Dedizione

A ridosso della conclusione dell’anno liturgico, quando le cose si ricapitolano e si fanno dei bilanci “spirituali” le letture della messa ci propongono la scena dell’obolo della vedova. È un momento in cui anche Gesù fa una sorta di “bilancio”: sa che sta per andare incontro alla sua passione, vede una scena commovente che ai suoi occhi si carica di un significato gigante e dice: “Ecco! Questa immagine ricapitola tutto il Vangelo! È una sintesi perfetta di tutto ciò che volevo dire e insegnare!”.
Sono, dunque, parole importanti quelle di Gesù. Sono parole pesanti che appaiono rassicuranti, ma non lo sono affatto: sono piuttosto taglienti e severe. Hanno il tenore di un monito. Sono molto vicine a una requisitoria.
Esse sono strutturate su due termini: “Guardatevi!” e “superfluo”.

Il monito a guardarsi dagli scribi e da quello fanno, cioè a stare ben lontani dal loro modo di fare (rileggersi come e cosa fanno gli scribi e meditarlo!) è un atto d’accusa senza sfumature. La vedova al tempo di Gesù non è solo una figura che suscita commozione; è il gradino più basso della scala sociale, insieme agli esclusi come i lebbrosi. Sia nei profeti dell’Antico Testamento che negli Atti degli Apostoli il rispetto e la cura delle vedove è il punto su cui sta o cade la qualità religiosa della vita di un credente e della sua comunità.
Degli scribi, Gesù dice che divorano le case delle vedove, e pregano davanti a tutti per farsi ammirare! Divorano i poveri e pregano per ostentare! Divorano e pregano: non si potrebbe immaginare un connubio più abietto!
Gli scribi siamo tutti noi quando ci interessa farci vedere, ma non siamo realmente interessati al bene delle persone. Gli scribi sono tutti quelli che fanno così.

E poi ci sono i “superflui”. Sì, avete capito bene. “Superfluo” è una parola durissima di Gesù: mettono quello che non serve a niente. Potrebbero averlo sprecato al gioco, messo in un investimento perso, oppure persino bruciato: a loro non cambierebbe niente. Non cambierebbe il loro tenore di vita, le loro preoccupazioni, perciò non cambia niente nemmeno a riguardo della loro solidarietà, del loro impegno. Mettono quello che è superfluo, quello che non serve a niente. Pensano che almeno, nel tesoro del tempio, servirà a qualcosa, ma Gesù dice di no. A nessuno servirà se per una volta qualche vedova mangerà un panino con quei loro soldi: non cambierà la storia del mondo, né la condizione di quella vedova. A Dio serve solo che cambi il loro cuore… e il mio, il nostro. La cosa terribile è che questo atteggiamento di non cambiare il proprio cuore, e quindi di non cambiare il mondo, rende superflui noi stessi. Se non ci convertiamo… siamo superflui. Non serviamo all’unica cosa che Dio vuole per la sua creazione: che ci vogliamo bene, che allarghiamo gli spazi della giustizia e della pace.

Il Vangelo, dice Gesù, è tutto ciò che si distanzia da questi due modi di vivere l’esperienza religiosa, e tutto ciò che invece, raccoglie la propria vita in un clamoroso, ancorché piccolissimo, gesto di dedizione.

Don Davide




Amare Dio e amare il prossimo

Nella Chiesa di oggi abbiamo un problema serio, che è quello del coinvolgimento, inutile nasconderselo. Non ci consola, nemmeno in parte, sapere che è un problema diffuso: la partecipazione e il senso di appartenenza sono calanti in quasi tutte le associazioni ed aggregazioni sociali.

Coinvolgimento dei giovani

È difficilissimo coinvolgere le famiglie, gli adulti, i genitori del catechismo nella vita ecclesiale. I pensionati, che una volta erano una risorsa sicura, oggi per lo più sono impegnati con i nipotini o a sostenere la parte della famiglia più giovane. Il volontariato è sempre più faticoso, perché sempre meno è il tempo disponibile. I giovani sono semplicemente imprendibili: si sa che da qualche parte ci sono, anche numerosi, ma nessuno saprebbe dire esattamente dove.

Avevo questi pensieri quando abbiamo preparato e vissuto la raccolta per i libri e il materiale scolastico per le persone in difficoltà. Sono stati raccolti 2403 €, il quadruplo della ordinaria raccolta domenicale.

Sono veramente edificato da questa generosità, che in questa occasione ha visto coinvolti tutti: anche le persone che per qualche motivo non potevano venire a messa, hanno voluto portare un’offerta in parrocchia lo stesso.

