Cana di Galilea

Particolare delle Nozze di Cana di Giotto

Particolare delle Nozze di Cana di Giotto

Le domeniche del Tempo Ordinario riprendono da Cana di Galilea: una festa di nozze. Quando due amici si sposano, sappiamo che giunge al termine una fase della loro vita, ma contestualmente ne inizia un’altra, più bella e preziosa.

Nella nostra zona pastorale abbiamo dato l’annuncio della prima assemblea di zona il giorno dell’Epifania. Ora ci incamminiamo verso quell’appuntamento, che sarà il 17/03, prendendo lo spunto simbolico delle nozze di Cana.

C’è un tempo che si chiude, una fase della vita pastorale della Chiesa che cambia. È stato un periodo bello, caratterizzato da un vero e proprio “innamoramento” quando in ogni parrocchia ci potevano essere uno o due preti, parroco e cappellano, e tutta la loro vita era un bellissimo intrecciarsi di relazioni e di dedizione con la gente di quella comunità. Un ministero ben definito, un ruolo chiaro tanto ai preti quanto alle persone e gli incarichi unificati in quel tipo di servizio.

È stata un fase bella, niente da dire, ma adesso bisognerà cambiare, come una coppia di fidanzati amorevoli deve comunque cambiare passo una volta celebrato il suo matrimonio.

Mi ha sempre dato grande speranza l’immagine dell’acqua cambiata in vino alle nozze di Cana, questo simbolo che il meglio deve ancora venire, che il gusto migliore e più pregiato ci sta davanti e non alle spalle. Voglio pensare che l’esperienza delle zone pastorali sia così. Ci spero e sono fiducioso.

Ci sarà bisogno di riconoscere insieme come si configura il ministero, quando vissuto da più preti alla pari su uno stesso territorio e quando sia molto più esposto su tanti e diversi fronti. Ci sarà bisogno di scoprire come si può gioire della presenza dei gruppi giovanili in parrocchia quando non saranno più i “tuoi” o i “nostri” giovani, se non in senso molto più ampio. Ci sarà bisogno di sviluppare quella sensibilità che permette di percepire la comunione nella liturgia, nei progetti comuni, anche quando le cose non potranno essere fatte tutte e tutti insieme come accadeva in una normale parrocchia a guida unitaria.

Sarà fondamentale, in tutto questo processo, riconoscere non solo che Gesù ci dona un vino sorprendentemente migliore, ma che dobbiamo metterlo in un decanter adeguato (se è rosso), o in un cestello col ghiaccio (se è bianco) per valorizzarlo al meglio, perché non basta il vino buono e nuovo, ma il vino nuovo va messo in otri nuovi. Se invece noi lo volessimo appiccicare a schemi vecchi, dice Gesù, romperemmo gli otri e perderemmo il vino.

Il vangelo delle nozze di Cana conclude ricordando che quello fu il primo miracolo di Gesù. Chissà che anche per noi, quello delle future zone pastorali, non sia il primo miracolo che lo Spirito Santo e Gesù compiono per una Chiesa rinnovata e verso una nuova comunione?

Don Davide




Riscoprire il nostro Battesimo, per generare la Chiesa

Battesimo

In questo anno il vescovo ci ha affidato l’immagine della Pentecoste, come guida del cammino pastorale della diocesi, per richiamarci all’effusione dello Spirito Santo che genera la Chiesa.

Tale effusione si realizza per la Chiesa nel giorno di Pentecoste e, in modo particolare, ogni volta che si raduna per celebrare l’Eucaristia. Per ogni credente, invece, si realizza nel modo più alto possibile nel Battesimo.

Il battesimo (con la “b” minuscola) di Gesù al Giordano richiama il Battesimo sacramento (con la “B” maiuscola) proprio per questa discesa dello Spirito Santo: lo Spirito discende su Gesù in forma di colomba, come discende e impregna ciascuno di noi nel sacro rito dell’immersione nell’acqua battesimale.

Non c’è modo più adatto, per entrare in sintonia con l’invito del vescovo, che riscoprire, in questo giorno il nostro personale Battesimo: il giorno in cui il grembo della Chiesa ci ha generato alla Vita nuova e in cui lo Spirito Santo ha incominciato ad animare la nostra esistenza cristiana.

Ma cosa significa riscoprire il nostro Battesimo?

Quando avevo quindici anni, nel 1993, il Cardinale Biffi indisse il “Biennio della fede” in cui l’obiettivo era la riscoperta del nostro Battesimo, per poter considerare la nostra fede cristiana una cosa preziosa, un dono.

Per due anni sentivo parlare in tutte le salse – quando andavo in parrocchia, ai gruppi e ai ritiri – del bisogno di riscoprire il proprio Battesimo.

