza degli uomini e delle donne che ci hanno portato fino a qui, ad essere quelli che siamo, e sentire le loro voci che ci istruiscono ancora. La nostra parrocchia ha secoli di storia e noi ne siamo grati.

Desideriamo continuare questo percorso con la testimonianza della nostra fede e immergendoci nell’esistenza concreta di chi vive, lavora e spera nella nostra città. Vogliamo immaginarci come di camminare in mezzo al presepe e di comprare un cesto da mettere in chiesa per la raccolta alimentare, la verdura per il pinzimonio nel pranzo di Natale e l’uva, magari, per l’ultimo dell’anno. Ad ognuno rivolgere una parola. Con ciascuno un gesto di amicizia.

Sono le nostre strade e noi le abitiamo.

Sono le storie che ci hanno fatto; cerchiamo di restituire quanto abbiamo ricevuto.

Don Davide




Natale: gli inizi

“E così, sei tu!” pensa Maria, sognante, mentre avvolge di panni Gesù. Come ogni mamma finalmente si gode il momento in cui conosce suo figlio. Dopo averlo sentito e portato dentro per tanti mesi, ora lo vede, lo tocca. Non fosse per quell’aura luminosa, non ha davvero i segni di un infante diverso da tutti gli altri.

E anche Giuseppe lo osserva. Lo scruta, diremmo quasi. Inizialmente incredulo, poi rassicurato in sogno, aveva visto crescere la pancia di sua moglie. Eppure, come tutti i papà, aveva fatto fatica a rendersi conto davvero di avere un bambino. Ed eccolo lì. Vero, in carne e ossa. “Nostro figlio”, pensa.

Qualcosa di nuovo inizia per questa famiglia. I gesti di accudimento, l’apprendistato dei genitori, i primi passi nell’educazione, che incomincia dall’amore. E una trasformazione di vita radicale: il tempo speso, praticamente tutto, per un altro.

In questo gesto di sradicamento da loro stessi, Dio plasma un’alleanza ancora più amorosa di quella precedente, una storia della salvezza ancora inedita. Maria e Giuseppe, senza che se ne rendano conto, vengono trasformati. La loro trasfigurazione è già iniziata, ma sotto il cielo di Betlemme tutto viene ricreato, come un presepe che si fa nuovo ogni anno.

Anche per le persone coinvolte in questo evento, inizia qualcosa di nuovo. Prima di tutto lo stupore, la meraviglia che muove passi lenti e incerti, ma senza deviazioni, verso l’umanità di Gesù. Poi, forse, il senso di essere benedetti, di essere resi parte di qualcosa di inaspettato, una pace che scende nel cuore e va a riconciliare i nostri errori, a guarire le nostre ferite e i sensi di colpa. Infine, una promessa di pace per il mondo, che in quel cielo e in quella terra sembra tutto rappresentato.

Gesù mi invita, a compiere questo viaggio interiore verso lo stupore e la meraviglia. Guarda quello che accade, cogli i segni, i gesti di amore, la gratuità, i sorrisi delle persone! Esci da stesso, molto concretamente: spendi il tuo tempo per gli altri e l’Altro, non risparmiarti e non fare calcoli. Lascia perdere i tuoi sensi di colpa e il pensiero di non potere essere degno di quell’appuntamento e di quell’incontro! Non tutto è già fatto, ma Gesù inizia con te e insieme a te qualcosa di nuovo. La trasformazione del tuo cuore è in atto. Stai dando la tua vita e nemmeno te ne accorgi, mentre il Signore raccoglie ogni goccia di questo tuo dono.

Neanche vedi dove cadono le grazie che il Signore ricava da te, ma accade! Il cuore di quella tua amica è stato confortato; quel papà si è messo in gioco; quella ragazza ha incominciato a pregare; un giovane si educa alla pace.

La sorpresa ci coglie impreparati. Abbiamo desiderato tanto conoscerti, Gesù, vederti, toccarti, sapere che sei vero. Improvvisamente ti palesi a noi in ogni modo.

Così sei tu, Gesù: il tempo in cui, senza che ce ne accorgiamo, iniziano le cose buone che sono nel mondo e la nostra trasformazione.

Don Davide