Questo bel risultato è l’evidenza che ci sono tante persone sensibili e generose e che spesso viene più immediato fissare lo sguardo solo sui problemi. Invece voglio riconoscere questo gesto di partecipazione collettiva, come segno di adesione a un progetto e a uno stile della comunità cristiana che dà speranza. Mi pare di potere interpretare questa esperienza come l’indicatore che c’è una solidarietà con la missione della parrocchia, e che anche se personalmente tante volte non si riesce a contribuire, non manca però l’amicizia, la stima e il sostegno.

Desidero ringraziarvi, anche a nome della Caritas, della San Vincenzo e di tutte le famiglie, i bimbi e i ragazzi che beneficeranno della vostra generosità.

A questo proposito ricordo che la Caritas e la San Vincenzo parrocchiale si sono impegnate anche in un’altra attività di raccolta fondi a sostegno delle situazioni di bisogno, con un’iniziativa e uno stand alla Fiera del Mondo Creativo il 23-24-25 novembre. Chi vuole aiutare, o con il proprio tempo o facendo una visita, lo può fare. Anche alla determinazione indefessa dei nostri volontari, che tengono davanti agli occhi e al cuore, sempre a nome di tutti noi, la vita dei poveri, va il nostro ringraziamento, sentito e commosso.

Don Davide




Nella fede del Signore risorto

La Commemorazione dei fedeli defunti,
per riscoprire il significato della migliore tradizione cristiana.

La Festa di tutti i Santi e la Commemorazione dei fedeli defunti ci offre l’opportunità di una riflessione sulla morte, non ottenebrata dalla paura. Ci sono due considerazioni da fare, sul modo in cui si affronta la morte oggi, al fine di rendere il congedo dai defunti sempre dignitoso.

Ultimamente si sta registrando una tendenza a evitare la celebrazione del funerale e a velocizzare la sepoltura, quasi come se la morte fosse una pratica fastidiosa (e scandalosa) da rimuovere nel più breve tempo possibile. Molti (anche con la complicità di alcune onoranze funebri poco professionali) scelgono di fare una veloce benedizione nella cappella dell’ospedale e poi portare i defunti al cimitero o per la cremazione. In tali circostanze pochissimi, anche nel caso che la persona defunta sia stata un’assidua parrocchiana, avvisano il parroco del decesso.
Invece non bisognerebbe mai trascurare di celebrare l’ultimo saluto come si deve. È, appunto, un saluto. Chi mai andrebbe via senza salutare un amico? E chi partirebbe per un lungo e importante viaggio senza un momento di congedo? Celebrare il funerale come si deve significa congedarsi in maniera dignitosa da una persona cara: è una forma indispensabile di attenzione per il defunto, ma serve soprattutto a chi rimane, per cominciare a risolvere un’assenza. Una dipartita non elaborata e risolta lascia strascichi emozionali devastanti, che troppi sottovalutano e di cui pochissimi sono avveduti.
Spesso c’è in gioco anche il rispetto della volontà dei defunti, che dovrebbe essere considerata una cosa sacra e inviolabile. È capitato di persone religiosissime in vita, a cui i familiari hanno negato una celebrazione consona e degna. Invece, per chi ha vissuto una vita di fede, il funerale religioso è il momento in cui si affida il defunto al Signore Risorto, è il compimento del lungo itinerario iniziato con il Battesimo, in cui siamo stati legati indissolubilmente alla potenza di vita della resurrezione di Gesù. Privare i defunti di questo passaggio è come creare un inciampo al termine di un percorso, è nel vero senso della parola uno “scandalo” (secondo il significato etimologico di: inciampo, sgambetto). Significa impedire una meta, un traguardo. Significa disonorare coloro che, in quel momento, dovremmo amare e rispettare di più.

Commemorazione dei fedeli defuntiLa seconda tendenza che si sta verificando è l’abitudine di disperdere le ceneri dopo la cremazione o di conservarle in casa. La cremazione è ammessa dalla Chiesa come la sepoltura tradizionale, perché nell’uno e nell’altro caso il Signore Risorto darà vita ai nostri corpi dalla polvere. La Chiesa, però, non riconosce come cristiana la pratica di disperdere le ceneri, e il fatto di tenere l’urna cineraria in casa è proibito dalla Legge italiana.
Al di là delle regole, comunque, il punto decisivo è di avere un luogo per la memoria del corpo. La tradizione ebraico-cristiana, ininterrottamente da Abramo fino ad oggi e senza soluzione di continuità, riconosce il valore di avere il luogo della sepoltura. Abramo comincia a entrare in possesso della Terra Promessa acquistando il sepolcro per la moglie Sara.
Non è bene trascurare le esigenze della nostra umanità: noi abbiamo bisogno di luoghi, di gesti e di segni concreti per dare significato all’esistenza. Chi di noi non conserva la foto di una persona amata defunta? Come si potrebbe vivere senza avere un posto dove portare un fiore, o senza potere baciare un memoriale? Certo, non è tutto: molti ricordano i defunti con la celebrazione della messa o dando rilievo ai giorni importanti della loro vita passata, ma potere avere un luogo fisico, simbolo di un appuntamento dove “incontrare” quelle persone, ha sempre fatto parte della fede cristiana.