Ero positivamente disposto, e volevo riscoprire il mio Battesimo, ma non sapevo davvero che cosa significasse, o come si facesse.

Poi il “Biennio della fede” passò, come tutte le cose ecclesiali e io non pensai più all’urgenza di riscoprire il mio Battesimo. C’erano altre ansie nella mia vita… (Ancora oggi, il ricordo di questa esperienza mi fa pensare a quanto effetto abbiano alcuni nostri slogan ecclesiali… ma questa è un’altra storia…).

Fatto sta, che quando entrai in seminario e iniziai il corso di ecclesiologia (una “parolaccia” che vuol dire: teologia della chiesa) un professore illuminato che adesso è il vescovo di Modena cominciò a insegnarci che il Battesimo è il sacramento della nostra dignità, che un battezzato ha la stessa dignità del vescovo e del papa, e che riscoprire il proprio Battesimo significava sapere che io sono protagonista della vita della Chiesa e che non ho bisogno dell’autorizzazione o del mandato di nessuno per darmi da fare, per costruire la Chiesa, per essere annunciatore del Vangelo e testimone del Risorto.

Insomma, in pochi mesi diventai consapevole che la fede era una cosa di cui essere orgoglioso, e che era messa nelle mie mani – o meglio, nel mio cuore – perché io fossi protagonista della Chiesa che volevo generare.

Erano passati cinque anni da quando avevo sentito parlare dell’importanza di riscoprire il nostro Battesimo. “Ecco, cosa significava! – pensai – Potevano dirmelo prima!”.

Don Davide




Una dei Magi – Omelia Epifania 2019

I Magi

Il mio nome è Machedà, sono una dei Magi e questa è la mia testimonianza.

Non stupitevi che sia una donna.

Il profeta Isaia lo aveva indicato: “Tutti verranno da Saba, portando oro e incenso e proclamando le glorie del Signore.” (Is 60,6). Dal mio paese, Saba, venne la grande regina che visitò il re Salomone e io porto il suo stesso nome. Tutti conoscete Cleopatra, la regina egiziana. Tra i discepoli del Maestro ci furono molte donne, Maria di Magdala è la più conosciuta… ma c’era anche Giovanna, la moglie dell’amministratore di Erode (Antipa): in quella corte ottenebrata dal male, pare che solo una donna riuscì a trovare la via della luce.

Saba corrisponde alla zona del Corno d’Africa: le regioni dell’Etiopia, dell’Eritrea, della Somalia, ma anche dello Yemen e dell’Arabia Saudita. È un grande regno, dove neppure i Romani sono arrivati e che ancora oggi è governato da una donna: Candace.

Conosco bene il racconto che ha fatto Matteo del nostro viaggio, e non c’è nulla che contrasti con il fatto che qualcuno dei Magi fosse una donna. Non eravamo nemmeno in tre, ma “alcuni”. Non ricordo nemmeno io quanti. Si dice che i Magi vennero da Oriente, e le mie regioni, infatti, sebbene molto più a sud, rispetto a Israele risultano a est.

Incontrai gli altri quasi alla fine del viaggio. Erano stupiti anche loro che una donna si unisse alla carovana, ma non fecero obiezioni. Erano uomini immensamente saggi, illuminati nel senso più vero della parola. Che ci sia qualsiasi forma di discriminazione fra l’uomo e la donna, o mancanza di rispetto, o diseguaglianza nei ruoli, è una cosa di cui – dopo averli conosciuti e sapendo che dovrebbero ispirare generazioni e culture – non mi riesco assolutamente a spiegare.

Sembrava tutto magico nei passi che muovevamo.

Arrivati a Gerusalemme, chiedemmo dell’erede al trono. Tutti ci ammonivano, con un’ombra di paura negli occhi, di non parlare di eredi al trono, che il re non lo avrebbe tollerato e ci sconsigliavano vivamente di andare da lui. Poi fummo convocati e ricevuti.

Ricordo nitidamente il primo incontro. Era un uomo di cui tutti avevano timore, che si circondava solo di persone servili. Aveva l’animo oscuro e le mani brutte. I suoi occhi erano di serpente e la sua lingua velenosa: parlava con riverenza solo dei Romani, e solo a proposito del potere. Cercò di ingannarci e noi facemmo finta di credergli, perché avevamo avuto l’informazione che cercavamo.

Usciti da quella fortezza ci sentimmo rinascere. Il cielo grondava di stelle, ciascuno di noi era ispirato da una diversa, ma tutte si addensavano in direzione di Betlemme. Era meraviglioso. Non ho mai più visto uno spettacolo così incantevole. Provai una grandissima gioia, perché il cielo diceva che anche se c’erano persone meschine e orribili come il re Erode, il mondo rimaneva carico di promesse di bene. Io, Gaspare, Baldassarre e Melchiorre e tutti gli altri, nel frattempo, eravamo diventati amici. Venivamo da mondi diversi, guardavamo il cielo e ci sentivamo fratelli e sorelle. Questo bastava.

