Due anni

Il 21 febbraio 2020 si è registrato il primo focolaio di Covid-19 in Italia, a Codogno, con 16 persone colpite. Nei giorni seguenti sono scattate le misure d’emergenza, sempre più restrittive.

Sono due anni che conviviamo col Covid.

Dobbiamo fare memoria di questi anni, senza dimenticarci delle strade vuote e delle città mute, della paura, delle case diventate un bosco da cui era difficile uscire. Sento un calore riconoscente per chi ha lavorato in condizioni di pericolo: non solo il personale sanitario, ma tutti coloro che hanno garantito i servizi che sono sempre continuati.

Due anni, per i nostri “Under 20” sono minimo un decimo delle loro giovani vite. Per molti, di più. Penso a chi ha iniziato ad essere adolescente, in questi due anni; a chi si era appena innamorato, magari per la prima volta, all’inizio della pandemia, nei mesi in cui veniva la paura persino ad avvicinarsi. Penso a chi ha festeggiato i 18 anni in lockdown o con il coprifuoco e a chi – quella domenica 23 febbraio in cui fu decisa la chiusura delle scuole – si trovava in quinta superiore e ha iniziato l’università a casa, davanti al suo computer.

Do un cinque (a mano aperta, con un bel contatto) a chi ha attraversato tutto col sorriso, ma sono anche sinceramente vicino a chi ha sofferto, a chi ha subito, a chi ha accusato il colpo.

Voglio ricordare, però, che in questi due anni c’è stata anche luce.

Tanta luce. Penso ai bimbi che hanno meno di due anni, che loro sono dei supereroi che il Covid se lo sono bevuti nel biberon, così piccolini, torri e alfieri nella partita a scacchi della Vita. Vedo i sorrisi: anche nascosti dalle mascherine, nessuno è sfuggito allo sguardo di Dio. Percepisco cuori pulsanti, e sappiamo che baci sono stati dati, a dispetto delle distanze, e carezze e abbracci. Mi rallegro con chi si è sposato, facendo slalom tra assembramenti e divieti. Omaggio i nostri amici che a febbraio 2020 si trovavano al primo anno di specializzazione nei pronto soccorso, a medicina d’urgenza, nelle terapie intensive, in pneumologia e infettivologia. Ringrazio, infine, chi ha tenuto la barra dritta, aiutando sé e gli altri.

Da questo ricordo impariamo che si può essere uomini e donne in due modi: si può essere “viventi” o si può essere “spirito datore di vita”, come Gesù (1Cor 15,45).

Spirito nelle lingue antiche è respiro. In altre parole si può “vivere e basta”, o si può essere “respiro che dà la vita”, proprio nel tempo di una malattia che colpisce i polmoni.

Si può essere respiro per chi fa fatica.

In questa scelta c’è la possibilità di sconfiggere la pandemia, sia negli ospedali che a partire dalle nostre vite.

Don Davide

 

*Elisa Biagini, Nel bosco, Einaudi, Torino 2007, p. 118.




Lungo un corso d’acqua (Under 20 testo+video)

È la festa di San Valentino, una bella festa per la nostra parrocchia e per tutti voi, che siete innamorati.

Oggi ci consegniamo un bel video, ispirato da un’immagine del profeta Geremia: “È come un albero piantato lungo un corso d’acqua, verso la corrente stende le radici” (Ger 17,8). Questi obsoleti personaggi che sono i profeti… hanno ancora qualcosa da dire sull’amore!

Che cosa c’entra il versetto col video?

Entrambi, insieme, ci insegnano alcune regole preziose dell’amore.

Non regole “da osservare”, ma tesori per vivere.

1)L’amore ha bisogno di sorgenti.

2)L’amore ha bisogno di radici, che permettano di attingere alle sorgenti. Il modo, i pezzi e i passaggi con cui voi costruite la vostra storia sono queste radici.

3)L’amore ha bisogno di tempo. Potrebbe accadere tutto subito, ma quando si dà tempo all’amore ci sono sorprese.

4)L’amore ha bisogno di molta comunicazione.

5)Comunicare è ben più che parlare.

6)Comunicare è condividere i sentimenti e le emozioni.

7)Amarsi è sempre comunicare e sentirsi vicini.




A noi lasciate l’amore

L’intervista concessa da Papa Francesco a Fabio Fazio, domenica scorsa, è arrivata a tantissime persone e ha suscitato molti commenti e opinioni.

Certo è che ascoltare le Beatitudini una settimana dopo, nella versione del Vangelo di Luca, con l’aggiunta di quei terribili “Guai” rispetto alla redazione di Matteo, ci obbliga a entrare nella prospettiva che ci ha indicato Papa Francesco: a considerare la Terza Guerra mondiale che si combatte a pezzi, le ingiustizie, la continua violazione dei diritti umani e le sofferenze degli innocenti.