Di fronte alla morte la fede cristiana esprime la sua qualità più vera. Che la memoria dei defunti sia allora un’occasione per riscoprire questi gesti, traduzione concreta della fede nella resurrezione. Come diciamo tutte le domeniche nel Credo, noi crediamo la resurrezione dei morti e lo esprimiamo attraverso segni coerenti.




La speranza della vita

La Commemorazione dei fedeli defunti è un giorno pieno di affetto e di nostalgia. Il ricordo delle persone care in alcuni casi è un pensiero sereno e grato, per una vita lunga e compiuta che ci ha lasciato tanto bene; in altri casi può essere una ferita aperta, un sentimento molto doloroso, per un addio precoce, per una sofferenza che ci ha scavato e per un lutto che non si riesce a superare.

La Chiesa celebra questa giornata subito dopo la Festa di tutti i Santi, proprio per inondare di speranza questo periodo commosso e mesto nella luce della resurrezione. Non celebriamo i morti, ma coloro che abbiamo amato con la fiducia che siano vivi insieme a Gesù e al Padre di tutti.

Qualcuno storce il naso sentendo parlare di commemorazione dei fedeli defunti: come – sembra dire – solo i fedeli, i credenti? Non ricordiamo tutti i defunti? E quelle povere persone che piangono la morte di qualcuno non credente? Per loro non ci sarebbe consolazione?! Ovviamente non è così. La dicitura “fedeli defunti” sta a indicare, come già accennato, che questo ricordo è nel contesto di una speranza e che la Chiesa vorrebbe sostenere tutti, amichevolmente e senza alcun atteggiamento di sfida, di giudizio o di rivalsa. La Chiesa universalizza il suo messaggio, condivide questo sguardo verso la vita eterna come un patrimonio comune, in modo che tutti possano celebrare una memoria consolata e che non faccia più male.

In quel giorno tutti commemorano i propri cari, tutti vanno al cimitero a portare un fiore, o dicono una preghiera o fanno un ricordo affettuoso, sia chi crede che chi non crede. In questa processione di tutti gli esseri umani sensibili, la Chiesa tiene accesa una luce, anche per chi fa più fatica a vederla.

Don Davide




Poltrone e mandato

Ricchezza e potere: un binomio micidiale per il Vangelo. Domenica scorsa Gesù aveva parlato della ricchezza, in questa tratta del potere: in entrambi i casi per esprimere un giudizio molto severo.

C’è un’esperienza “mondana” che Gesù addita senza mezze misure: chi è chiamato al governo e i capi finiscono nelle spire del potere, diventano dominatori e oppressori. Se si pensa alla situazione di alcuni paesi del mondo e alla tentazione costante di qualunque ruolo “di potere” si riconosce quanto queste parole di Gesù siano attuali e senza sfumature.

Ma questo pericolo può avvelenare anche la Chiesa, che rischia di diventare “mondana” ogni volta che il potere si afferma di più della disponibilità a dare se stessi «in sacrificio di riparazione» (Is 53,10).

Mi viene in mente questa scena, per spiegarmi. Un gruppo di ragazzini in cortile organizza le squadre per giocare a calcetto. Il più bravo dice a quello più brocco: “Tu vai in porta!”, ma si sa che nessuno vuole mai stare in porta. Così il brocco rifiuta e cominciano a litigare. “Vacci tu, chi ti credi di essere?!” dice il brocco dopo alcuni scambi poco garbati. A questo punto, quello della squadra che è bravo, ma non il più bravo, dice: “Vabbé dai, ci vado io…”. Sa di rinunciare a divertirsi e a fare goal… ma ci vuole qualcuno che sistemi la situazione. Questo significa “sacrificio di riparazione”.

Fin da piccoli, quindi, ci accorgiamo quanto ci costi rinunciare al potere. Invece, tutta la vita spirituale cristiana potrebbe essere descritta come un itinerario di liberazione da ogni volontà di potenza. Che non c’entra niente con l’ambizione o il sognare in grande. Il potere è qualcosa che, nei posti che occupiamo, anche i più piccoli, usurpa qualcosa agli altri. “Io voglio essere alla destra di Gesù – pensano Giacomo e Giovanni – e peggio per gli altri!”.