La luce, nel frattempo, si faceva accecante. Ci condusse a una casa e dentro trovammo un bambino. Gli altri rimasero momentaneamente interdetti: eravamo abituati alle regge e lì pareva che non ci fosse alcunché di regale. Poi io notai la sua mamma e capii subito che tutto lo splendore che cercavamo era nei gesti con cui quella giovane donna si prendeva cura di lui. Oh, non era perfetta, tutt’altro! Era impacciata, inesperta e trepidante, ma era… rapita dall’amore per lui. Se penso a quando ho imparato ad amare, penso a quando li ho visti per la prima volta.

Le rivolsi un saluto e lei ricambiò, come se ci stesse aspettando. Non aveva alcuna paura. Sembrava che il suo cuore esaminasse ogni cosa e avesse percepito che eravamo lì pieni di buone intenzioni. Il padre del bimbo ci fece accomodare, in realtà ci inginocchiammo. Sembrava una scena eclatante, ma non fu così. Ci venne totalmente spontaneo. Avevamo portato dei doni: capimmo che l’oro era adatto a quel bimbo, perché non lo avrebbe mai tenuto per sé, lo avrebbe usato bene o non lo avrebbe usato affatto. Non come Erode, o come quelli che discriminano le donne! L’incenso che offrivamo agli dei ci sembrò particolarmente adatto, perché tutto attorno aleggiava qualcosa di molto più che regale, qualcosa di divino, che non ci aspettavamo. Io, timidamente, offrii anche la mirra, la più pregiata tra i profumi d’oriente.

Ricordo ciò che accadde, come se fosse ieri. Gesù stava dormendo; quando sua madre aprì la mirra, l’odore intenso del profumo lo svegliò. Aprì gli occhi, ispirò profondamente e… sorrise. In quel risveglio, abbiamo intuito una profezia della resurrezione: fu la scintilla della nostra fede. Come ha scritto Giovanni: la vita si era fatta visibile e noi la vedemmo (1Gv 1,2).

Tornando a casa decidemmo di stare alla larga da Erode e, quasi subito, ci separammo.

Avrei voluto avere i miei amici vicini quando i messaggeri portarono la notizia che Erode aveva fatto uccidere tutti i bimbi di Betlemme. Mi sembrò di soffocare e mi chiesi perché l’esistenza dovesse avere così tanti contrasti: un re orribile e un bambino adorabile; la luce e le tenebre; la vita e la morte.

Poi un giorno, uno dei miei servi egiziani, mi parlò di una famiglia di ebrei, che vivevano nascosti in Egitto. Mossi la carovana per andare a visitarli e quando verificai che erano loro mi sentii di nuovo inondare di gioia, come quando ci guidavano gli astri. Per quattro anni feci loro visita regolarmente, diventai amica di Maria, sua madre. Lei si scherniva: una regina alla mia umile corte!? Ma la regina era lei, e io la serva.

Quando ripartirono per Israele, cominciai a desiderare sempre di più di depositare il potere e imparare a servire. Candace è mia figlia. Dopo che fu abbastanza cresciuta, lasciai a lei il trono. Anche lei è diventata cristiana, più che per la mia testimonianza, grazie a un suo servo, che fu evangelizzato da Filippo, l’apostolo (At 8,26-40). A parte noi, Magi, fu il primo a portare la fede al di fuori di Israele.

Ora sono vecchia, vecchissima. So che Tommaso è andato nelle terre dei miei vecchi amici, e che Maria è a Efeso, con Giovanni. Giovanni mi ha mandato alcune pergamene con il suo scritto. Ho letto che Tommaso volle vedere Gesù risorto. Io non l’ho mai più visto, né da adulto, né da risorto. Ma so che è vivo e io morirò da sua discepola. E, finalmente, lo rivedrò.

Don Davide




Lettera ai Magi

Carissimi Magi,

siete personaggi così affascinanti che vi rivolgo la parola come ad amici, col desiderio di accompagnare il vostro viaggio, di partecipare al vostro incontro e di seguire il vostro ritorno, come quando da bambino partivo insieme a voi dall’altra parte della casa, verso la capanna del presepe.

Vedo nel vostro seguire la stella, tre caratteristiche che ispirano anche il nostro itinerario.

La prima: il viaggio della pace. Dalle vostre terre, avete attraversato moltissime regioni del mondo, le più “calde” in termini di povertà e tensioni religiose e sociali. Se ancora oggi ripeteste il vostro itinerario, vedreste ogni forma di guerra e di violenza. Eppure, in qualità di adoratori di Dio e esperti della saggezza e delle scienze, avete solcato quei territori come costruttori di pace. Ci dite che è possibile, nella diversità di culture, razze, religioni e forme di governo, vivere ed edificare la pace.