Non c’è beatitudine senza la dimensione concreta della fratellanza, della giustizia e del sostegno reciproco.

Anche la celebrazione di San Valentino, nella nostra parrocchia, unisce due aspetti che potrebbero apparire contrastanti, per non dire antitetici: quello della sofferenza e quello dell’amore romantico. Potremmo pensare che l’amore è eccessivamente spiritualizzato e che la sofferenza ci riporta in modo crudo alla realtà. È bello, invece, che custodiamo entrambe queste attenzioni: la preghiera per chi sta male e la preghiera per essere capaci di amare.

In una scena di Suite Francese – un film bellissimo e struggente tratto dal romanzo di Irene Némirowsky – i due protagonisti si amano, pur essendo lui un ufficiale dell’esercito tedesco e lei una donna francese del paese occupato durante la Seconda Guerra Mondiale.

All’apice della loro storia d’amore clandestina, lei esclama: “Che altri facciano la guerra, a noi lascino l’amore!”. Nel contesto del film è una sequenza molto efficace per dire la follia della guerra, che divide chi ama, eleva la violenza a regola, l’odio o principio delle relazioni, l’ingiustizia come libero arbitrio e il male come condizione dell’esistenza.

È tutto l’opposto dell’amore e della cura.

Celebrando San Valentino come guaritore delle sofferenze e patrono dell’amore, quindi, non siamo portati a pensare cose zuccherose e melense, bensì ad andare al cuore della concretezza evangelica.

È il contenuto più semplice del Nuovo Testamento che ce lo ricorda, tramite l’apostolo Giovanni: “Chi ama ha conosciuto Dio” (1Gv 4,7) e “Nessuno può amare Dio che non vede, se non ama il proprio fratello che vede” (1Gv 4,20).

Don Davide




La vita in ballo (Under 20)

L’inizio.

C’è qualcosa che ha più fascino degli inizi?

Vi ricordate le vostre prime volte? La prima volta sulla bicicletta, il primo giorno di scuola, la prima volta che avete praticato lo sport che vi appassiona, il primo amore, il primo bacio?

Quando siamo stati chiamati all’esistenza, ci è stato dato un inizio che non avrà più fine: non con le esperienze che si aprono e si chiudono, non con il trascorrere del tempo, non con la morte.

Oggi vi porto a quel tipo di inizio lì: quando qualcuno ti ha comunicato la resurrezione di Gesù (e la tua) o quando tu hai sentito che, nonostante tutte le apparenze e contraddizioni, era vera.

In quel momento una luce è andata a ritroso all’inizio della tua esistenza e ti ha detto: tu esisti.

Prima non c’eri, e adesso sì. Ed è un gran bene che sia così e che questo bene non finisca più.

Non c’è interruzione che possa essere decisiva. “Questa è la fine?” dice il protagonista di uno dei miei libri preferiti, in un dialogo indimenticabile con la ragazza che ama. “No, è l’inizio” risponde lei.

Tu ci sei, la tua esistenza è una stella irreversibile accesa nell’universo. Splendi, a partire dal nucleo per irraggiare all’esterno, per rendere bellissimo e nuovo, con la tua sfumatura, l’eterno.

Don Davide




Pescare gli uomini

“Pescatore di uomini”.

Io questa trovata di Gesù, tra tutte, gliel’ho sempre invidiata.

Sono stati versati fiumi di inchiostro su questo versetto: “Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini” (Lc 5,10).

Tuttavia, la sensazione è che sfugga sempre qualcosa nella profondità abissale di questa sentenza, e che il suo significato sia allo stesso tempo più semplice e più inafferrabile di quanto non riusciamo a immaginare.

È una parola simultaneamente consolatrice ed esigente, incoraggiante e da fare venire i brividi, e perentoria.

Chiude il dialogo e tutta la scena. Produce immediatamente l’effetto decisivo.

Non voglio perciò azzardarmi io a proporne un’interpretazione. Preferisco lasciare aperta la domanda, scatenare la perplessità e la curiosità di tutti e stimolare la sensibilità di qualcuno.

Nella Giornata della Vita, sento che questa frase di Gesù è il modo corretto di entrare nel tema e nelle questioni.

I pesci, se li peschi, muoiono. Gli uomini, se li peschi, vivono, ma solo se lo fai con Gesù, altrimenti rimangono attaccati all’amo, prigionieri delle seduzioni umane e di altri mille uncini.