Se io vinco una partita, quello non è potere, perché l’ho conquistata, me la sono meritata; ma se rubo, inganno o non sono corretto, questo è potere. Se io vinco un concorso per avere un posto di lavoro importante, quello non è potere; ma se io cerco una raccomandazione o una via preferenziale, questo è potere. Se in chiesa io curo i fiori dell’altare, pensando di farlo con grande spirito di servizio, ma una volta che qualcuno mi vuole dare una mano o un suggerimento lo mando via in malo modo, questo è potere.

Da questo ci dobbiamo spogliare.

Oggi la nostra comunità parrocchiale conferisce il “Mandato” a tutti i catechisti, gli educatori e i responsabili delle attività. È un riconoscimento ufficiale del servizio che, come parrocchia, chiediamo loro a nome di tutti, e che orienta la vocazione di ciascuno alla santità.

Questa chiamata al servizio scaturisce direttamente dal Battesimo: è un potere che non ci deve conferire nessuno, se non Gesù stesso che ci chiama ad essere attivi costruttori della sua casa. La comunità – la Chiesa – opera un discernimento di questa disponibilità e la riconosce, con gratitudine.

Proprio per questo motivo, ogni incarico assunto nella Chiesa dev’essere completamente libero da ogni gusto del potere. Gesù lo dice con una semplicità così disarmante che siamo sempre portati a travisarla: «Chi vuole essere il primo, serva, non per modo di dire, ma come gli schiavi» (Mc 10,44).

A chi riceve il “Mandato”, quindi, facciamo gli auguri con le parole della seconda lettura: che sappiate prendere parte alle debolezze soprattutto dei più fragili, dei meno coinvolti e dei meno simpatici, e che possiate avere il cuore benevolo come Dio Padre, ed essere graziosi e gentili verso tutti (cf. Eb 4,15.16). E così dicendo, vi ringraziamo anche del vostro servizio.

Don Davide




Aghi e cammelli

La prima lettura e il vangelo ci permettono di fare una riflessione schietta sull’utilizzo del denaro e su alcuni appuntamenti che riguardano la nostra parrocchia in questo mese di ottobre.

Oggi riprendiamo la raccolta della 2° domenica del mese, interamente destinata al finanziamento dei lavori di ristrutturazione della parrocchia. È inutile mascherarsi dietro a un dito: c’è bisogno di soldi e di un contributo ancora più generoso da parte di tutti, perché le spese di manutenzione delle strutture che abbiamo, anche per renderle funzionali e sicure per le attività, sono sempre altissime. Abbiamo avuto tanti lavori che sono quasi finiti: ora è il tempo di pagare le fatture, quindi il momento più delicato.

Allo stesso tempo, però, non vogliamo farci abbagliare dal miraggio delle ricchezze e dagli inganni del denaro. Perciò, in occasione della Giornata nazionale delle persone down, oggi accogliamo volentieri anche l’Associazione Futura onlus – alla quale siamo particolarmente legati per la presenza di alcuni membri della nostra comunità – per una presenza di sensibilizzazione e di autofinanziamento. L’Associazione Futura venderà delle violette fuori dalla chiesa per raccogliere fondi per sostenere le attività volte alla crescente indipendenza delle persone down.

Lo abbiamo segnalato domenica scorsa e lo ricordiamo di nuovo oggi stesso, in modo che ciascuno sia libero di gestirsi, di scegliere come destinare le proprie offerte, senza gravare eccessivamente sulle finanze personali e famigliari e con il massimo rispetto delle scelte di ciascuno.

Le esigenze sono sempre tante e si accumulano, ma questo ci porta a ricordare un’altra frase di Gesù sul buon uso del denaro: “Fatevi amici con la disonesta ricchezza… perché essi vi accolgano nelle dimore eterne” (Lc 16,9). Bisogna essere realisti: che siano i muri o esigenze di inclusione e uguaglianza, in ogni caso siamo purtroppo legati al bisogno di soldi. Però c’è un modo di uscire da questa morsa malsana, facendoci degli “amici” che – dice Gesù – “ci aprano le porte del Paradiso”. È ormai sotto gli occhi di tutti, infatti, che le ricchezze non mancano, solo che sono distribuite male. Se invece fossero condivise meglio e messe in circolo per cose più buone, forse – a dispetto di aghi e cammelli – persino il denaro potrebbe essere redento!

Per questo stesso motivo, sollecitati dall’amore per la sapienza nella prima lettura, abbiamo deciso di ripetere la raccolta per l’acquisto dei libri scolastici e per sostenere gli studi dei bambini che altrimenti avrebbero difficoltà. Sabato 27 sera e domenica 28 ottobre tutta la raccolta delle messe verrà devoluta alla Caritas e alla San Vincenzo per questo scopo.