La seconda: avete fatto il vostro percorso insieme. La tradizione ci obbliga a ritenere che non siate partiti tutti nello stesso momento e dallo stesso luogo, ma a un certo punto le vostre strade si sono unite, per tantissimi chilometri, fino all’incontro con Gesù bambino. Non deve essere stato facile sincronizzarsi con i ritmi dell’altro, aggiustare il passo, accettare le usanze, condividere il tempo. Mi piace immaginarvi a commentare le tradizioni culinarie, gareggiando e prendendovi in giro, come si fa tra emiliani e romagnoli. Voglio credere che siate un esempio e un modello per noi, che abbiamo iniziato quest’anno il cammino delle zone pastorali: abbiamo punti di partenza molto diversi, ma ad un certo momento siamo stati chiamati a fare la nostra strada insieme e a scoprire che questo lungo cammino, ci porterà con doni diversi ad adorare Gesù.

La terza: lo sguardo durante il vostro ritorno. Siete tornati indietro per un’altra strada: penso significhi che avete avuto altri occhi, il cuore trasformato e categorie nuove per interpretare le cose. Mi auguro che la stessa cosa possa succedere per noi, per la nostra pastorale. Che dopo un incontro vissuto intensamente con Gesù, e proprio grazie a quell’incontro, sappiamo avere una saggezza pastorale più adeguata alle sfide che i tempi ci pongono.

Don Davide




Un figlio e un bambino – Omelia Natale 2018

Il dono di uscire da noi stessi

“Un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio.” (Is 9,5).

Dio si rende presente in mezzo a noi nei panni di un bambino, in modo che si compia il miracolo di spossessarci di noi stessi, perché quando nasce un figlio, o ti viene dato un bambino, è così: il tuo tempo non è più riservato, ti dedichi completamente e diventi responsabile di lui.

Ho visto mio fratello quando è nato il mio primo nipote – immaginatevi un uomo grande e grosso, fintamente burbero e che mai avrei pensato che si potesse calare in questo ruolo – tenere in braccio suo figlio come un papà navigato. Si dice che quando nasce un figlio si impara subito a fare la mamma e il papà; magari c’è qualche impaccio all’inizio, però sei subito attenta e ci tieni ad accudirlo. Spesso le giovani mamme e i giovani papà accettano i consigli, ma sono anche gelosi del loro modo di prendersi cura dei bimbi.

Sottolineo: è una cosa che in parte si impara, ma che soprattutto è frutto quasi immediato di questo evento dirompente che sconvolge la vita per sempre, da un momento all’altro. Prima si era autonomi e si faceva quel che si voleva. Dopo c’è un altro e ci sarà per sempre.

Allo stesso modo Dio vuole realizzare in noi la vita adulta, l’uscita dal nostro egoismo, l’arte di non preoccuparci più di noi stessi e quella sorta di gelosia per la cura di un altro.

Una mia amica qualche giorno fa mi scriveva che la vita riserva sempre dei momenti stupendi, ma la leggerezza, quella è riservata all’età giovanile. Anche se sembra una riflessione un po’ amara, in fondo è vera: perché quando diventi responsabile di una persona non puoi più essere tanto leggero. Ci sono una gioia e un lusso legati a una perdita: hai sempre quel pensiero fisso, sei completamente portato fuori da te stesso.

Dio ci fa questo regalo: aprire il cuore e vincere la preoccupazione costante di salvaguardarci e proteggerci.

E se sei responsabile di qualcuno, vuole dire che sei prezioso, vuol dire che hai un ruolo ben preciso nella storia del mondo, vuole dire che senza di te quella creatura sarà un pochino più sola, e quindi è quanto mai importante che tu ci sia, che te ne prenda cura.

(Sento già l’obiezione: quindi chi non ha nessuno, chi non ha figli o ruoli, o è solo vuol dire che non vale? Vuol dire che non conta nulla? Ovviamente non è così, ma vi chiedo di pazientare ancora un attimo. Per ora voglio insistere su un altro aspetto.)

Il dono di Dio non si realizza solo quando nasce un figlio, ma ogni volta che qualcuno ti viene dato, perché tu possa essere fratello e sorella, padre e madre, qualunque sia il rapporto di età.

Ricordo le prime volte che, da giovane educatore, portavamo i bimbi a campi estivi. La sera gli preparavamo la camomilla e gli leggevamo i libri della buona notte. Fino al giorno prima a fare gli spacconi fra amici e a considerare dei poveretti quelli che perdevano il sabato pomeriggio dietro a dei cinni o una settimana d’estate a fare i campi, e il giorno dopo sei lì, seduto sulle scale di una casa vecchia e fredda, a raccontare le storie.

