Morte, bene, casa, cristiani
In questi giorni abbiamo ascoltato tantissime parole. Quelle che venivano da lontano, confuse e quasi incredibili, che parlavano di un nemico con il nome, ma senza volto, che speravamo di non dovere combattere. Poi quelle autorevoli, di chi è deputato a prendere le decisioni: parole pesanti, che hanno necessitato la nostra obbedienza e di modificare la nostra vita. Infine, anche le parole sciocche, urlate, scomposte e stolte. Per fortuna, quest’ultime non erano da sole: cercavano di oscurare le belle testimonianze, le parole tenere e incoraggianti, quelle di amicizia e di solidarietà, ma hanno perso.
Per chi si dichiara discepolo del Verbo fatto Carne, è necessario essere attenti alla consistenza delle parole.
Tra queste, quattro in modo particolare: morte, bene, casa, cristiani. Le prime tre sono sulla bocca di tutti. L’ultima di nessuno, ma non è meno importante. Anzi, proprio il fatto che non venga pronunciata, la rende ancora più preziosa.
Tante persone morte: “Oggi sono morte n. persone.” In questo caso, la consistenza della parola morte ci rimanda dal numero alle persone. Non c’è un numero di morti; ci sono degli uomini e delle donne morti. “Chi ha pianto per quelle persone?” chiese papa Francesco nella famosa omelia di Lampedusa (08-07-2013). Insieme a quelle persone ci sono delle storie, qualcuno che piange (in quasi tutti i casi senza potere nemmeno celebrare il funerale) e che, nella difficoltà, sarà persino segnato da un trauma.
Dietro a quelle esistenze c’è anche un’infinita bellezza di cura: la fatica e la dedizione del personale sanitario, la solidarietà, la gentilezza di chi accudisce i malati, il gesto di chi ha offerto loro un telefono per chiamare chi non si poteva vedere, magari per l’ultima volta.
Ogni volta che pronunciamo la parola “morte” dobbiamo sentire un vissuto e tutta la sua consistenza.
E poi il pensiero della morte. Che arriva invisibile, improvvisa. Che colpisce mentre si pensava di essere invincibili e che i nostri stili di vita e la nostra economia fossero immodificabili. La possibilità della morte che terrorizza perché non sai da dove arriva il tocco.
Il pensiero alla morte, concreta, reale, plausibile, vicina, invadente, è sempre stato, nella tradizione cristiana, una meditazione sapienziale utile per acquistare saggezza. Attenzione, non si intende l’essere avvoltoi o sciacalli in una situazione di sventura: tutto il contrario. Il pensiero alla morte è stato un modo di neutralizzarne la forza orrorifica, per fare diventare la sua considerazione un esercizio per valorizzare e custodire la vita e le sue bellezze nel più puro dei modi.
“Tutto andrà bene” è la frase che ci si consegna come augurio e come incoraggiamento; lo slogan che si scrive sui post-it attaccati ai campanelli o sulle vetrine dei negozi, o come stickers di Instagram e Facebook. È un pensiero bellissimo, per la tenerezza che esprime e quel senso di cura con cui ci si vorrebbe rassicurare gli uni gli altri.
Qui, riscoprire la consistenza della parola bene, significa riconoscere l’appello che ne deriva.
Per qualcuno, purtroppo, non sta andando tutto bene. Ma questo non toglie la bontà dell’augurio o dell’incoraggiamento. Solamente, ci chiede di comprenderlo meglio e di farne buon uso: non per rassicurarci a basso prezzo o per metterci la coscienza a posto, ma per farci sentire la responsabilità per i fratelli e le sorelle.
Tutto andrà bene, se ci aiutiamo. Tutto andrà bene, se siamo solidali. Tutto andrà bene, se ciascuno si sforza di fare la propria parte, senza dimenticarsi degli altri. E quando tutto sarà andato bene, non disperdere il tesoro dei legami.
Non solo “restate a casa”, anche nella sua versione #iorestoacasa. Questo restare può essere interpretato più che altro come un tornare. Certo, ci siamo sempre stati a casa, ma non con quella sfumatura di intensificazione che è data dal restare e dalla consapevolezza di non avere alternative.
Le autorità ci hanno portato piano piano ad accettare di stare a casa e non senza qualche resistenza; proprio perché “starci” significava, in realtà, “tornarci” stabilmente, in modo fisso, creando una consuetudine che non lo era affatto. Gli stessi governanti hanno avuto bisogno – come noi tutti – di focalizzare la necessità di fermarsi davvero. Quindi, tornare a casa anche nel senso di intraprendere quel cammino a ritroso dalla nostra dispersione al luogo domestico, alla permanenza prolungata, a una obbligata riduzione del nostro efficientismo, alla riscoperta del tempo. Per alcuni (chi vive insieme o in famiglia) è tempo di legami strettissimi; per altri (chi vive individualmente) è tempo di grande solitudine. Non dimentichiamoci che “restare a casa” ha tutta la consistenza anche di queste sfide non facili, talvolta difficilissime.
Tornare a casa è sempre anche metafora di salvezza, come per il figliol prodigo, come per il tanto agognato Giardino di Eden, che aspetta un ritorno e che, paradossalmente, alla fine della Bibbia viene trasformato in una città, una città aperta, dove tutti si possono incontrare senza paura. Tornare a casa è la fine dell’esilio della nostra dimensione spirituale, contemporaneamente è la promessa/premessa della vittoria contro l’emergenza sanitaria, uscita dal nostro spaesamento e prospettiva di un avvenire sereno e pieno di incontri.
Questa parola nessuno la dice, eppure stiamo assistendo a un evento epocale e fino a solo pochi giorni fa inimmaginabile, il fatto – cioè – che le comunità religiose di tutta la nazione sospendano i loro riti. Non solo i cristiani, ma tutti. Qui, però, parliamo di noi, della consapevolezza di noi cristiani.
Le campane che si fanno vicine a un popolo che non può muoversi; le candele spente; le chiese vuote. La messa non partecipata. Le preghiere, però, niente affatto mute.
Chi l’avrebbe detto che ne avremmo sentito la mancanza? Ecco, dirci: “sono cristiana, sono cristiano” ci deve richiamare alla consistenza della nostra fede, a che cosa è importante e decisivo, a cosa ci caratterizza. Proprio questo silenzio grida alla nostra coscienza e consapevolezza. Ci fa compiere una specie di salto evolutivo sulla comprensione dei nostri gesti religiosi e nella qualità della nostra fede.
Di questi giorni dirsi: “sono cristiana, sono cristiano” ha tutto un altro sapore: ha il sapore amaro di una mancanza difficile; ha il sapore dolce di una sete che sa dov’è la sorgente.