Rinunciare a tutte le offerte di una domenica – normalmente utilizzate per far fronte alle spese ordinarie (bollette, attività e pagamenti) – è un sacrificio enorme per il bilancio di una parrocchia. Lo studio, però, è una cosa troppo importante e vogliamo porre un segno forte di questo “riscatto del mondo” che passa – come diceva la ragazzina pakistana di nome Malala – attraverso un libro, un quaderno e un’insegnante.

Che sia anche un segno del nostro pensiero per tutti quei bimbi del mondo che non hanno questa possibilità, perché sfruttati, maltrattati o in altre condizioni sfortunate. Che il nostro impegno possa raggiungere idealmente tutti e aiutarci a considerare la scuola, lo studio e l’educazione tra i beni più preziosi che possiamo custodire.

Anche in questo caso, abbiamo scelto di comunicarlo con largo anticipo, in modo che ciascuno possa “farsi i conti in tasca”, non sentirsi oberato, ma aiutato ad allargare il cuore, con saggezza e prudenza e serenamente, perché chi dona possa farlo con gioia.

Don Davide




I bimbi e i giovani

«Gli presentavano dei bambini perché li toccasse, ma i discepoli li rimproverarono. Gesù, al vedere questo, s’indignò» (Mc 10,10). Questa breve citazione del Vangelo ci ricorda che al di là del politicamente corretto, accogliere i bambini non è facile. Tanto meno lo era al tempo di Gesù. La formula è fortissima: Gesù si indignò dell’atteggiamento dei discepoli. 

Questa settimana ricominciamo il catechismo: speriamo non solo che Gesù non si indigni, ma che anzi sia orgoglioso di noi. I bimbi sono allegri e adorabili per tanti aspetti, ma al catechismo sono anche tanti, chiassosi, a volte stanchi. Noi ci proponiamo di fare in modo che il tocco di Gesù raggiunga comunque tutti, che nessuno sia impedito di andare da lui. 

Chiedo, in questo, l’alleanza di tutta la comunità, la complicità delle famiglie, la stima, l’amicizia e la vicinanza per tutti i catechisti, la preghiera di tutti. Sappiate che c’è molto bisogno, perché da noi si verifica questo strano fenomeno: i bimbi aumentano e i catechisti diminuiscono! 

 Domenica scorsa è iniziato anche il cosiddetto Sinodo dei Giovani a Roma, in Vaticano. Anche il nostro vescovo Matteo è stato chiamato dal papa a partecipare. 

Le letture di oggi ci propongono un modello di uomo e di donna che, paradossalmente non è ancora stato raggiunto. Prima ancora di pensare alla dimensione coniugale, infatti, questi testi ci parlano di uomo e donna come costitutivi dell’essere umano. Pienamente uguali nello statuto esistenziale e nei diritti, diversi nella ricchezza della varietà, talvolta complementari. 

Vorrei augurare a tutte le giovani e i giovani, perciò, di diventare donne complete e uomini integri. Se penso a un sogno per ciascun giovane è che oggi si goda la sua giovinezza, in tutte le cose positive che esprime e con tutti i valori che rappresenta, ma che poi sappia essere pienamente donna o uomo adulto. 

E che abbia qualcuno che faccia strada senza sbarrarla, qualcuno che possa essere di esempio senza invidia o volontà di potenza. 

 

Signore Gesù, 

che hai voluto i piccoli con te, 

hai amato i giovani fissando su di loro il tuo sguardo 

e hai riconosciuto le donne; 

per questa preghiera, 

effondi lo Spirito Santo 

sui bimbi, sui giovani e le giovani, 

perché possano fare splendere il mondo 

del tuo amore, 

con la loro umanità. 

Concedi ad ogni adulto 

di stimare i giovani, 

di seguirli, accompagnarli, stare loro affianco 

senza ingombrare lo spazio, 

e di essere così testimoni trasparenti 

della libertà che Dio Padre 

ha voluto per loro. 

Amen. 

 

Don Davide




La Chiesa: “noi” di Ebrei e Gentili

Nella lettera di Benedetto XVI al Gran Rabbino di Vienna Arie Folger riguardo all’intervento dello stesso Benedetto XVI su Communio (4/2018) dal titolo «Grazia e vocazione senza pentimento», il papa emerito fa riferimento a una possibilità di interpretazione di teologia della storia che favorirebbe il dialogo ebraico-cristiano.

La nota è interessante, perché è proprio una certa teologia della storia che ha caratterizzato i rapporti tra ebrei e cristiani per quasi due millenni nello schema della teologia della sostituzione; ed è ancora una teologia della storia che permetterà forse di trovare un posizionamento adeguato della Chiesa e di Israele all’interno del dialogo, sviluppando una teologia coerente con il rifiuto di quella della sostituzione.