Una volta sgridai due ragazze del primo anno del liceo perché le avevo trovate ancora sveglie a tarda notte, con la torcia accesa sotto le lenzuola. Avevano dovuto scegliere se venire alla due giorni o studiare latino: avevano deciso di venire al ritiro, e stavano traducendo una versione di latino con la torcia, sotto le coperte per non farsi beccare. Alla fine mi sono messo a fare la versione con loro.

Dopo otto giorni di un campo itinerante, l’ultima sera, all’una di notte una ragazza mi confida di essere anoressica. Tu vuoi solo andare a letto, hai gli occhi che ti si chiudono, ma capisci che in quel momento devi essere lì, ascoltarla tutto il tempo che serve.

Nei nomi che vengono dati a questo “bambino” riconosciamo che il suo potere è di rendere chiaro il discernimento, di strapparci fuori da noi stessi, di insegnarci una maternità e una paternità sempre più dilatate, che vanno in entrambe le direzioni… dal più vecchio al più giovane, ma anche, notatelo bene, dal più giovane al più vecchio. Sì, anche voi giovani siete padri e madri, fratelli e sorelle per chi ha più anni di voi!

L’ultimo nome è “Principe della pace”. Quando sei strappato fuori da te stesso si compie il grande miracolo: è questa la via per la pace del cuore. Quel frastuono di calzature di soldato che cessa improvvisamente e quei mantelli intrisi di sangue che vengono bruciati nel fuoco, sono il segno di una guerra che finisce soprattutto dentro noi stessi.

Due volontarie della Caritas mi hanno raccontato di un imprenditore che, candidamente, si dichiarava razzista. Aveva una posizione di lavoro aperta e loro sono andate a parlargli per un ragazzo africano. Non si sa bene come abbiano fatto a convincerlo e ora… guai a chi glielo tocca! Gli ha dato la promozione e pure l’aumento!

Anche Maria e Giuseppe – soprattutto loro! – hanno vissuto concretamente questo segno: un figlio dato, un bambino nato. Le luce che improvvisamente spezza le tenebre. Una gioia moltiplicata.

Adesso mi chiedo che cosa significhi questo evento anche per chi non sente di potere dire: “Ho avuto una gioia moltiplicata…”

Ho davanti il volto dei tanti amici e amiche che soffrono perché non hanno l’amore; le donne che desidererebbero essere madri e non lo sono perché non possono o perché è passato il tempo, e che non sopportano le feste in cui si parla di pannolini e pappine; ho in mente uomini afflitti perché non hanno le risorse per corrispondere ai bisogni della famiglia; penso agli stranieri rifiutati e ai poveri non aiutati; infine le persone tristi, che non hanno motivo di gioia, e quelli che vengono scartati, non appartengono ad alcuno e non hanno nessuno per cui sentirsi utili.

Deve essere Natale per tutti.

Ho davanti il volto di ciascuna di queste persone e non ho risposte.

Vedo però che in questa semplice famiglia di Betlemme non c’è alcuna manifestazione di superiorità, o rivendicazione, o pretesa di essere un modello. Tutte queste cose gliele abbiamo aggiunte noi, dopo. Vedo più che altro la potenza di accogliere la vita così come si manifesta. Sono andati via da casa, hanno fatto un viaggio non corto, mentre erano in quel luogo Maria dovette partorire. E poi la descrizione di un gesto semplice, immediato, quello che era possibile: hanno avvolto in fasce Gesù e lo hanno messo in un lettino di fortuna.

In questa scena, non c’è nessuna pretesa di dire: “Fate come noi!” e allo stesso tempo nessuna rivendicazione del tipo: “Mannaggia, che momento per partorire!”. C’è solo una potentissima consuetudine ad accogliere la vita come si manifesta. Senza ombra di paragone, né pretesa, né giudizio o condanna per chiunque altro.

È proprio questo stesso segno che viene indicato ai pastori. “Troverete un bimbo così” (Lc 2,12): in esso si esprime l’incredibile benevolenza di Gesù e basta.

Che cosa significa sperimentare la benevolenza?

Ho pensato a una notte di Natale di tantissimi anni fa, non so dire di preciso se a San Vigilio di Marebbe o a San Cassiano in Val Badia, ma ricordo perfettamente il momento. Eravamo a messa e il coro cantò Stille Nacht in una maniera incredibile. Avevano i corni e quei vocioni da alpini cresciuti con la grappa nel biberon. C’era un’atmosfera unica: le luci soffuse, i corni, la musica, il freddo. Aveva appena nevicato. Io ero ancora un bambino e non capivo niente, ma c’era la mia famiglia, ed era tutto così bello che mi sentii rassicurato.

Non a tutti, purtroppo, capita di sentirsi così profondamente rassicurati. Molti combattono tutta la vita contro una fiducia di fondo che è loro mancata, perché ne sono stati privati.