“Pescatori di uomini” mi sembra anche l’atteggiamento giusto per vivere la settimana di San Valentino.

Ci sono tante iniziative che sono state organizzate insieme a vari soggetti diocesani. Mi piacerebbe che tutti ci sentissimo partecipi gli uni degli altri.

Si tratta di testimoniare la chiamata che Gesù rivolge a ciascuno: una chiamata ad emergere verso l’Amore e aprire i polmoni, perché noi siamo uomini, non pesci; non respiriamo sott’acqua, ma nell’aria pura dello Spirito di Dio.

Don Davide




Le notti di Nicodemo

Vi era tra i farisei un uomo di nome Nicodemo, uno dei capi dei Giudei. Costui andò da Gesù, di notte, e gli disse: «Rabbì, sappiamo che sei venuto da Dio come maestro; nessuno, infatti, può compiere questi segni che tu compi, se Dio non è con lui» (Gv 3,1-2).

Che cosa smuove, di notte, Nicodemo?

Dal testo di Giovanni, a Nicodemo sembra apparire un Gesù conosciuto. Nicodemo, infatti, riconosce con certezza dai segni compiuti da Gesù che Dio è con lui e lo interpella come maestro. È facile pensare che sapesse della presenza di Gesù tra le strade di quel territorio e che Nicodemo conoscesse anche la provenienza di Gesù dalla Galilea, da dove – secondo la convinzione dei farisei del tempo – ‘non poteva venire niente di buono’ (cf. Gv 1,46).

Nicodemo evidentemente aveva fiducia di poter condividere con Gesù tutte queste certezze; va da lui di notte, con accortezza e prudenza, senza dare nell’occhio e si avvicina a Gesù per dirgli che ha capito tutto o, forse, che in realtà non aveva capito niente, dopo tanti anni di studio delle scritture. Dal testo è certo che non ha ancora fatto la domanda e Gesù già gli risponde e, probabilmente, alla domanda più profonda che non riusciva ad esplicitare nemmeno a se stesso.

Questo vale anche per ciascuno di noi.

Anche se pieno di certezze ti avvicini a Gesù almeno per farne una piccola esperienza, nelle notti della vita e sempre, egli ti accoglie come sei, per aiutarti a rinascere, come se quell’esperienza di amore vivo ti rendesse migliore a prescindere e per la sola tua disponibilità.

Proviamoci, come Nicodemo.




C’era una notte

Le notti di Nicodemo

Nicodemo è citato tre volte nel vangelo di Giovanni. Nella prima incontra Gesù di notte. Le altre due volte è riportato come colui che era andato da Gesù di notte.

Quanto è lunga questa notte o quante notti è questa notte?

In alcuni casi, la notte può essere davvero lunga o vissuta come tale. Ci troviamo davanti a un momento oscuro che sembra non finire mai e mentre sembra albeggiare, tutto appare ripiombare nella cupezza dei giorni più bui. Ci sono poi quelle notti che seppur brevi, ritornano come un appuntamento costante, come a ricordare un prezzo da pagare, una scelta sbagliata che si ripercuote come una vibrazione nell’acqua quieta. Altre volte è solo una notte, una tra le tante ma è quella che ti prende il cuore e te lo fa sobbalzare mentre pensavi che il suo pulsare fosse solo quello ordinario.

Di tutte queste notti in cui nasce una domanda Nicodemo ne è il segno e Gesù diventa la risposta.

Gesù, tra le diverse notti che i vangeli ci presentano, in questo tempo si manifesta in quella in cui la tradizione ci dice che nasce. Rigenera l’umanità e ciascuno di noi: ci tiene svegli al suo amore, come la sentinella attende l’aurora divina, luce che non tramonta.

Anche noi come Nicodemo, ci volgiamo a Cristo portando le nostre notti alla sua tenera culla luminosa, perché possiamo accogliere la Luce.

 

Francesco Paolo Monaco




Un amico prete (Under 20 testo+video)

Qualche anno fa ebbi una breve telefonata con un amico, di sera. Era stato un ragazzino della mia prima parrocchia, era cresciuto, si stava per laureare in Medicina e si trovava in Erasmus a Bruxelles.

Il giorno dopo mi raccontò che quando l’avevo chiamato era in un pub e aveva avvisato che si assentava cinque minuti, per salutare il suo amico prete. Dopo che era ritornato al tavolo, un giovane collega gli disse, testuali parole: “Io non ho mai conosciuto un prete, e tu ne hai pure uno che è tuo amico!”.

In Belgio è così: per molti motivi, anche brutti e tristi, di preti non ce n’è praticamente più.