Il tempo, la Chiesa, Israele

Egli inquadra il tema all’interno del problema del «già e non ancora», che viene a descrivere come il «tempo della Chiesa». L’utilizzo di questa espressione è ambivalente: per Benedetto XVI sembra essere sia il tempo storico-cronologico seguito alla resurrezione di Gesù, sia l’esperienza soggettiva della Chiesa, si potrebbe forse dire: «il tempo che è la Chiesa». A questo si riferisce l’autore quando scrive: «Il tempo della Chiesa è per i cristiani ciò che per Israele furono i quarant’anni nel deserto. Il suo contenuto essenziale è pertanto l’esercizio di apprendimento della libertà dei figli di Dio, che non è meno difficile per i “popoli” di quanto lo sia stato per Israele».

Questa lettura è suggestiva dal punto di vista spirituale, ma debole nel fondamento teologico. Paolo parla piuttosto di una libertà in atto, una libertà costitutiva che non va appresa, se non nel senso che la libertà si apprende in quanto si esercita. Nel culmine della polemica di Galati scrive: «Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi, non lasciatevi dunque imporre di nuovo il giogo della schiavitù» (Gal 5,1). È molto interessante per il nostro successivo discorso che Paolo usi il pronome «noi-ci», mettendosi all’interno, come ebreo, di quell’esperienza dell’essere in Cristo che ha reso possibile il «noi» di ebrei e gentili che è la Chiesa.

Papa Benedetto XVI invece parla dei «popoli» e lo fa, del tutto consapevolmente, in riferimento alla Chiesa: «Se si accoglie questa nuova visione del tempo dei popoli, viene offerta una teologia della storia che gli ebrei possono non accettare in quanto tale, ma che forse può offrire un nuovo livello nella comune lotta per il nostro impegno comune».

Teologia della storia

Anche se la Chiesa all’atto pratico e per molti secoli è risultata essere costituita quasi interamente dai popoli, cioè dai «Gentili», è indispensabile non dimenticarsi della sua originaria costituzione da Ebrei e Gentili, poiché questo è il modo in cui il Nuovo Testamento fonda una teologia della storia che riguardi la Chiesa ed è anche l’unico ingresso al problema se non si vuole incorrere in pericolosi vicoli ciechi.

Il tema della teologia della storia, in rapporto a Israele e la Chiesa, è trattato in maniera compiuta in Efesini attraverso la categoria di mysterion – tipico, nel suo uso teologico forte, di questa lettera e di Colossesi – che indica non solo lo svelamento della partecipazione dei Gentili all’adorazione del Dio di Israele, e neppure solo la chiarificazione di come ciò avvenga in Cristo, generando una comunione affatto nuova che costituisce la Chiesa.

La distinzione di Ebrei e Gentili è una realtà teologica, rivelata dall’elezione di Israele, ed è l’asse onnicomprensivo su cui si muove la storia della salvezza e le conseguenti forme dell’attesa messianica. Il fatto dunque che venga meno questa divisione, mantenendo in una realtà nuova le precedenti identità, non significa solo che è superata una distinzione tra le tante, come se i tifosi di Real Madrid e Barcellona decidessero di tifare insieme per una terza squadra; ma che è in atto la fine di tutte le divisioni. Ossia, che la comunione in cui Dio ha da sempre voluto coinvolgere tutto il genere umano attraverso la storia dell’Alleanza e dell’Elezione – e che sembrava impossibile! – è finalmente incominciata, che la riconciliazione del mondo è entrata nella storia e che la Pace, esito di tutte le attese messianiche, è vera.

La comunità messianica

Il mysterion annunciato è tale, quindi, in quanto svelato ora, nel tempo della Chiesa (Ef 3,5). La sua condizione essenziale è di esprimere che la realtà escatologica ha fatto irruzione nella storia. La valenza apocalittica con cui il mysterion costituisce la Chiesa è di marcare questa differenza: essa o è nel presente e nella storia degli uomini in assoluto la comunità messianica, o non è.

L’unità nelle differenze che la Chiesa racconta, non è – e non potrebbe essere – solo la comunione dei Gentili che imparano la libertà come già Israele ha fatto; quell’unità è espressa solo se si tiene conto della sua costituzione originaria da Ebrei e Gentili, che fa appunto cadere ogni altra divisione.

Il mysterion svelato da Dio e interpretato da Paolo è un sinonimo della Chiesa. Intuizione che già il Concilio Vaticano II aveva avuto nelle due famose espressioni della LG: segno e strumento dell’unità di tutto il genere umano (LG 1) e sacramento dell’unità di tutto il genere umano (LG 9).