Ma Dio, con la nascita di Gesù bambino, vuole che ciascuno di noi si senta così intimamente rassicurato. Questa è la benevolenza di Dio.

Forse, allora, il primo passo per tutti è affidarsi a questa benevolenza che ci ristora, poi ci aiuta a fare altri passi. Insieme, ci vogliono fratelli e sorelle, amiche e amici, padri e madri che non facciano mancare la propria presenza. E spero che, come per Maria e Giuseppe, dopo alcuni rifiuti si potrà aprire una porta dove trovare pace.

Don Davide




Betlemme, Bologna

C’è un tesoro quasi insondabile nel riconoscere che, tra gli eventi altisonanti del mondo, Gesù nasce nella casa di persone di cui non viene ricordato nemmeno il nome, in un ambiente affollato. 

Nessuno può sapere se quella famiglia, che si è stretta per fare spazio a due persone e a un nascituro, abbia mai realizzato di avere offerto ospitalità al Messia. Ci avranno pensato quando, nella vicina Gerusalemme, crocifissero un uomo di nome Gesù di Nazareth? Avranno ricordato di avere ospitato circa trent’anni prima una famiglia di Nazareth, che chiamò il figlio Gesù? E dopo, qualcuno di loro è diventato cristiano? Avranno scoperto che il Salvatore del mondo, il Cristo di cui ora professavano la fede, il Dio incarnato era quel bimbo che una notte ormai perduta nel tempo era nato nella loro casa, da una giovanissima mamma e da un papà premuroso? 

Ci piace pensarlo, ma non possiamo saperlo. 

Il Vangelo non ce lo dice non per un’imperdonabile trascuratezza riguardo a questa famiglia che avrebbe dovuto essere considerata enormemente per il suo gesto; né perché Giuseppe e Maria si siano scordati di chiedere i loro nomi, di ringraziarli e di tramandare questo gesto di ospitalità insperato; ma perché così, in questo non avere un volto, un cognome e un indirizzo, quella casa lascia una casella vuota che può essere occupata, in futuro e per tutte le generazioni dei secoli, dalla nostra famiglia e dalla nostra casa. 

Via Ugo Lenzi, Piazza della Resistenza, via dell’Abbadia come Betlemme. “Venne ad abitare in mezzo a noi” (Gv 1,14). Potremmo parafrasare così: “Venne [in quel tempo a Betlemme] ad abitare in mezzo a noi [oggi, qui nelle nostre case]. 

Non vorrei pensare solo all’immagine di qualcuno di noi che dà un letto di fortuna a Gesù, perché tutti i bed ‘n breakfast e tutti gli hotel sono occupati. Si potrebbero fare molte associazioni, ma non voglio limitarmi a questo.  

Voglio che pensiamo agli infiniti modi in cui nelle nostre case diamo ospitalità a Gesù, spesso in maniera che ci appare insignificante o totalmente irrilevante rispetto al corso della storia, ma che possono essere un gesto decisivo e un momento di redenzione del mondo. 

La grazia del Natale non è tanto sapere quello che possiamo fare noi, o essere contenti per come siamo “capaci”, ma riconoscere che nel suo venire in mezzo a noi, in quel modo discreto e nascosto, misterioso e semplice allo stesso tempo, Gesù ci trasforma e ci fa il dono di essere quello spazio accogliente e così decisivo, ancorché pieno di limiti – perché uno spazio residuale, che si porta dietro sempre tutte le nostre fatiche – per la salvezza più grande che sia entrata nella storia.  

Potremmo osare di riscrivere il Vangelo di Luca così: Quando non c’erano più gli imperatori, ma molti potenti che dominavano le nazioni; al tempo in cui non c’erano i governatori delle regioni, ma pochi ricchi che si spartivano le risorse del pianeta; quando Francesco era papa e Matteo vescovo, Gesù continuava ad entrare in molti modi nelle nostre case e a renderci protagonisti, senza che alcuno se ne potesse accorgere, della salvezza del mondo. 

A ciascuno di noi il compito di continuare la storia. 

Tanti auguri di buon Natale, vissuto santamente e con gioia! 

Don Davide




Natale 2018

Natale 2018

L’attesa è finita: tempo di incontro 

È Natale, Gesù è nato, l’attesa è finita: “Oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore!” (Lc 2,11). 

Si è avverato l’annuncio dell’angelo Gabriele a Maria: una giovane donna che pur senza aver compreso tutto pienamente, si fida e accetta di fare della sua vita un dono e con il suo “sì” cambia il corso della storia. 

L’attesa è finita: il grande evento si è realizzato, oggi è Natale! 