In questa domenica, in parrocchia facciamo sentire la nostra amicizia a coloro che si stanno preparando a diventare preti. Sono pochi. Per quattro anni nella nostra città non diventerà prete nessuno.

So perfettamente che a molti questa cosa non interessa per nulla, per altri è addirittura meglio.

Ma a me dispiace.

Quando sono diventato prete io, nel 2003, c’erano ancora molti cappellani che stavano con i giovani negli anni più belli della loro crescita. Alcune delle amicizie più preziose che ho sono cresciute così: con dei ragazzi e delle ragazze con cui abbiamo camminato insieme per tanti anni, che adesso sono adulti, sposati, professionisti, con dei figli, in carriera, artisti… e che hanno un amico prete.

Con loro ho fatto di tutto: dal pregare nei posti più incredibili, al ripassare le versioni di latino alle 2 di mattina o cantare a squarciagola nei boschi, fino a giocare a scoutball in un campo con un metro di neve.

Ho pensato allora, semplicemente, di dedicarvi una canzone, per augurarvi di potere incontrare anche voi un amico prete e cantare insieme Hai un amico in me.




“Più grande di tutto è l’amore” (1Cor 13,13)

La liturgia ci viene incontro, nella seconda lettura di questa domenica.

Oggi in diocesi si celebra la Giornata del Seminario. Come ogni vocazione autentica, alla radice di tutto – anche della disponibilità a formarsi per diventare prete – c’è l’Amore e l’intuizione che quella sia la tua strada personale per amare nel modo migliore possibile

In più, ci prepariamo a due settimane molto intense.

Mercoledì 2 febbraio è la Festa della Presentazione al Tempio di Gesù, tradizionalmente conosciuta come la “Candelora” ed è il giorno in cui si prega per i Religiosi. Anche per tutti e tutte loro si tratta di una via particolare per amare personalmente, nella forma che si ritiene più adatta. Nella nostra comunità conosciamo e collaboriamo con tanti religiosi e religiose e preghiamo affettuosamente per ciascuno e ciascuna di loro.

Domenica 6 febbraio, la Chiesa italiana celebra la Giornata per la Vita; venerdì 11 di febbraio, giorno della Madonna di Lourdes, celebreremo l’Unzione degli Infermi nella messa alle ore 16. La cura della vita, in tutti i momenti della sua esistenza e in tutte le fasi, anche quelle della fragilità e della debolezza, è uno degli infiniti modi che abbiamo di esprimere concretamente il sentimento dell’amore.

Infine, la settimana seguente avremo tante iniziative per festeggiare il nostro patrono San Valentino.

Attorno all’ “Amore” – che vale più di ogni cosa – potremo incontrare tanti amici e tante amiche.

Ci aiuteremo ad attingere alla sorgente di questo amore nell’esempio di Gesù, che lo ha vissuto, lo ha insegnato e ha anche trasfigurato la sofferenza e ogni passione, perché ogni nostro tentativo per amare ed essere vivi, trovi nella Pasqua la giusta luce che lo illumini e che lo guidi.

Don Davide




Oggi (Under 20)

Tutta la settimana, pensando a cosa scrivervi, mi è ronzato in testa quell’ “oggi” (Lc 4,21), che Gesù dichiara come un tempo opportuno e prezioso da cogliere, fin dalla prima volta che insegna in sinagoga.

“Oggi” è una parola bellissima.

Lo faccio oggi. Sono felice oggi. Ti amo oggi.

Non aspetto domani.

“Oggi” è la parola che voglio consegnarvi oggi.

Il vostro tempo, la vostra vita, quello che provate, il vostro modo di sentire le cose è prezioso e va valorizzato adesso. Proprio ora, anche se la scuola è difficile. In questo periodo, anche se c’è la pandemia. Non attendete un momento migliore per dare alla vostra vita ciò che di buono e di bello potete darle oggi.

Quando avevo la vostra età ci entusiasmammo per un film che si intitola: “L’attimo fuggente”. Il motto era: “cogli l’attimo che fugge”. Faceva riferimento a un verso celeberrimo di Orazio che chi fa il liceo sicuramente conosce: “Carpe diem, quam minimum credula postero”. Ma la seconda parte non mi piace.

Questo “cogliere l’attimo” non è esattamente quello che intendeva Gesù. In questo c’è come la convinzione che il futuro sia un inganno, che devi prendere tutto subito, per evitare una fregatura.

Invece Gesù ha in mente un tempo pieno, che si dilata. Con l’aiuto di una mia amica professoressa, perciò, oggi correggiamo Orazio e diciamo: “Carpe diem, quam maximum credens postero”.

Vivete l’oggi e abbiate fiducia nel domani.

Don Davide