La Chiesa quindi è nel tempo l’anticipazione di una comunione definitiva di tutti gli esseri umani. Il ruolo della Chiesa è questo: non è che apprenda la libertà, come se fosse una cosa che potrebbe non acquisire. Molto di più, ha il dovere di testimoniare questa libertà: ad esempio la libertà di non avere nemici; la libertà di non avere confini; la libertà di non avere una caratterizzazione identitaria, tantomeno nazionale o peggio nazionalista; da ultimo, la libertà di riconoscere il posto di tutti quegli Ebrei e Gentili che non sono in Cristo, poiché la storia palesemente non è finita e compito esclusivo della Chiesa è di essere quel segno reale della fine della storia, in mezzo a tutti coloro che mandano ancora avanti la storia.

Coloro che non sono in Cristo

La presenza di Israele e dei Gentili che non sono in Cristo è infatti caratterizzata da identità, da confini, da conflitti, da diverse credenze religiose e diversissime culture, finché non ci sia lo svelamento pieno, alla fine dei tempi, della comunione operata nel Messia, attraverso di lui.

Come scrive in modo emblematico e suggestivo Jacob Neusner: «Il racconto che Gesù faceva del regno di Dio attirava i miei occhi verso l’alto, verso il cielo. Ma io vivevo, e vivo tuttora, in questo luogo e in questo momento, dove i buoi danno cornate e le famiglie litigano. Il regno dei cieli potrebbe venire, forse non troppo presto, ma finché è sopra di me, la Torah mi insegna che cosa significa vivere qui e ora nel regno di Dio» (Un rabbino parla con Gesù, San Paolo 2007, 187-188).

La Chiesa, invece, ha il compito di essere una cosa completamente diversa. Se rinnega questo compito, tradisce se stessa e disconferma la sua testimonianza e persino la sua esistenza. Quella parte della Chiesa che proviene da Israele, è una porzione all’interno di Israele che non ambisce alla totalità, ma che sente nella voce del maestro Gesù una chiamata ad essere segno e strumento di quest’anticipazione del Regno, pienamente coerente con le aspettative di Israele: «Gesù non si rivolge all’Eterno Israele, ma ad un gruppo di discepoli» (Ivi, 58).

In questo senso la nota di Benedetto XVI è felice perché intuisce che il rapporto tra ebraismo e cristianesimo è legato alla teologia della storia, ma non coglie forse il punto cruciale che è il passaggio storico salvifico dell’inserimento in Cristo della distinzione originaria e permanente nella Chiesa di Ebrei e Gentili che possono vivere ora in comunione: non più, cioè, e in realtà mai solo una Chiesa «dei popoli».

 

Testo scritto per SettimanaNews del 6 ottobre 2018




Chi vuole seguirmi…

Carissimi amici e amiche,

molti di voi hanno già ripreso a pieno regime il ritmo del lavoro, ma l’inizio della scuola scandisce un vero e proprio ricominciamento, così come la tradizionale Tre Giorni del Clero bolognese stabilisce ufficialmente l’avvio di un nuovo anno pastorale.

Tutto ricomincia: le famiglie sono alleggerite nel vedere tornare a scuola i figli, allo stesso tempo riprende la frenesia degli sport e delle altre incombenze. La città si riempie, diventa impossibile trovare parcheggio, ci si dà appuntamento nei tradizionali luoghi di ritrovo, sapendo che non mancherà (quasi) nessuno; che sia lo stadio o la messa domenicale o il proprio locale preferito, si sa di avere di nuovo dei luoghi di “comunità”.

C’è qualcosa di rassicurante e bello nel riprendere i ritmi conosciuti e la scansione degli impegni e dei propri riti. Allo stesso tempo c’è anche un’inquietudine di fondo, per quell’ombra che si alza nel nostro spirito al ricordo dei momenti frenetici, delle fatiche e delle angustie provocate dalla vita quotidiana.

Guardiamo al tempo che ci sta davanti con i migliori propositi, ma anche con trepidazione.

In questa domenica, la liturgia ci offre un prezioso consiglio nell’invitarci ad aprire l’orecchio senza opporre resistenza e a stare dietro a Gesù, a metterci nella posizione della sequela con il desiderio di sentirci rassicurati dalla sua guida.

Abbiamo questa grande opportunità che nessuno ci può togliere: invece di lasciarci angustiare o intimorire, cogliamo l’occasione per discernere ciò che Gesù ci vuole comunicare in ogni circostanza. Lui ci vuole bene, vuole farci sentire custoditi e vuole che la nostra vita sia positiva e piena di senso. Proviamo a credere che in quello che ci capita c’è comunque Gesù che ci sta davanti e ci rassicura dicendo: “Anche se il sentiero è difficile, segui i miei passi e andrà tutto bene!” come farebbe un’abile guida alpina su un sentiero di alta montagna.