Natale indica una rinnovata esperienza di Gesù in mezzo a noi: siamo autorizzati a sentirlo vicino nelle cose liete come nelle difficoltà; nei momenti in cui siamo “bravi” e in quelli in cui lo siamo meno. Gesù sceglie di entrare in contatto concretamente nelle nostre vite. 

Il Figlio di Dio si è fatto carne, Egli è l’Emmanuele, il Dio con noi. 

Il mistero del Natale è luce, gioia, amore, pace, interpella ognuno e lo chiama alla riflessione. È vero che adesso la vita procede, a volte, in modo ansioso, sfrenato, convulso, ma ci sono anche momenti di serenità, di fiducia, commozione, apertura alla speranza perché i buoni sentimenti non possono durare solo il giorno di Natale. 

Certamente i pensieri restano e a volte ci assillano, non siamo immuni dal dolore e dalle preoccupazioni, per questo Gesù ha detto “Venite a me voi tutti che siete affranti e oppressi e io vi darò ristoro” (Mt 11,28). 

San Francesco d’Assisi diceva che l’amore chiede di essere amato, così il Verbo della vita che è nato in una grotta di Betlemme vuole trovare la sua casa in ognuno di noi, per essere amato e protetto. 

Amare Gesù significa amare le persone che ci sono accanto, a cominciare dalla famiglia, agli amici, alle persone che incontriamo in modo particolare se bisognose perché povere o perché sole. 

Una poesia di Madre Teresa di Calcutta inizia dicendo: “È Natale ogni volta che sorridi a un fratello e gli tendi la mano”. 

L’augurio di Buon Natale che ci scambiamo sia allora l’augurio di vivere pienamente l’incontro con Dio che in Gesù è venuto in mezzo a noi e ci è vicino. 

Don Davide




Avvento

Candele dell'Avvento 2018Tra i tempi liturgici che celebriamo lungo l’anno, l’Avvento è quello che ha iniziato ad esistere per ultimo.

I cristiani, all’inizio, cominciarono a riunirsi alla domenica per celebrare e condividere la fede in Gesù morto e risorto attraverso l’Eucaristia. Poi, iniziarono a celebrare una volta all’anno l’anniversario della morte e risurrezione con la festa della Pasqua.

Organizzarono, successivamente, la Settimana Santa e un tempo per celebrare con maggior ampiezza, la vita nuova di Cristo risorto: il tempo pasquale e un tempo di preparazione: la Quaresima.

Nell’anno 354 appare indicata per la prima volta come festa il 25 dicembre, che coincideva con la festa romana del “giorno del Sole” (la festa dei giorni che iniziano ad allungarsi), una festa che commemorava la nascita di Gesù e da qui nacque l’Avvento per il desiderio di prepararne la celebrazione.

L’Avvento è quindi il tempo liturgico di preparazione al Natale, in cui si ricorda la prima venuta del Figlio di Dio fra gli uomini e contemporaneamente è il tempo in cui, attraverso tale ricordo, lo spirito viene guidato all’attesa della seconda venuta del Cristo alla fine dei tempi.

Il tempo di Avvento comprende quattro domeniche: nella prima si contempla la gloriosa manifestazione del Salvatore alla fine dei tempi; nella seconda la persona e la predicazione di Giovanni Battista; nella terza, chiamata anche “domenica della gioia”, l’attenzione è ancora sul ministero del Battista. La quarta domenica di Avvento, ripropone gli eventi che precedettero immediatamente la Nascita di Cristo: contempliamo Maria, la Madre di Dio che porta al mondo il figlio suo, come anche Giuseppe, suo sposo.

La comunità parrocchiale è invitata a scandire queste quattro settimane meditando una parola ispirata all’Enciclica Laudato si’ di papa Francesco, mentre i ragazzi del catechismo faranno un percorso su altrettante parole, analoghe, che evocano l’ambientazione giocosa della cucina e lo slogan di prenderci gusto, secondo questo schema:

  ADULTI CATECHISMO
1 sett. SOLIDARIETA’ EUFORIA
2 sett. URGENZA MANI IN PASTA
3 sett. UGUAGLIANZA ATTESA
4 sett. PROFUMO SOBRIETA’

L’euforia del clima natalizio riverbera o dovrebbe riverberare la solidarietà di cui parla papa Francesco come via di fraternità e di nuova amicizia, che dovrebbe essere vissuta più facilmente proprio nel tempo di Natale.

L’urgenza ci richiama al bisogno di mettere le mani in pasta, di fare la nostra parte, di impegnarci nella storia di questo mondo, di non tirarci fuori.

L’attesa, tipica dell’avvicinamento alla festa di Natale, si esprime soprattutto come desiderio di uguaglianza. Attendiamo che tutti gli uomini siano uguali, che ci sia giustizia, diritti e pace per tutti e che tutti possano avere le stesse condizioni di bene per vivere la festa con le persone amate.