Agli studenti vorrei dire: il mondo del futuro si prepara a sfide che non possiamo neanche immaginare. Gli scenari mutano e si trasforma il modo della nostra conoscenza. Cambieranno le competenze richieste per abitare la complessità del mondo. In questo piccolo cosmo, sarà necessario essere lucidi e non perdere la tenerezza. Perciò, cari studenti, vi invito a cogliere il tempo della scuola come un tesoro per voi: pensate soprattutto a quello che potete imparare! Nulla è superfluo, arricchite il vostro tesoro interiore, imparate le associazioni e le connessioni, apprendete alla perfezione la parola scritta e orale, testimoniate la correttezza e il rispetto tra voi e coi professori. Gli uomini e le donne che guideranno il mondo con più giustizia e più compassione di quanta ce ne sia al presente, siete già voi oggi.

Alla nostra comunità parrocchiale dico che ci attendono molti grandi cambiamenti. Dovremo aprire il cuore all’amicizia e alla comunione tra le parrocchie. Dovremo avere stima di chi porta avanti un lavoro comune e incoraggiarlo, anche con il nostro appoggio. Dovremo liberarci dalle abitudini pastorali, dalle comodità, dai sentieri già conosciuti, e tracciarne di nuovi obbedendo alla parola di Gesù che ci dice: “Stai dietro a me”.

È molto consolante potere essere certi che sia il Signore a fare strada. A noi aprire l’orecchio, ascoltare e seguirlo.

Don Davide




La Preghiera, per dare voce allo Spirito

Tutti affannati ad esistere, ma c’è qualcosa che ci fa vivere davvero?

La presenza delle chiese di S. Maria della Carità e di S. Valentino della Grada, affacciate sulle strade che tutti i giorni percorriamo, sembra porre continuamente questo interrogativo.

Siamo presi dalle nostre incombenze, lo facciamo cercando di essere fedeli alle nostre responsabilità – e questo ci fa onore – ma c’è qualcosa che unifica tutto questo, conferendogli senso? C’è uno Spirito che anima il nostro vivere, facendo diventare ogni nostra relazione, ogni nostro impegno e il tempo che scorre inesorabile, sorgente di vita?

Una chiesa se ne sta lì – come nel caso delle nostre, da secoli – aperta la maggior parte delle ore del giorno, umile, silenziosa, accogliente. Non strepita, non dice: “Ehi, venite qui a trovare ristoro!” ma c’è.

La preghiera, per dare voce allo spirito

Qualcuno attende le sette di mattina per entrare puntuale, ad accendere una candela. Qualcuno, nelle mattine d’estate, non vede l’ora di ammirare il portone principale spalancato. Qualcuno, passando davanti, si fa il segno della Croce… Qualcuno non ci fa nemmeno caso che ci sia una chiesa. Si gode la protezione del portico che si confonde con gli altri di Bologna, ed è bello anche così: che ci sia una chiesa che vuole essere pienamente “dentro” la sua città.

La comunità cristiana gode della presenza di questi luoghi, dove dare voce allo Spirito, per sentirsi amati e imparare ad amare.

Vorrei che pensassimo ai molti gesti umili di preghiera che si compiono, quotidianamente, nelle nostre chiese. Certo, non si esauriscono in esse: si prega anche a casa, a scuola, nel luogo di lavoro, mentre viaggia… ma quello che avviene nelle chiese è simbolico e rappresentativo di tutto il resto.

Chi entra nelle nostre chiese ha la percezione di essere in un’altra dimensione: a S. Maria viene accolto dall’abbraccio della penombra e da un’aula maestosa, che ci fanno sentire allo stesso tempo umili e custoditi dalla maestà del Signore. Siamo come quei poveri che vengono accolti sotto il mantello di Maria, nell’antica immagine della Madonna della Carità. A S. Valentino, invece, si viene accolti da un abbraccio affettuoso e intimo, protetti in una piccola aula, dove sentiamo di potere dire ogni confidenza a Gesù.

Poi, si consumano tanti riti e pensieri. Le candele accese, le preghiere in ginocchio, il ricordo per una persona cara, le preoccupazioni per i figli, l’affidamento della propria salute, la tenerezza per la persona amata, le speranze per il lavoro o gli esami dell’università, le preoccupazioni della vita.

Tutto questo viene raccolto nella liturgia, che è la preghiera della chiesa, perché la raccoglie tutta, ogni parola detta, ogni pensiero elevato a Dio, in ogni parte del mondo. Nulla viene lasciato fuori.

Così il nostro spirito si dilata. C’è come un grande alito di vita che attraversa la nostra esistenza, la unifica, la rende coerente nei mille gesti quotidiani con cui cerchiamo di dare la vita per le persone che amiamo.

Ogni cristiano è testimone di questo: pregare è il primo atto dell’esistenza cristiana e, ancorché trascurato, è il più importante.