Infine, la nuova sobrietà che auspica papa Francesco ha esattamente il profumo di ciò che è buono, ed esprime la vita del mondo e di ogni uomo, come dovrebbe essere: qualcosa che non puzza, ma anzi, che profuma di buono!

Luciano e Isabella Bocchi

I catechisti e don Davide




Avvento 2018

Avvento 2018

Tempo gioioso per l’attesa di un incontro

La parola “Avvento” significa “venuta”, “arrivo”, e nell’antichità, anche prima del cristianesimo, era utilizzata per indicare il grande evento costituito dall’arrivo in città di un sovrano o di una grande personalità, che richiedeva imponenti preparativi.

Aspettare è un’occasione per riflettere su di noi, su quello che stiamo facendo, su cosa è importante per compiere le scelte con calma, per apprendere dalle esperienze della vita, per trovare le giuste priorità.

Nell’epoca del tutto e subito la possibilità di predisporci all’incontro col Dio che viene, col Dio che viene a salvarci, può apparire non più significativa. L’Avvento rischia di non essere più compreso.

Nell’Avvento prepariamo la celebrazione della venuta in mezzo a noi di Gesù, il Messia di Dio. Non come se non lo conoscessimo, come se fingessimo che ancora non è nato: sappiamo che è nato duemila anni fa, che ha vissuto la nostra stessa vita, che ci ha amato fino alla morte di croce, che è risorto. Preparare la festa della sua nascita diventa un’occasione per rivivere un atteggiamento di fede e di attesa della salvezza che lui viene a portarci.

È un’occasione per preparare la nostra vita così che Lui possa continuare a venire in noi: attraverso l’Eucaristia, la sua Parola, i sacramenti. Attraverso i nostri cari, i conoscenti, gli emarginati, i malati, i poveri, gli avvenimenti della nostra vita.

Arrivati al 25 dicembre potremo dire “adesso è Natale”, non perché mangiamo un panettone come diceva una pubblicità di qualche tempo fa, ma perché abbiamo incontrato il Signore della vita, colui che solo può dare sapore e significato alla nostra vita.

Don Davide




Nella casa di Betania

Nella casa di BetaniaIo e don Valeriano siamo certamente Marta e Maria (Lc 10,38-42), con l’unica eccezione che io non rimprovero don Valeriano affinché mi aiuti (in verità lui fa tantissimo, per tutti noi) e lui non se ne sta solo a contemplare il Signore (privilegia la preghiera, ma non solo).

Io sono lieto e rassicurato che lui si goda “la parte migliore” e che nessuno si sogni di togliergliela. Ne sono lieto, perché dopo le fatiche del ministero, dovrebbe essere lo sbocco per tutti i preti di potere rimanere nella propria “famiglia”, regalando quel tocco di sapienza che la vita ha insegnato; ne sono rassicurato, perché anche se io talvolta mi trovo a trascurare “l’unica cosa necessaria”, so che la preghiera di don Valeriano non manca mai e sostiene la crescita nella fede e nel servizio di tutta la nostra comunità.

Così, nel quarto anniversario dell’inizio del mio servizio, mi gongolo di questa somiglianza della nostra parrocchia con la casa di Betania. Un luogo dove in modi diversi si cerca di essere attenti all’accoglienza di Gesù, accettando da lui anche le correzioni su come ciò possa essere fatto meglio.

In effetti sento il bisogno di un rapporto più intimo con lui, più raccolto nella preghiera, nell’ascolto della sua parola e nella contemplazione. Mi chiedo se in mezzo a piani pastorali, sinodi e prospettive missionarie, la parte migliore e l’unica necessaria non sia ritrovare un’amicizia affettuosa e personale con Gesù, che tutti ci mettiamo con gli strumenti della nostra personalità e creatività a costruire questo legame a tu per tu.

E poi, nella casa di Betania c’è un fratello – Lazzaro – che non compare nella famosa scena del Vangelo di Luca, ma che conosciamo bene dall’episodio del suo risuscitamento da parte di Gesù (Gv cap. 11).

Lì veniamo istruiti su un affetto fortissimo che lega i tre fratelli e su un’amicizia tra loro e Gesù unica in tutto il Vangelo (come abbiamo scritto nel bigliettino di Natale). Mi piace pensare, allora, che in questa casa di Betania c’è anche un “fratello” impegnato là fuori, nella vita di ogni giorno: un fratello che è simbolo di ciascuno di voi, un fratello per il quale si prova un affetto smodato e con il quale si condivide un amore unico per Gesù.

Nella casa di Betania e nei suoi dintorni, Gesù ripetutamente ha voluto che i suoi più cari amici aprissero gli occhi sul mistero di un amore e di una vita più forti della morte e noi, insieme, non potremmo desiderare nulla che corrisponda di più e meglio alla sua volontà.

Don Davide